NESSUNO TOCCHI CAINO - IRAN, PER IL DOPO-ROUHANI PRONTO IL ‘RE DELLA FORCA’
NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS
Anno 21 - n. 22 - 29-05-2021
Contenuti del numero:
1. LA STORIA DELLA SETTIMANA : IRAN, PER IL DOPO-ROUHANI PRONTO IL ‘RE DELLA FORCA’
2. NEWS FLASH: NON CHIAMATELA PREVENZIONE, QUESTA E’ UNA PERSECUZIONE
3. NEWS FLASH: INDIA: 13 ASSOLTI NEL CASO DEL MASSACRO DI SENARI
4. NEWS FLASH: CORTE SUPREMA: PENA DI MORTE CONFERMATA PER LA ‘RAPITRICE DI DAMMAM’
5. NEWS FLASH: CALIFORNIA (USA): COMITATO RACCOMANDA L'ABROGAZIONE DELLA PENA DI MORTE NELLO STATO
6. I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : DESTINA IL TUO 5X1000 A NESSUNO TOCCHI CAINO
IRAN, PER IL DOPO-ROUHANI PRONTO IL ‘RE DELLA FORCA’
Elisabetta Zamparutti su Il Riformista del 28 maggio 2021
Hassan Rouhani lascia la Presidenza dell’Iran dopo otto anni e oltre
4.530 esecuzioni compiute durante il suo mandato, che aveva preso avvio
nel 2013 con una riconferma nel 2017.
Sette sono i candidati alle presidenziali del 18 giugno, tutti vagliati
dal Consiglio dei Guardiani secondo regole chiare. Devono essere maschi,
sciiti e ferrei sostenitori del principio del velayat-e faqih cioè del
potere clericale assoluto che poi è quello della Guida Suprema. Uno tra
tutti è il favorito. Quello che ha il sostegno di Ali Khamenei, la Guida
Suprema appunto. È Ebrahim Raisi, il capo del sistema giudiziario
iraniano. Ha firmato l’accettazione della candidatura l’ultimo giorno
utile. Pressoché in contemporanea alla firma dei moduli presso il
Ministero dell’Interno, Raisi ha firmato altri quattro “moduli”: gli
ordini di esecuzione di quattro condanne a morte che da lì a poco sono
state portate a termine. “Cambiamento” e “gioventù” sono gli slogan
della sua campagna elettorale. Slogan paradossali per un probabile
presidente che da capo del giudiziario non ha cambiato registro sulla
pena di morte, anche nei confronti dei minori.
Il primo a salire sul patibolo, all’alba del 15 maggio, è stato
Ali-Morad Zabihi impiccato nel carcere di Qazvin per un’accusa di droga.
Il giorno successivo è stata la volta di due altri giovani uomini: Amir
Bayati, impiccato all’alba nel carcere di Shiraz per un omicidio non
intenzionale avvenuto durante una rissa per strada; Jamal Mohammadi,
ucciso nel carcere di Ilam per aver ucciso un suo superiore a seguito di
un diverbio. Infine, il 17 maggio, mentre il sole si alzava sul cielo
di Isfahan, nel carcere della città, saliva sul patibolo Mehran Narouei,
un laureato in scienze politiche di etnia baluci. È stato impiccato
dopo cinque anni nel braccio della morte per un reato legato alla droga,
nonostante la pena gli fosse stata sospesa.
Nessuna di queste quattro esecuzioni è stata resa nota dagli organi di stampa ufficiali iraniani.
Da quando, nel marzo del 2019, Raisi è divenuto Capo della magistratura
per scelta diretta della Guida Suprema, le esecuzioni si sono succedute a
un ritmo di circa una ogni due giorni. Durante le elezioni
presidenziali del 2017, quando Hassan Rouhani ed Ebrahim Raisi si
contendevano la Presidenza, il primo ebbe a descrivere il secondo come
un individuo appassionato di gabbie e forche. “La nostra gente – aveva
detto Rhouani – non sceglierà chi negli ultimi 38 anni si è occupato
solo di esecuzioni e prigioni”.
