Tornare dal mare, "Contro il sovranismo economico" di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro (Rizzoli), Lucy Dacus
- molto bello questo disco di Lucy Dacus -
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Ieri siamo tornati da 7 giorni sul mare e soprattutto da Pesaro, la città che ha segnato gran parte delle estati della mia infanzia e adolescenza. L'ho trovata un po' decaduta ma con delle bellissime spiagge libere e un'atmosfera rilassata. La gatta ci ha fatto un po' penare perchè l'appartamento non era propriamente adatto alle sue esigenze ma già da oggi è tornata in piena forma e ha quasi acchiappato un piccione che stava sul balcone.
Peccato essere partito con addosso tanto, troppo stress da lavoro che mi ha impedito di godermi il primo giorno in spiaggia. L'ultimo giorno di lavoro è stato veramente un giorno schifoso. Ho corso come un pazzo e mi sono sentito un vero coglione, trattato come uno di quei muli bastonati fino alla morte per trasportare armi e cibo nelle trincee sull'Adamello e sono arrivato a Pesaro sfinito, furioso, deluso, vuoto, depresso e con una gran voglia di mandare tutto all'aria, di spedire la lettera di licenziamento, di starcene in giro per uno, due mesi e far fuori tutti i soldi.
Sono riuscito a leggere qualcosa e abbiamo evitato quasi del tutto i contatti col resto dei vacanzieri e non per paura del Covid ma proprio per la nostra voglia di rimanercene per i cazzi nostri. Volevamo rilassarci, evitare discussioni del cazzo, farci invitare fuori a bere qualcosa e tutto il resto delle situazioni che accadono abitualmente in quel genere di contesti e non solo.
Sono rimasto disgustato dall'incredibile numero di
vacanzieri/genitori/adolescenti incollati allo schermo del cellulare per ore e ore anche quando si trovavano
in acqua.
Un paio di persone ci hanno presi per matti perchè non avevamo attivato il roaming, non ci collegavamo al Wi-Fi, non avevamo Facebook.
Abbiamo trascorso una vacanza camminando/pedalando/nuotando parecchio, comprando ogni giorno il giornale (quasi sempre Il Foglio e che bello tornare a leggere il giornale in spiaggia), seguendo il telegiornale quando ci andava, consultando mappe cartacee e inviando ai nostri cari quei pochi messaggi con la vecchia messaggistica, senza mai sentire il bisogno di condividere foto (le pochissime che abbiamo scattato). Anche perchè spesso lo lasciavamo pure a casa il cellulare e non ne sentivamo affatto la mancanza.
Non abbiamo messo punteggi alla casa o nei posti dove abbiamo mangiato. Nessun interesse per lasciare un'impronta su Booking o Tripadvisor. Il nostro giudizio, severo ma giusto, lo abbiamo espresso a voce ai gestori dell'appartamento quando ci hanno chiesto se eravamo soddisfatti oppure no del nostro soggiorno.
Due sono i ricordi che mi porterò nel cuore di questi sette giorni: i sorrisi della mia compagna dopo il primo tuffo in mare e la cena sul porto e quelli dei disabili di ogni età quando entravano in acqua o cercavano conchiglie sulla battigia.
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Uno dei libri che mi sono portato in vacanza e che ho letto con grande piacere è stato questo di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro: “Contro il sovranismo economico. Storia e guasti di statalismo, nazionalismo, dirigismo, protezionismo, unilateralismo, antiglobalismo (e qualche rimedio)” (Rizzoli) pieno di spunti interessanti ma forse troppo breve, anche se i due autori mi hanno promesso che forse ci sarà un secondo capitolo.
“Il successo dei populisti ha contribuito a spostare il terreno del dibattito sulla politica economica verso posizioni che in passato restavano ai margini. Ma non perché non avessero rappresentanza. Apparivano, piuttosto, rivendicazioni pittoresche di minoranze chiassose, utili forse ad animare i salotti dei talk show, ma di fatto poco rilevanti nell'ambito del processo decisionale reale. Adesso, invece, il protezionismo è entrato a fare parte, in modo esplicito, del lessico politico quotidiano. Non deve più nascondersi dietro giustificazioni più o meno credibili, ma può mostrarsi con il suo vero volto. Si tratta quasi di un cambio di paradigma nella retorica politica post 1989. Fino a poco tempo fa, il tipo argomento protezionista era: “Premesso che noi siamo favorevoli al libero scambio, chiediamo l'imposizione di dazi perché il nostro settore è diverso”. Oggi, i leader politici protezionisti (e gli stakeholder alle loro spalle) non hanno più bisogno di autorappresentarsi come eccezioni. Rivendicano apertamente e con orgoglio identitario il proprio pensiero, contrario alla globalizzazione e al commercio internazionale. La conseguenza principale è che anche i partiti tradizionali hanno – forse razionalmente, forse no – cercato di inseguire i populisti sul terreno dell'antiglobalizzazione con la (vana) speranza di contendere parte del loro elettorato. Perfino in un Paese come il Regno Unito, si è fatto ricorso in modo specioso ad argomentazioni protezionistiche per alimentare la campagna a favore della Brexit (nonostante il premier che da ultimo ha gestito la partita, Boris Johnson, sia da molti punti di vista un erede della tradizione thatcheriana, favorevole al libero scambio). È poco rilevante sapere se tale processo di spostamento verso posizioni protezioniste sia stato vissuto con convinzione o con malcelata vergogna; se cioè i suoi fautori si siano sentiti finalmente liberi di dire ciò che avevano sempre pensato, oppure abbiano ritenuto che qualche dose di protezionismo fosse un male necessario per prevenire la slavina. Ciò che conta è che il baricentro del dibattito politico si è spostato. Naturalmente, la crisi economico-finanziaria di questi anni e, adesso, la pandemia hanno fatto il resto. In particolare, hanno rafforzato la credenza popolare che, limitando gli scambi internazionali, si sarebbe dato respiro all'economia. Qual è, numeri alla mano, la verità? Che ovunque siano state sperimentate, le politiche protezioniste hanno rallentato la crescita e limitato le prospettive di sviluppo di lungo termine.” (pp. 128-129)
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