"Anche noi l'America" di Cristina Henríquez (NNE, traduzione di Roberto Serrai)
Qualche lacrima l'ho versata quando ho chiuso il bellissimo "Anche noi l'America" di Cristina Henríquez (NNE, traduzione di Roberto Serrai). Mi sono commosso leggendo di questi uomini e donne, di questi ragazzini e ragazzine, di queste famiglie arrivate negli Stati Uniti dal Messico, da Panama, da Porto Rico, dal Paraguay e da tutto il Centro e Sud America. Esseri umani alla ricerca di un luogo migliore dove vivere, dove realizzare i propri sogni, dove poter costruire un futuro migliore per se stessi e per i propri figli. Disposti a tutto pur di varcare una frontiera e trovare un luogo dove gettare le basi per una nuova vita. Disposti a lavori massacranti e mal pagati, all'invisibilità, ad abitazioni fatiscenti, a subire soprusi, a essere trattati come cittadini di serie B, a essere considerati degli ospiti ma senza mai perdere la propria dignità, lottando giorno per giorno per ribadire che sono esseri umani, cittadini, liberi. Mi sono commosso perché questo romanzo costruisto a mosaico non è affato ricattatorio, non accarezza le facili aspettative del lettore, non accentua situazioni già disperate e l'autrice riesce a coniugare la delicatezza degli incontri e le ferite che sanguinano dentro al cuore, ci sbatte in faccia la tragedia ma apre spiragli di rinnovamento, parla di amore ma il lieto fine non è quello da filmetto hollywoodiano, racconta di successi e di sconfitte senza affondare nella retorica del sogno americano, fa sentire l'odore del cibo e quello della muffa di appartamenti scadenti, affronta il problema del razzismo senza ricorrere alla diatriba ideologica e soprattutto racconta di Maribel Rivera e Mayor Toro che si incontrano e che si parlano e che si amano con quella purezza e profondità di sguardo che hanno solo gli adolescenti.
E in fin dei conti sono anche io un immigrato e anche la mia compagna. Il permesso mi scade a novembre e chissà se con questa situazione me lo rinnoveranno. Faccio un lavoro che pochissimi svizzeri vorrebbero fare, anche per la paga che è poco sopra quello che dovrebbe essere il salario minimo. Il lavoro al cinema me l'ha girato un tamil che ne aveva piene le scatole di pulire le sale. Il primo giorno di lavoro incontrai una vietnamita, una thailandese, una portoghese e una croata che durante la pausa litigarono fra di loro. Tutte donne con due/tre ore di lavoro. 15-16 ore di lavoro al giorno. Donne che continuavano a mandare i soldi a casa, senza spesso nemmeno capire che i familiari nelle terre d'origine erano solo dei succhiasoldi. Donne con mariti del cazzo. Donne quasi per niente integrate, tranne la thailandese.
Mi sono sentito dire dell'italiano di merda parecchie volte.
Ma con gli italiani che vivono qui faccio una fatica incredibile ad avere rapporti perché non sono per niente patriottico, nazionalista, legato alla mia terra e questo vale anche per la mia compagna e l'idea di tornare in pianta stabile in Italia ci angoscia parecchio.
Qualcuno al lavoro mi ha detto che sono diventato uno svizzero e non lo so ma di sicuro la Svizzera mi ha dato la possibilità di cambiare vita, di uscire da un periodo della mia vita davvero schifoso.
E qui sotto un estratto che mi riguarda molto:
"Per un po' lavorai in una fabbrica di scatolette di chiles e salsa. Non era un posto molto pulito. C'erano vermi dappertutto. I proprietari davano la colpa agli operai. Inoltre, non mi piaceva stare fermo nello stesso posto per dieci ore. Potevamo prenderci una sola pausa, di quindici minuti. Adesso faccio due lavori. Cinque mattine alla settimana lavoro al cinema del Newark Shopping Center, pulisco i bagni e le sale. Mi assicuro che non manchi mai la carta igienica. Passo lo straccio per terra. Ho una spazzola d'acciaio che uso per pulire i lavandini. La sera lavoro al Movies 10 di Stanton. Questo lavoro è più duro perché ci sono tante sale. Quando troppi film finiscono allo stesso tempo, è un casino riuscire a pulire prima che arrivi il gruppo di spettatori successivo. Mi hanno addirittura rimproverato perché ho lasciato un bicchiere di carta vuoto nel bracciolo di una poltrona. Di solito non ho tempo per tornare a casa tra un turno e l'altro, e parecchie volte ceno con un po' di popcorn e una bibita. Sono molto riconoscente per questi lavori. Mi permettono di spedire denaro ai miei figli per pagare la scuola. Quando saranno entrambi laureati mi piacere tornare in México e abitare con loro. Il mio sogno è che facciano qualcosa di valido delle loro vite, qualcosa di più importante che spazzare popcorn. Per loro ho fatto quello che potevo. Mi piacerebbe vederli restituire qualcosa agli altri." (pp. 100-102)
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