In effetti Raisi ha ricoperto diversi ruoli importanti nella
magistratura iraniana prima di arrivare al vertice: Procuratore dal 1980
al 1994, Vice Capo della Magistratura dal 2004 al 2014, Procuratore
Generale dal 2014 al 2016. In tali vesti ha detenuto, torturato e
giustiziato migliaia di uomini e donne. In un’occasione, ha lodato
l’amputazione della mano di un ladro, definendola “punizione divina” e
“fonte di orgoglio”. Raisi ha fatto anche parte della “Commissione della
morte” che nel 1988, nell’arco di poche settimane, decise e mise in
atto per ordine dell’allora Guida Suprema, l’ayatollah Ruhollah
Khomeini, un massacro di oltre 30 mila prigionieri politici, soprattutto
Mojahedin del Popolo.
Ebrahimi Raisi è sottoposto a sanzioni USA dal marzo 2019.
È tra i “Volti della repressione in Iran” che come Nessuno tocchi Caino
abbiamo chiesto all’Unione Europea di inserire tra i soggetti
responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.
È notizia di questi giorni che Mehran Gharabaghi e Majid Khademi, due
ragazzi di 29 anni arrestati nel gennaio del 2019, sono sotto processo e
rischiano l’esecuzione per legami, veri o presunti, con quel movimento,
i Mojahedin del Popolo, che cercò di annegare nel sangue trentatré anni
fa. Pochi giorni fa, a processo ancora in corso, il Ministero
dell’Intelligence ha preannunciato l’esecuzione di Mehran alla famiglia
Gharabaghi chiedendo loro di fare pressioni sul figlio affinché rinunci
alle sue opinioni e cooperi con l’intelligence contro i Mojahedin del
Popolo.
“Cambiamento” e “gioventù” dice oggi il candidato Raisi. Ma la sua mente
continua a essere agitata dagli stessi fantasmi di un regime clericale
fuori dal mondo e fuori dal tempo. Il vero cambiamento che deve avvenire
in Iran è quello verso un’alternativa radicale, laica, democratica al
regime oscurantista, teocratico, illiberale dei mullah. Ma perché ciò
avvenga è necessario e urgente un cambio radicale di regime nella
politica europea che, purtroppo, continua a essere tollerante e
accondiscendente nei
confronti di questo Iran, quello del potere assoluto e mortifero
incarnato dalla Guida Suprema e dal suo candidato preferito, il patito
delle prigioni e dei forconi.
---------------------------------------
NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH
NON CHIAMATELA PREVENZIONE, QUESTA E’ UNA PERSECUZIONE
Pietro Cavallotti su Il Riformista del 28 maggio 2021
La chiamano “prevenzione” della mafia. Ci dicono che in Italia abbiamo
il più efficace sistema normativo per contrastare la criminalità
organizzata. Un sistema così bello che ce lo invidia tutto il mondo. Mi
chiedo su quali basi poggino affermazioni così lontane dalla realtà. Da
molti anni mi chiedo se sia efficienza o criminalità togliere il lavoro a
un uomo assolto, confiscare l’azienda a chi non è mafioso o sciogliere
un comune dove non ci sono mafiosi. Mi chiedo che cosa si “prevenga”
perseguitando uomini incensurati, i loro figli e intere comunità. Ma
soprattutto mi chiedo come si possa pensare di fare “antimafia” senza
considerare gli effetti distruttivi che certe misure provocano sulla
vita delle persone.
