"L'aria di un crimine" di Juan Benet (Einaudi, traduzione di Jaime Riera Rehren, prefazione Elide Pittarelo)

 

Nei dieci anni successivi alla guerra, il dottore aveva continuato a esercitare la professione di medico rurale, ma con minore fortuna rispetto al decennio precedente. Si era visto costretto a comprare un nuovo cavallo non da don Modesto, che era sparito nel nulla, sostituito ahimè da un prete entusiasta e violento che si era goduto la guerra distribuendo cazzotti persino nei giorni di messa – e a riprendere il lavoro come l'aveva cominciato tre lustri prima. Già in passato ci dava dentro con l'alcool – soprattutto con un'acquavite secca, poco aromatica e da sessantaquattro gradi, orgoglio delle Cantine Carrión -, ma era stato da allora che quest'abitudine aveva preso il sopravvento su qualsiasi altra nella sua vita. Era un uomo di altezza media, molto magro ma robusto, capace di assorbire molti eccessi. Non gli si vedevano venuzze sulle guance né aveva messo su pancia, ma emanava un fiato da laboratorio (come se dentro rinchiuse tutta un'esperienza conservata in formalina), ed era diventato un uomo indolente, che mangiava appena, con braccia e gambe scheletriche e macchie scure sulle mani. Ma anche sbronzo era in grado di amputare un braccio a un trivellatore o tirar fuori un bambino mal posizionato, e nei villaggio del bacino minerario – sempre più bacino e meno minerario – si diceva che, a parte la sua naturale bontà, le ricette a buon mercato e le insignificanti parcelle, la sua principale virtù come medico o chirurgo d'urgenza risiedeva nel sistema di anestesia naturale che praticava col respiro. L'alcol e il sistema sanitario pubblico finirono per emarginarlo, e dopo pochi anni era un uomo che reggeva a malapena i colpi della vita.” (pag. 79)

Che bello girovagando per le corsie di una biblioteca scoprire per caso uno scrittore e uscire talmente rapito da questo incontro da aver subito voglia di leggere altre sue opere. Sto parlando dello scrittore spagnolo Juan Benet (1927-1993) del quale per Einaudi, con la traduzione di Jaime Riera Reheren e con una bella e necessaria prefazione di Elide Pittarello, è appena stato pubblicato “L'aria di un crimine”, uscito originariamente nel 1982. “L'aria di un crimine” è un romanzo spiazzante per come, partendo da un impianto poliziesco con un cadavere trovato in una piazza di un paese immaginario della Spagna profonda degli anni '50, esplode in una miriade di sfumature e percorsi sfuggenti, melmosi, stupefacenti, realistici, favolisti, crudi dove si mescolano i fantasmi e le macerie della Guerra Civile (il padre dell'autore, avvocato, fu fucilato dai Repubblicani), echi faulkneriani con queste famiglie impazzite/violente/feroci/dementi/imparentate/deformi, paesini silenti sommersi in una coltre di silenzi/vendette/complicità/segreti/meschinità, le atmosfere de Il deserto dei Tartari con la fortezza/caserma/prigione che domina il paesaggio e il capitano Medina che insegue inutilmente in un paesaggio scheletrico due disertori/criminali di bassa lega che sembrano usciti da un poliziesco francese insieme alla maitresse Tacon e Chiqui, la sua giovanissima e bellissima puttana, usata come merce di scambio e mezzo di sopravvivenza, le esplosioni di violenza in quello splendido (ma che arriva quindici anni dopo, nel 1997) romanzo che è Soldi bruciati di Riccardo Piglia, l'esplorazione dei meccanismi e intrecci del potere/politica/affari/provincia di Leonardo Sciascia (letteralmente da brividi la sottigliezza con cui l'autore scava nelle contraddizioni del regime e delle relazioni umane senza mai diventare pedante o educativo), il dottore ubriacone (Sebástian) e l'amico (Fayon) tornato dall'esilio che nei loro discorsi/supposizioni/divagazioni alcolichi sembrano usciti da quel capolavoro e uno dei romanzi della mia vita che è Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. 

Un romanzo che con una lingua densissima ti porta a spasso fra morte e miseria, fra devastazioni e meschinità, fra leggende e omicidi consumati con una semplicità che lascia senza fiato, fra chiacchiere da bar e cimiteri. 

Bellissimo.

Un estratto:

L'appartamento era angusto e buio, benché fosse un attico, situato in quella raccolta sfera del peccato dove non si permette il pieno accesso alla luce; isolato dalla strada e dall'esterno per mezzo di cortili, persiane, graticci e tende esanimi che proteggevano e consumavano il sonoro tic-tac di un recondito orologio da cucina che in permanente esposizione dettava la sua aritmica litania, in un ambito appartato della vita del pianeta, retto dal battito di una divinità rozza, colma di volgarità. In culto del braciere, della bacinella, della spazzola aveva impregnato il tempio di un odore particolare, come l'odore di un pettine, esito di un ristretto numero di molecole organiche in una proporzione inalterabile, per la quale l'amore – meno di qualsiasi altra gerarchia – non potrebbe mai reclamare una maggiore partecipazione della sua truppa, unito indissolubilmente al neutro ed esausto chiaroscuro risultante da una sfortunata mistura di lacche e tinture spurie. Il capitano non aveva mai saputo adattarsi al salottino, riconoscere questa sensazione di rottura. Non poteva reprimere un tremore, tanto piú percettibile in quanto sottile, che lo costringeva a mantenere in tensione le sue membra per assoggettarle, come se il centro che garantiva il suo equilibrio avesse rifiutato di entrare nell'appartamento e lui – l'io senza anima – abbandonato dal suo piú intimo e ferreo nucleo – dovesse occuparsi di tali funzioni, di solito eseguite da un anonimo e sconosciuto subalterno sempre ai suoi ordini. Seduto sulla poltroncina, era un corpo costituito da inquieti e vulnerabili filamenti in un contenitore senza forma gettato in un vortice immobile di incipienti forme vive che, avendo scelto la metamorfosi verso un elevato stato adulto, fossero state strappate dal loro habitat intermedio e portate in un altro dove i loro limitati moventi non avrebbero trovato una via d'uscita verso la sopravvivenza.” (pp. 153-154) 


 

Commenti

Post più popolari