"Il banchiere" di Régis Jauffret (Edizioni Clichy, traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio)

 


 

Sapeva benissimo che questa volta avrei premuto il grilletto. Dal cappuccio non è uscito neppure un grido. Voleva che lo liberassi da un'esistenza di cui si vergognava. Un mese prima mi aveva mandato una strana mail.

“Sono un depravato”.
Nonostante il passare degli anni, nel profondo era rimasto un puritano segnato da un'educazione molto rigida. Cercava il castigo definitivo e purificatore che solo una morte violenta poteva dargli. Temeva la ferocia dei suoi persecutori e mi aveva scelta. Aspettava la pallottola, la desiderava. Mi aveva confiscato quella somma per costringermi a ucciderlo. Gli avevo obbedito. Quel milione di dollari era la statua d'oro che l'imperatore malato era pronto a offrire al samurai che avesse accettato di liberarlo dall'agonia con un colpo di sciabola.

Io avevo lavorato una sola volta nella mia vita, ma in fondo neanche le casalinghe hanno un impiego. Da ragazze le mantengono i genitori. I miei erano poveri, gli uomini dovevano farlo al posto loro. Sarebbero stati generosi anche se non avessi avuto rapporti sessuali con loro. Mio marito non è diventato tirchio neppure quando gli ho imposto l'astinenza. Io ero una ragazza fragile, gli uomini mi proteggevano come una statuetta di cristallo. Le loro banconote erano l'equivalente della paglia con cui si imbottiscono le casse che servono a trasportare gli oggetti preziosi.

La donna che mi portava le spremute di pompelmo a colazione è morta di una malattia rarissima il giorno in cui ho compiuto ventiquattro anni. Per molti mesi mi sono alzata nel cuore della notte per prendermi cura di lei. Allora mi sono vista costretta a rispondere a un annuncio di lavoro. Per alcune settimane ho fatto la commessa in un duty-free dell'aeroporto di Roissy. Uscivo di casa prima dell'alba. Lasciavo il negozio dopo il tramonto. Vivevo alla luce dei neon. Respiravo l'aria dell'impianto di climatizzazione. Avevamo solo mezz'ora per la paura pranzo. La responsabile non ammetteva ritardi. Quando c'era uno screzio con un cliente, prendeva sempre le sue difese. Ho capito subito che nel mondo del lavoro non mi sarei mai realizzata. L'antiquario era venuto a comprare delle stecche di sigarette. Mi ha strappato a questa parentesi della mia vita che subivo come un castigo. Ho provato lo stesso senso di sollievo che forse ritroverò all'uscita dal carcere. Sarò come un animale liberato al termine di un lungo viaggio.” (pp. 41-43)

Ispirato alla storia del banchiere francese Eduard Stern trovato morto in casa nel 2005, per mano dell'amante/prostituta Cécile Brossard con la quale aveva una relazione del tutto particolare fatta di sesso/amore/violenza (sulla vicenda è stato girato anche un film con Laetitia Casta: "Une histoire d’amour" di Hélène Filières), "Il banchiere" di Régis Jauffret (Edizioni Clichy, traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio) è un romanzo che non ho trovato così scandaloso o violento come me l'avevano descritto, piuttosto ho incontrato un'opera struggente e a tratti anche commovente nel descrivere la figura di questa donna, prostituta, amante, sola, ferita, violentata, assassina, stuprata, innamorata, feroce che intrattiene una relazione oltre ogni limite che possiate immaginare con un banchiere. Sono rimasto ammaliato dalla capacità dell'autore, straordinario nel suo non sprecare una sola parola oltre a quelle strettamente necessaria, di rendere viva, una donna indimenticabile e della quale è impossibile non finire per innamorarsi. Ti prende letteralmente alla gola questa donna, respiri insieme a lei, diventi il suo corpo violato, offeso, amato, rimpito di sperma, ridotto a scheletro, schiavo di alcool e pillole per dormire. Sei lei quando cerchi un milione di dollari, quando vuoi restare incinta, quando uggi da ciò che hai commesso, quando cerchi qualcuno che ti ami per davvero, quando cerchi una ragione per rimanere viva.

Penso di essere stata un soldatino coraggioso. Obbedivo sempre, fino a trasformare ogni sua più sofisticata fantasia in uno dei miei desideri più cari. Avrei accettatto perfino di fargli da scudo per proteggerlo da una pallottola vagante. Il suo omicidio non è stato altro che l'estrema conseguenza del mio amore eccessivo. Preferisco dover trascorrere questo lungo soggiorno in carcere all'infelicità che, se le nostre strade non si fossero incrociate, me ne sarebbe derivata.” (pag. 60)

 

(Waking Up)

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