Qualche giorno fa ho ricevuto la chiamata di un uomo che ha l’età di mio
padre. Il suo nome è Filippo Vasta. Un uomo distrutto, caduto in una
profonda depressione che, da alcuni giorni, non vuole uscire di casa. Mi
ha detto che non riesce a parlare con nessuno di quello che gli è
successo e che ci riesce solo con me. Filippo è una persona semplice che
ha sempre lavorato con umiltà e dedizione. Per un errore giudiziario è
stato arrestato, si è fatto la galera da innocente, poi è stato assolto
definitivamente ed è stato riconosciuto vittima di mafia. Nonostante
tutto questo, a sua figlia è stata negata l’iscrizione nella white list:
in poche parole non può lavorare nel settore pubblico e, per un’impresa
come quella della famiglia Vasta che opera nel settore del gas e
dell’acqua, significa morte certa. Il diniego viene fatto semplicemente
perché è sua figlia, cioè figlia di un uomo innocente!
Mi ha fatto gelare il sangue nelle vene quando mi ha detto che ha
pensato di farla finita. Mi si è letteralmente attorcigliato il cuore
nel petto. Non si dà pace, crede di essere la causa della rovina dei
suoi figli e che, togliendosi la vita, potrebbe salvare le loro di vite.
Non parliamo di una persona fragile. Parliamo di una persona che è
sopravvissuta alla mafia e al carcere. Eppure, di fronte alla follia di
un’interdittiva, è caduto nella disperazione più profonda. Ci si sente
così quando gli avvocati non sono in grado di dare risposte, quando i
giornali e i politici se ne fregano, quando nessuno ti capisce fino in
fondo. Sei assalito da un senso di colpa pari solo all’umiliazione che
devi sopportare giorno dopo giorno. Lo Stato ti toglie il lavoro e
perseguita le persone a te più care. Questa non è lotta alla mafia.
Questa è istigazione al suicidio! Lo Stato Caino che se la prende contro
chi ha il diritto di vivere una vita dignitosa.
Recentemente sono stato contatto da altre persone che stanno
attraversando lo stesso dramma di Filippo. Hanno tutti paura di subire
ritorsioni. Vi rendente conto? Quando un cittadino arriva a non gridare
la propria innocenza e rinuncia a difendere i propri diritti per paura
dello Stato, non siamo più in democrazia. Siamo in un regime!
È a tutte queste persone che mi voglio rivolgere nella speranza che le
mie parole possano essere di conforto e infondere speranza nei loro
cuori. Non si può mollare. La paura di rassegnarsi, di lasciarsi morire
senza lottare è più forte della paura delle ritorsioni. Il suicidio non è
la soluzione! Agli uomini e alle donne cui lo Stato sta togliendo la
speranza, il futuro e la voglia di vivere io dico di resistere. Vi dirò
una cosa: io, da figlio, rinuncerei per sempre a fare attività d’impresa
piuttosto che privarmi di un solo giorno dell’affetto di mio padre. La
colpa non è vostra. La colpa è dello Stato che usa strumenti barbari per
perseguitare i suoi cittadini. La migliore risposta che possiamo dare è
continuare a vivere e a lottare in maniera nonviolenta e, vivendo,
troveremo una soluzione. Lo stiamo già facendo.
Non vi potete lasciare sopraffare, dovete reagire e reagire ancora, fino
alla fine. Non ci possiamo permettere altri Rocco Greco! Costruiremo
insieme la strada per uscire da questo vortice mortale delle misure di
prevenzione. Andremo fino alla Corte Europea, scenderemo in piazza se
sarà necessario. Ma, per fare tutto questo, bisogna essere in forze e
non lasciarsi abbattere. I padri devono lottare per i figli e non
lasciarsi morire per loro. E i figli la devono smettere di nascondersi o
di piangersi addosso, devono uscire le palle a stare a fianco dei
padri.
La battaglia per la revisione del sistema delle misure di prevenzione
non è una semplice battaglia per la difesa dei diritti o del Diritto. È
molto di più: è una battaglia per la salvezza della vita. Non c’è
battaglia più nobile di quella per la vita. Io sono sicuro che la
vinceremo con Nessuno tocchi Caino. Nel frattempo resistiamo! Nel
frattempo viviamo!
