"Last taxi driver" di Lee Durkee (Edizioni Black Coffee, traduzione di Leonardo Taiuti) uno dei miei libri dell'anno

 

Se vi capita di guidare nei pressi di un campus universitario comportatevi come se fossero tutti sonnambuli o in overdose da Ambien. Una volta mi sono dovuto fermare in mezzo alla strada perché uno studente con lo sguardo fisso sul telefonino è venuto a sbattere sul mio paraurti.” (pag. 127)

Non sapevo nulla di Lee Durkee che, dopo un esordio a quanto pare bellissimo era sparito dai radar del mondo letterario, prima di leggere un suo bel pezzo pubblicato su La Lettura ma dopo averlo letto non avevo avuto nessuna voglia di andare a cercare in rete ulteriori informazioni su di lui ben consapevole che è anche per questa noia che mi sale che ho perso la voglia e l'interesse di scrivere recensioni giuste, di far parte di un certo mondo culturale di cui non è mi è mai importato proprio nulla per poi magari dopo aver pubblicato qualcosa finire per tenere il solito corso di scrittura o scrivere su qualche giornale per tenersi a galla, trovare il proprio spazio in un ambiente, darsi un tono, star dentro al dibattito culturale/politico/sociale/sociologico/monetario.

Mi ero limitato a segnare questo titolo sul mio blocco appunti di romanzi da leggere e quando ho trovato sullo scaffale dello biblioteca "Last taxi driver" (Edizioni Black Coffe, traduzione di Leonardo Taiuti) l'ho preso subito in prestito in attesa di ricevere il programma di lavoro settimanale (e mentre sto scrivendo queste righe di merda non è ancora arrivato niente perché fino a mercoledì quando le restrizioni di consumo all'interno del cinema non verranno allentate io non potrò lavorare). 

A me basta leggere senza alcun impegno e contratto, provare a scrivere e se non va bene sono solo cazzi miei.

Però appena ho aperto "Last taxi driver" ho capito che era arrivato un libro della madonna ma davvero della madonna.

Bellissimo. Struggente. E cristo ci sono dei passaggi che sono scritti in maniera incredibile. Pieni di una sensibilità e di una perfezione stilistica che mi hanno lasciato senza fiato. Senza mai alcun tipo di ricatto che soddisfa il lettore o la critica. Quella di questo romanzo è una giornata di un taxista che è uno scrittore, genitore, padre, amante, fidanzato e pure taxista che sta di merda, con la testa e la vita a pezzi e in piena friggitura, pagato un cazzo di niente, schiantato in un buco di culo di mondo come il Mississippi, che incontra e rincorra gli UFO, che s'aggira per le strade di un'America che fa schifo e sembra il terzo mondo a colpi di scuole disastrate/carceri private/paghe da fame/sanità al collasso e che l'autore fa a pezzi dalla prima all'ultima pagina portando a spasso dentro a un taxi a pezzi il lettore/passeggero/protagonista/angelo  fra motel a pezzi che ospitano suicidi, tossici, prostitute e mostre d'arte e ospedali raccogliendo tossiche scheletriche di metanfetamina (la droga che ha sempre strizzato l'occhio al sottoscritto), fuggitive da istituti di riabilitazione, vecchiette che si sono appena rifatte l'anca e che amano la lettura, vecchi che vivono in roulotte assediate dalle cavallette, pagine di Buddhismo che si scontrano contro una pistola pronta a freddare quelli che ti rompono i coglioni, gente che scappa da un trapianto di fegato o dal carcere, sedili che puzzano di piscio e lattine di Red Bull seccate con una bella pastiglia di Alderan e parcheggi e un pronto soccorso dove ricevere un sorriso che ti scalda il cuore dopo tanto tanto tempo su una barella diretto a una sala operatoria.

Un romanzo che all'apparenza potrà sembrare l'assemblaggio raccolta di racconti ma che ha una sua compattezza perfetta, sboccata, irriverente e piena un'umanità unica che mi ha ricordato le pagine migliori di Hubert Selby Jr e che mette i brividi mentre la si legge col coraggio e la voglia di non fare altro.

Oggi in Svizzera è festa e per me questi erano un po' gli ultimi giorni di lavoro duro al cinema prima dell'arrivo dell'estate e di un calo di ore lavorativo (sono un lavoratore a ore/chiamata che se non lavora non percepisce alcun tipo di reddito) e mentre leggevo questo libro mi è salito il magone pensando a tutte le mattine vissute al cinema coi residui delle nottate assiepato di fronte al baracchino di Togo in piena fame chimica o in attesa di un taxi per tornare a casa, puttane piene di cocaina che lanciavano le scarpe col tacco, papponi coi portafogli pieni di soldi, ragazzine in minigonna e senza mutandine e soldi che contavano le monete per farsi portare in stazione, gente che vomitava prima di assaggiare il panino con la salamella, agenti di sicurezza a fine turno affamati e coi muscoli ancora gonfi delle risse della serata e il volto angelico della ragazza lasciata dal ragazzo o il muratore che fa ruggire l'auto truccata perché non ha potuto scopare e poi ci sono io che porto fuori i sacchi dell'immondizia e cerco di non sprofondare nell'angoscia e di tenere a bada tutti i miei mostri e la voglia di vomitare e che mi fermo a parlare con una ragazza che sta bevendo a canna da una bottiglia di vodka alle 6 e 20 di mattina e mi chiede “Tu ci credi in Dio?” e io “No” e lei “Tu ci credi nella vodka?” “Meglio la vodka che Dio” e lei che si mette a piangere e io che la consolo e poi le dico “Mi dispiace, devo andare a lavorare”.

Ecco, io mi sono commosso perché in questo libro viene raccontato in maniera splendida un passaggio come questo che vi ho raccontato. Quando uno potrebbe fare una cosa ma ne fa un'altra ma cos'altro avrebbe potuto fare?

Accidenti, Tumore Max se n'è dimenticato. A questo punto alcuni di voi staranno chiedendo, Riporterà la pizza al motel? No che non ce la riporto. Invece di fare la cosa giusta mi butto a sedere nel parcheggio del pronto soccorso e ne trangugio una fetta. Spiacente, tizio col cancro in stadio avanzato, ma è la mia regola: qualsiasi cosa venga dimenticata sul taxi che non sia un cellulare o un portafoglio diventa una mancia. Cellulari e portafogli dobbiamo consegnarli alla polizia – aspettando al massimo fino alla fine del turno – mentre il resto ce lo teniamo. Ecco la mancia che non mi hai dato, mio canceroso amico, l'hai fatto col subconscio, mi hai ricompensato con questo cibo per averti scaricato per ben due volte le valigie e avermi costretto ad ascoltare quella storia raccapricciante sulle pustole genitali che mi perseguiterà finché avrò vita. Do un altro morso e mastico bene. È una pizza a base sottile di Pizza Hut, fredda come il cartone, e sa di sofferenza.” (pag. 101)

Chiudo qui.

Ho finito.

Ma ho ancora sei birre di scorta nel frigo.

E la giornata è ancora lunga.

 

 

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