"Il libro dell'alpe" di Giuseppe Zoppi (Armando Dadò editore, introduzione di Yasmine Tonini, con illustrazioni di Giovanni Tomamichel)

 

Sono anni che salendo verso la stazione ferroviaria di Lugano intravedevo la via Giuseppe Zoppi e alla fine ho scoperto che è stato uno dei più importanti scrittori ticinesi dello scorso secolo e ho deciso così di leggere il suo "Il libro dell'alpe" (Armando Dadò editore, introduzione di Yasmine Tonini, con illustrazioni di Giovanni Tomamichel) all'interno del mio percorso di scoperta della letteratura e della saggistica svizzera. Da quel che avevo trovato in rete su questo libro avevo già qualche perplessità e leggendolo i miei dubbi sono stati confermati. Pubblicato originariamente nel 1922 quando l'autore aveva 26 anni è una sorta di ritratto elegiaco della vita agreste/contadine nell'alta Valle Maggia (Broglio) dove l'autore nacque e trascorse la sua infanzia. Un libro di bozzetti della durata anche solo di poche righe in cui l'autore ripercorre sentieri per raggiungere l'alpe e intanto soffermarsi a descrivere, fra ricordi e tempo presente, la bellezza della natura, i ruderi, le case, i sentieri, i formaggi, le vipere, i predatori, i casari, gli alberi. Certo la morte è sempre presente, è facilissimo scivolare in una scarpata e quando s'incontra una vipera la si deve uccidere a colpi di sassi, ma pagina dopo pagina si finisce quasi per precipitare in un mondo fatato, paradisiaco, stucchevole e quasi irrealistico, ripulito da tutta la sua ferocia, le privazioni, il dolore, le fatiche, gli odori, il sangue che contraddistinguevano quel tipo di vita fra le montagne.

 

Nella bella introduzione Yasmine Tonini confronta questo libro a un altro libro: "Il fondo del sacco" (Casagrande) di Plinio Martini e che per me è uno dei capolavori della letteratura italiana dello scorso secolo e che invece offre uno sguardo della vita nelle valli e fra gli alpeggi in maniera realistica, feroce, brutale, senza abbellire e rendere digeribile una vita fatta di sofferenze, emigrazioni, povertà, abbandono, grettezza, invidia ma anche ovviamente di luci di intimità e amore.

Ecco io non sono un amante della montagna anche se ci sono andato spesso e soffro di vertigini, sono cresciuto a dieci minuti dalle prealpi e a mezz'oretta dalle Alpi e qui in Ticino i metri di pianura sono davvero pochi ma quando lessi il libro di Plinio Martini mi sentii a casa, sentii la bellezza della letteratura che scava nelle contraddizioni, che si fa carne e pietra, sangue e dolore, bellezza e solitudine mentre non riesco proprio a digerire le opere sulla falsariga di quelli di Zoppi che sembrano delle cartoline inviate da un mondo mai esistito o che vivono di quella retorica insopportabile che auspica un ritorno alle origini incantate, al mondo di una volta, alla bellezza e autenticità di vivere nei paesini senza tecnologia dove tutti si stava insieme, si faticava insieme, si cantavano le canzoncine, ci si conosceva tutti, i vecchietti morivano in famiglia e altre cazzate del genere.

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