INDIA: 13 ASSOLTI NEL CASO DEL MASSACRO DI SENARI
L'Alta Corte di Patna il 21 maggio 2021 ha assolto 13 imputati nel caso
del massacro di Senari in cui un ex gruppo maoista uccise 34 abitanti
del villaggio nel Bihar centrale, il 18 marzo 1999.
Nel novembre 2016, il tribunale distrettuale di Jehanabad aveva
condannato a morte 10 degli imputati e all'ergastolo gli altri tre.
Altri 23 imputati erano stati assolti per mancanza di prove dal tribunale distrettuale e altri quattro erano morti.
La polizia aveva avviato il caso sulla base di informazioni fornite da Chintamani Devi, il cui marito era tra le 34 vittime.
Il collegio dell'Alta Corte di Patna, composto dai giudici Ashwani Kumar
Singh e Arvind Srivastava, ha annullato la sentenza del tribunale di
primo grado assolvendo per mancanza di prove tutte le 13 persone
accusate del massacro di Senari.
Gli imputati assolti sono: Bacchesh Singh, Buddhan Yadav, Butai Yadav,
Satendra Das, Lallan Pasi, Dwarika Paswan, Kariban Paswan, Godai Paswan,
Uma Paswan, Gopal Paswan (che erano stati condannati a morte), Arvind
Yadav, Mungeshwar Yadav e Vinay Paswan (che erano stati condannati
all’ergastolo).
Nel conflitto tra caste svoltosi nel Bihar centrale negli anni '90, il
fuorilegge Centro Comunista Maoista (MCC) avrebbe ucciso 34 persone
della casta superiore di Bhumihar nel villaggio di Senari, nell'allora
distretto di Jehanabad.
Il villaggio ora fa parte del distretto di Arwal, che è stato creato in seguito.
Secondo molti, il massacro di Senari fu una conseguenza del massacro di Laxamanpur-Bathe in cui furono uccisi 57 Dalit nel 1997.
Dei 91 massacri avvenuti tra il 1977 e il 2000, 76 si sono verificati
tra il 1990 e il 2000, in cui furono uccise oltre 350 persone.
Distretti del Bihar centrale come Gaya, Jehanabad, Aurangabad e la regione Shahabad di Bhojpur furono i più colpiti.
(Fonti: The Hindu, 21/05/2021)
CORTE SUPREMA: PENA DI MORTE CONFERMATA PER LA ‘RAPITRICE DI DAMMAM’
La Corte Suprema dell'Arabia Saudita il 24 maggio 2021 ha confermato la
condanna a morte emessa da un tribunale penale di Dammam nel settembre
2020 nei confronti di una donna saudita nota sui media come la
"rapitrice di Dammam".
Nello stesso caso, la Corte Suprema ha confermato le condanne detentive di altri tre imputati.
La donna, la principale imputata, è stata riconosciuta colpevole del
rapimento di neonati a Dammam tre decenni fa, adozione illegale,
falsificazione e relazione illegale.
La Corte ha condannato il secondo imputato a un anno e mezzo di prigione
e a una multa di 20.000 Riyal, mentre il terzo imputato, un cittadino
yemenita, è stato incarcerato per 25 anni e mezzo. La Corte ha anche
comminato un anno di reclusione e ha imposto una multa di 5.000 Riyal al
quarto imputato.
Il tribunale penale aveva riconosciuto la donna saudita colpevole di
aver rapito due bambini maschi da un ospedale di Dammam negli anni '90.
Ha cresciuto illegalmente i due bambini come se fossero suoi e, secondo
quanto riferito, ha detto loro di essere nati fuori dal matrimonio.
Le indagini della polizia sul rapimento dei bambini registrarono una
svolta quando la donna cercò di richiedere le carte d'identità per i due
ragazzi, che ora hanno circa vent'anni.
Il mistero della scomparsa dei due bambini è stato risolto due anni fa,
quando la donna ha presentato domande per ottenere i documenti di
identità dei due ragazzi.
