"Nessuno scompare davvero" di Catherine Lacey (SUR, traduzione di Teresa Ciuffoletti)

 

Andarsene via all'improvviso. Mollare tutto senza offrire giustificazioni. Scappare via lontano. Provare a mettere a tacere le voci che si hanno in testa. Volere rimanere soli ma non riuscire a fare a meno degli altri. Abbandonare qualcuno che non abbiamo mai amato ma che non smette di farsi sentire nel nostro cuore, opprimerci, tenerci legati. Camminare col dolore che vi mangia da dentro. Subire l'accusa di essere malati di mente. Rispondere a domande che sembrano costruite apposta per rinchiudervi in posti dove tutto andrà bene, dove starete tranquilli, dove vi hanno promesso che verrete curati. Accettare passaggi da sconosciuti e farvi portare ovunque e avere paura e non capirci nulla e lasciarsi trascinare dalla corrente, dalle parole, dalla strada, dall'alcool. Andarvene nella notte da case/stanze/ostelli/roulotte dove vi sentivate prigionieri. Tornare in luoghi dove un tempo vi sentivate al sicuro e dove invece trovate solo silenzi, feste del cazzo, abbracci indesiderati. Telefonare a un parente o a un amico o a un'amica che non vuole affatto sentirvi e sentirvi di merda per quanto siete infantili, soli, persi. Sedervi al bancone di un bar e volerci restare per sempre.

Tutto questo lo troverete nello splendido, angosciante, commovente, disturbante romanzo d'esordio Catherine Lacey "Nessuno scompare davvero" (SUR, traduzione di Teresa Ciuffoletti) e mi sono sentito tantissimo come la protagonista e voce narrante Elyria che molla il marito e scappa via da New York per rifugiarsi in Nuova Zelanda.

Il tumulto dei suoi pensieri, della sua mente che incessantemente analizza il suo passato, la sua relazione sentimentale tossica, il suicidio della sorella adottiva, il vuoto della sua vita sono resi magnificamente da una scrittrice di talento purissimo. Appena iniziato non sono più riuscito ad abbandonarlo e mentre lo leggevo ho pensato alla volta che mollai di botto l'università. 

Quel giorno strappai tesserino, libretto e camminai per ore per le vie di Milano fumando centomila sigarette prima di tornare a casa e dirlo ai miei genitori. Gli feci perdere dieci anni di vita. Mia sorella mi disse che ero un coglione. Eppure mentre stavo malissimo sentivo che era forse la prima cosa buona che facevo per me stesso da tanti anni. Mi liberai di un peso sull'anima che mi stava uccidendo da dentro. Le settimane prima di lasciare l'università avevo smesso di frequentare le lezioni, la Statale di Milano mi soffocava e preferivo girare all'infinito sulla metropolitana o camminare o sedermi da qualche parte e ubriacarmi.

Non rimpiango quella scelta ma quel giorno non fu certo l'inizio di un periodo felice.

Anzi ma la gioia dolorosa di aver abbandonato quel mondo e di essermi ripreso almeno per un giorno la mia vita non mi ha mai abbandonato da allora.

Un estratto:

"Non c'era modo di rispondere a quella domanda e io non sono una che cerca di spiegare una cosa se non c'è una spiegazione, e allora andai nell'orto e misi a strappare roba da terra finché non sentii che il sole mi stava arrossando il cuoio capelluto e i muscoli della schiena tremavano scossi da tante piccole contrazioni, finché le erbacce non furono accatastate in un mucchio avvizzito, e l'unica cosa che riuscivo a pensare era che ne sarebbero spuntate altre l'indomani e non sarebbe stato meglio per il mondo se tutto fosse rimasto fermo, se ogni cosa avesse proprio smesso di crescere? Forse sì, ma tanto non succede, noi non ci fermiamo, continuiamo a spuntare e a vivere e a cercare di combinare qualcosa e a morire, e perché tutti questi viticci e queste foglie continuano a darsi da fare di anno in secolo all'infinito? Perché alla fine, diciamocelo, moriranno strangolati da un'altra erbaccia o seccati dal sole o gelati dal freddo o mangiati dagli opossum o dagli insetti o dalle persone. E mi chiesi anch'io cosa mi era preso, a me o a una persona come me, e mi chiesi cos'era che mi spingeva a fare cose del tipo mollare la mia vita di punto in bianco, e in quel momento non lo sapevo che cos'era, perché allora non lo potevo sapere e a malapena lo capisco adesso cos'era o cos'è che mi ha spinto ad andarmene. Forse il nostro cervello è una macchina che trasforma le informazioni in sentimenti e i sentimenti in decisioni e a quanto pare la mia macchina è stata assemblata in modo strambo e ha un modo strambo di tradurre la vita, ma io non so come aggiustarla: non sono una riparatrice di macchine cerebrali, sono solo una portatrice di cervello come chiunque altro, e nessuno sa come si fa a riparare sé stessi, non del tutto se non altro, non abbastanza bene." (pp. 122-123)



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