"Il sindacato dei poliziotti yiddish" di Michael Chabon (Rizzoli, traduzione di Matteo Colombo)

Come avrete forse notato in questi ultimi mesi sto rileggendo molto, in realtà rileggo sempre tantissimo. Amo sentire come una pagina invecchia, si modifica, si trasforma, mi rivela qualcosa di nuovo mentre io sto invecchiando, maturando, perdendomi. Sto vivendo anche un periodo che le novità, salvo autori specifici e determinati romanzi, mi interessano poco, nemmeno mi soddisfano. Sulla scrivania ho rimesso alcuni vecchi romanzi di McEwan e altri che acquistai secoli fa. Fra le riletture migliori di questi ultimi mesi c'è sicuramente il romanzo di Chabon. Ne avevo scritto quasi sei anni fa sul precedente blog e anche in quel caso si trattava di una rilettura, tra l'altro di un libro preso in prestito in biblioteca. Questo romanzo poi l'ho trovato in condizioni perfette su una bancarella dell'usato e l'ho comprato immediatamente. Ho deciso allora di riproporvi quella recensione con alcune piccole correzioni.

 
 
 
"Ba'al Shem Tov, sia benedetto il suo ricordo, ci ha insegnato che in ogni generazione nasce un uomo con il potenziale per diventare il Messia" dice. "Il cosiddetto Tzaddik Ha-Dor. Ma Mendel...Mendel, Mendele..."
I suoi occhi si chiudono. Forse sta ricordando. Forse sta ricacciando indietro le lacrime. Li riapre. Sono asciutti, e ricorda.
"Da bambino Mendel manifestò una natura straordinaria. Non parlo di miracoli. I miracoli per lo Tzaddik sono un fardello, e non la riprova che lui sia tale. I miracoli non provano nulla, se non agli occhi di coloro la cui fede si compra a buon mercato. Mendele aveva qualcosa dentro. Un fuoco. viviamo in un luogo freddo e buio, detective. Un luogo grigio e umido. Mendele emanava luce e calore. Veniva voglia di stargli vicino. Per scaldarsi le mani, sciogliere il ghiaccio sulla propria barba. Scacciare l'oscurità per un minuto o due. Ma anche quando ci si allontanava da Mendele, quella sensazione di calore rimaneva, e dava la sensazione che al mondo vi fosse ancora un po' di luce, anche solo quella di una candela. In quel momento uno si rendeva conto che il fuoco era anche dentro di lui, e che c'era sempre stato. Era quello il miracolo. Soltanto quello." (pag. 144)

La rilettura completata in questi giorni dello straordinario romanzo di Michael Chabon "Il sindacato dei poliziotti yiddish" (Rizzoli, traduzione di Matteo Colombo) mi ha restituito la stessa sensazione angosciosa della rilettura numero tre. Questa è stata la rilettura numero quattro. Mia madre diceva che quando mi chiedeva cosa stessi leggendo io ci mettevo almeno trenta secondi prima di darle retta, come se stessi risalendo da abissi profondissimi, per poi risponderle senza mai guardarla negli occhi che stavo rileggendo un libro che mi era piaciuto. Quando mi vedeva seduto sulla moquette di camera mia a leggere Moby Dick storceva il naso. Significava che qualcosa non stava andando per il verso giusto e che cercavo consolazione e una via di fuga dal mio dolore in Melville. Fra le mille emozioni, scoperte, domande che mi donano la rilettura c'è anche la sensazione di poter rievocare i morti. Sensazione sfumata ma presente intorno a me. E mi piace continuare a pensare che ci sia qualcosa a questo mondo davvero capace di rievocarli, di parlarci. Le sedute spiritiche mi hanno sempre affascinato seppure le mie esperienze passate alal caccia di spiriti si sono sempre risolte in serate demenziali. 