Successivamente, le autorità hanno condotto esami medici che hanno
escluso una relazione biologica tra la donna e i giovani, dimostrando
invece il loro legame con altre famiglie saudite, che avevano denunciato
a suo tempo il rapimento dei loro figli.
Un quinto imputato nel caso è latitante.
(Fonti: Gulf News, Saudi.in-24, 25/05/2021)
Per saperne di piu' :
CALIFORNIA (USA): COMITATO RACCOMANDA L'ABROGAZIONE DELLA PENA DI MORTE NELLO STATO
Un comitato creato dal legislatore della California per studiare il
codice penale dello Stato e proporre miglioramenti ha di recente
raccomandato alla California di abrogare la pena di morte e di ridurre
rapidamente le dimensioni del braccio della morte.
A conclusione di un incontro virtuale il 14 maggio 2021, il Comitato
della California per la Revisione del Codice Penale (California
Committee on Revision of the Penal Code, CRPC) ha votato all'unanimità
per raccomandare di abolire la pena di morte.
Il Comitato, istituito nel 2019, è presieduto da Michael Romano, il
quale ha affermato che "un rapporto completo che dettaglia le
raccomandazioni del comitato, comprese analisi e dati di supporto,
uscirà entro la fine dell'estate".
La raccomandazione del CRPC ha fatto seguito a un'ampia revisione della
legge e della pratica sulla pena di morte della California.
Un memorandum del CRPC datato 5 maggio 2021 ha concluso che
"l'eliminazione della pena di morte è un passo fondamentale verso la
creazione di un sistema giudiziario giusto ed equo per tutti in
California, poiché la ‘punizione finale’ è afflitta da problemi legali,
razziali, burocratici, finanziari, geografici, e morali che si sono
dimostrati ingestibili".
In una dichiarazione rilasciata il 25 maggio, Romano ha affermato che,
mentre si procede verso l'abrogazione totale, la California dovrebbe
adottare misure immediate per ridurre il numero di persone nel braccio
della morte più grande della nazione, con oltre 700 detenuti tra uomini e
donne.
Le misure proposte comprendono: commutazione delle condanne esistenti,
stipulare accordi nei casi ancora aperti, rivalutare le condanne
esistenti e cambiarle in ergastoli senza condizionale, emendare la
Racial Justice Act e renderla più retroattiva (quindi facilitare i
ricorsi basati sul sospetto di pregiudizio razziale nei processi già
effettuati), limitare l’estensione delle aggravanti, ripristinare la
discrezionalità del giudice nel calcolo attenuanti-aggravanti, e
togliere dal braccio della morte i molti detenuti con problemi mentali o
intellettivi.
Nel marzo 2021 il Comitato ha ascoltato le relazioni di Carol e Jordan
Steiker, che insegnano rispettivamente alla Harvard Law School e
all'Università del Texas presso la Austin School of Law, di Elisabeth
Semel, direttrice della UC Berkeley Death Penalty Clinic, e del
professor Sherod Thaxton, della UCLA. Gli esperti hanno relazionato, tra
gli altri argomenti, su questioni costituzionali, condanne sbagliate,
costi, pregiudizi razziali e geografici e salute mentale. Il Comitato ha
anche ricevuto osservazioni dalla California District Attorneys
Association, dalla Prosecutors Alliance of California, dalla California
Innocence Coalition e dall'Office of the State Public Defender, che è la
struttura statale che fornisce gli avvocati d’ufficio agli imputati.
Il memorandum ha rilevato "una miriade di problemi con l'amministrazione
della pena di morte in California", a seguito della quale "in pratica
non serve a un legittimo scopo penologico". "Di fronte a questa
schiacciante realtà, continuare a condannare a morte le persone e
continuare a ospitare più di 700 persone nel braccio della morte mina la
legittimità del nostro intero sistema di giustizia penale".
(Fonte: DPIC, 25/05/2021)
Commenti
Posta un commento