"Capannone n. 8" di Deb Olin Unferth (SUR, traduzione di Silvia Manzio), una delusione + quando pulisco i cessi delle donne

 


Ci sono romanzi che dopo una cinquantina di pagine cominciano a irritarmi e a infastidirmi, per come sono scritti (parecchio bene ma anche decisamente freddi), per l'atmosfera che emanano, per una certa spocchia intellettuale liberal che trasuda da tutti i passaggi. Anche se l'argomento trattato mi sta parecchio a cuore e la storia è molto bella, mi sento estraneo a questo genere di romanzi e quando li ho terminati mi sento di aver perso del tempo. È accaduto con "Capannone n. 8" di Deb Olin Unferth (SUR, traduzione di Silvia Manzio). Non ce l'ho fatta a farmelo piacere e anche se tutte le recensioni l'hanno incensato come splendido romanzo non sono riuscito a digerirla questa storia di liberazione di galline dai campi di concentramento dove si trovano per tutta la loro vita a produrre uova/morire e di uomini e donne alla deriva e segnati da lutti, sconfitte, dipendenze. Non  mi sono appassionato, non mi sono sentito partecipe. Non ho respirato, salvo alcuni rari passaggi, l'apocalisse che si sta avvicinando giorno dopo giorno e che in tantissimi ancora negano. Forse sono uno piu' alla Edward Abbey. Forse. O forse mi piacciono un altro genere di romanzi. L'ho trovato patinato, molto patinato questo romanzo. Non ho sentito gli odori. L'odore di morte. La voglia di libertà. La tragedia. Ho trovato solo carta. Tanta troppa carta.

E mi dispiace molto perché amo alla follia le galline e se avessi un pezzo di terra molto probabilmente mi piacerebbe averne qualcuna in giro (oddio magari sto passando per un orrido allevatore) a razzolare.

E aggiungo che mi piacciono tantissimo anche le mucche.

E sono su quel crinale continuo di diventare completamente vegetariano e puntare verso il veganesimo.

Tutto qui. Dai non è una recensione questa. Prendetela per quella che è.

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Da quando abbiamo riaperto non sto lavorando gli stessi giorni di prima. Ho un contratto su chiamata ma mentre prima della pandemia avevo un orario settimanale di base con eventuali variazioni adesso è tutto precario e la catena vuole assolutamente risparmiare sul personale e cercare di incassare più soldi possibile (e viste le perdite e la bassa stagione li capisco anche). Così quando vado a pulire il cinema lo trovo sporchissimo e la fatica aumenta a dismisura. Come ieri, che son tornato a casa distrutto. Ma c'è una cosa che in questa mia lunga esperienza al cinema non è mai cambiata: lo stato penoso in cui versano i cessi delle donne. Si trova di tutto: assorbenti sporchi di sangue incollati alle pareti o al water o gettati senza sacchetto o buttati nel water a intasare gli scarichi, per non parlare di tutta la cartaigienica gettata sul pavimento insieme a pop corn/patatine/salsa, assi del water sporchi di piscio/sangue/merda, lavandini e specchi inguardabili. Per non parlare di matasse di capelli, unghie vere e unghie finte. 

E magari vengono poi a piangere perché hanno perso le cuffie dell'I-Phone, le mutandine, il pettine, l'orecchino e s'incazzano perché magari non glieli hai trovati.

Sono tornato a casa ieri con l'odore di fica, mestruo e piscio nelle narici che se ne è andato solo quando ho fatto friggere delle patatine per la mia compagna.

 

TV On The Radio - Wolf Like Me

 

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