Non so perché sono finito a pensare e scrivere di morti e sedute spiritiche ma questo romanzo di Chabon é una narrazione d'amore dove i morti sono presenti ovunque. Morti reali. Morti immaginari. Morti che appartengono a un altro corso della storia. Morti che continuano a bruciare. Quello di Chabon è un what if, un'ucronia, che riscrive la storia del popolo ebraico  prima, dopo e durante la Seconda Guerra mondiale. Qualsiasi what if che si rispetti si interroga su problemi reali, si confronta con passaggi fondamentali della storia, portatori di stravolgimenti, di immensi carichi di dolore. Lo ha fatto Philip K. Dick con "La svastica sul sole", lo ha fatto Philip Roth con "Il complotto contro l'America" (dove si ipotizza che a diventare presidente sia Charles Lindbergh, aviatore antisemita, e che si scatenino pogrom contro gli ebrei statunitensi), lo ha fatto in chiave fumettistica Alan Moore con "Watchmen" e lo ha fatto Chabon. 

Il dato reale da cui trae spunto Chabon é il "Rapporto Slattery -Il problema dello sviluppo dell'Alaska" redatto dal Dipartimento degli interni degli Stati Uniti nel 1939-40 e che prevedeva il trasferimento degli esuli europei e degli ebrei che vivevano sotto il giogo nazista nei territori dell'Alaska. L'autore statunitense immagina invece che questo piano sia stato approvato e messo in funzione e che in Alaska, a Sitka, città nel Distretto federale istituito dagli Stati Uniti siano stati concentrati gli ebrei scampati all'Olocausto (che in questa ucronia conta due milioni di morti) e al fallimento dello Stato d'Israele che nel 1948 viene spazzato via dagli arabi. Senza dimenticare una bomba nucleare su Berlino e più in generale un assetto del mondo diverso da quello dove noi siamo cresciuti. Sitka è una città mondo dove convivono tutte le possibili sfumature del mondo ebraico, dove si parlano yiddish e inglese, dove l'autorità é gestita da una polizia autonoma ma che deve in pratica dialogare continuamente con il potere religioso e malavitoso gestito dai rabbini. Una città decadente fatta di traffici illeciti, droga, prostituzione, sfacelo. Ma a sessant'anni dalla sua fondazione l'esperienza di Sitka sta per giungere al termine perchè gli Stati Uniti hanno deciso di riprendersi la città, di normalizzarla, di svuotarla dagli ebrei. Fra gli ebrei serpeggia la paura e ci si prepara a un nuovo esodo. Ci si interroga su chi avrà i requisiti necessari per poter rimanere in Alaska e chi invece dovrà andarsene. 
 
In questa città fumosa e glaciale Chabon orchestra un noir dai contorni chandleriani e alla Jerome Charyn, ingarbugliato, scacchistico (le ossessioni scacchistiche di questo romanzo fanno coppia con quelle de "La regina degli scacchi" di Walter Tevis), con frequenti momenti di umorismo ebraico e non solo, con sparatorie e inseguimenti e soprattutto conun protagonista incredibile, il detective della polizia Meyer Landsmam, un uomo distrutto, lasciato dalla moglie (Bina, anche lei poliziotta e di fresca nomina come spettrice e alla quale Meyer si troverà costretto a ubbidire), alcolizzato, che vive in un albergo fatiscente , l'Hotel Zamenhof, simile a un Chelsea Hotel dei derelitti. Un uomo che vive di dolore, di un aborto mai completamente accettato. Che vive con gli incubi del padre suicida e straordinario giocatore di scacchi. Nipote di uno degli uomini un tempo più influenti di Sitka, Hertz Shemetz, che da una relazione con un'indiana Tlingit (discendente del capo che sconfisse i Russi nel '800), ebbe un figlio gigantesco, Berko, cugino e migliore amico e collega poliziotto di Meyer. Un uomo che pensa spesso al suicidio:

"Landsman, figlio e pronipote di suicidi da parte di padre, ha visto esseri umani uccidersi in tutti i modi possibili, dal maldestro all'efficace. Sa come bisogna e non bisogna fare. Gettarsi da ponti e finestre d'albero: pittoresco ma dai dubbi risultati. Buttarsi giù per le scale: del tutto inaffidabile, frutto di decisione impulsiva, troppo simile a una morte accidentale. Tagliarsi le vene, con o senza la variante popolare ma non indispensabile della vasca da bagno: più difficile di quanto sembri, e con un  tocco melodrammatico un po' da ragazzina. Sventramento rituale con la spada da samurai: difficile, richiede la presenza di un'altra persona, e a gli occhi di un ebreo risulta un po' troppo manierato. Landsman non ha mai visto nessuno che si fosse suicidato in quel modo, però uno sbirro di sua conoscenza sì. Il nonno di Landsman si è buttato sotto un tram a Lodz, dando prova di un grado di determinazione che Landsman gli ha sempre ammirato. Suo padre ha usato trenta capsule di Nembutal, annaffiate con un bicchiere di vodka al cumino, un metodo assai raccomandabile. Aggiungeteci un sacchetto di plastica in testa, capiente e senza buchi, e otterrete un lavoro pulito, silenzioso e affidabile. 
Ma quando immagina di togliersi la vita, Landsman ama farlo con una pistola, come il campione del mondo Melekh Gaystick. La sua scalcagnata Smith & Wesson modello 39 è una sholem più che adeguata allo scopo. Se sai dove puntare la canna (appena sotto l'angolo del mento) e che inclinazione dare al colpo (un angolo di 20 gradi rispetto alla verticale, verso il centro del cervello) è rapido e sicuro. Sporca un po', ma Landsman, chissà perché, non si fa scrupoli a lasciarsi dietro un po' di casino." (pp. 155-156)

In questo cesso di hotel viene ritrovato il cadavere di un tossico, giocatore di scacchi, ucciso con un colpo alla testa. Una vera esecuzione. Un uomo che nasconde qualcosa nel presente e nel passato. Landsman si fa carico di questo omicidio perché tossico freddato è un uomo che come lui ha sceso tutti i gradini della vita, che è andato alla deriva. Un uomo che è un tempo era un rabbino. Un uomo che si chiamava  Mendel Shpilman. Lui e Meyer sono due uomini distrutti dalla vita che si preparano alla morte. Di questa difficile indagine se ne fa carico insieme al cugino e all'ex moglie finendo per scoperchiare trame occulte, penetrando in luoghi inviolabili, affrontando ciò che si nasconde nel passato dei protagonisti e di Sitka. E se questo romanzo pullula di mille riferimenti alla storia, alla religione, alla contemporaneità fatta di guerre per l'esportazione della libertà, di millenarie guerre religiose, del conflitto in Palestina, la sua vera forza risiede nel  fiume di dolore a cui Chabon dà forma, colore, profumi, odori, fetore, luce. Ogni pagina è pagina di fallimenti, di paure, di morte, di attese, di speranze, di salvezze, di puro noir come ormai se ne scrivono davvero pochi

Da tutto questo fiume questo dolore emerge la delicata fragilità di Mendel, il presunto messia, che,  proprio il giorno del matrimonio, si ribella alla gabbia dentro cui lo vogliono rinchiudere e dice basta e se ne va dalla propria casa. Lui, figlio del rabbino ortodosso che comanda a Sitka. Lui il figlio del dio in terra a Sitka. Mendel vorrebbe vivere la vita a modo suo, vorrebbe poter amare come desidera, vorrebbe poter donare le sue parole alle persone senza ricevere nulla in cambio. Ma quando te ne vai poi non sei più niente, il dolore esplode nel cuore. Si finisce per affondare. E il Messia affonda, si buca per ritrovare la pace perduta, vende il proprio talento scacchistico per comprarsi droga. Ma la gente peggiore non l'ha dimenticato e vuole servirsi di lui. Vuole usarlo per architettare i propri sporchi piani di guerra. E qualcuno, alla fine, come un gesto d'amore/odio/ignoranza/paura/incapacità di rispondere a una domanda, lo ucciderà per impedire (inutilmente) la realizzazione di questi scopi. Meyer, la nuovamente amata Bina e Berko vengono così trasformati da Chabon in una specie di incarnazione di angeli giustizieri e apostoli di questo messia. Uomini normali che cercano di ristabilire la giustizia in un mondo alla deriva, corrotto, fetido e di restituire così la pace e una giusta sepoltura a quell'uomo morto da solo in una stanza d'albergo. Un uomo che si faceva eroina. E che potrebbe essere quell'uomo che abbiamo appena scansato per strada. Il ragazzo che ingobbito aspetta l'arrivo del bis. E forse è proprio per questo che non riconosciamo il Messia anche quando ci passiamo accanto. Non lo riconosciamo perché è un uomo come noi. Problematico come noi. Morto come noi.

 
(Questa recensione è dedicata a mia madre, agli ebrei ortodossi che ho incontrato nella mia vita, a me stesso che comunque vada sono ancora qui)

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