"Quaderni di Mosca" di Osip Mandel’štam (Einaudi, traduzioni e cura di Pina Napolitano e Raissa Raskina)

 

 

Alcuni estratti da "Quaderni di Mosca" di Osip Mandel’štam (Einaudi, traduzioni e cura di Pina Napolitano e Raissa Raskina). Nei giorni scorsi questo libro, le sue poesie, la vita di Osip mi hanno quietato una mente troppo piena di brutti pensieri. Stanotte invece non sono riuscito nuovamente a dormire. Sono rimasto sveglio ad ascoltare la mia compagna russare, il vicino di casa piangere col cuore a pezzi. Una mano che accarezzava il muso della gatta che dormiva ai piedi del letto. Tanto orrore, dolore, ricordi che mi pesano sul cuore.

 

"Leningrado"

Sono tornato nella mia città, nota fino alle lacrime
fino alle venule, alle mie gonfie ghiandole infantili.
 
Sei tornato, allora suvvia, manda giù
l'olio di pesce dei lampioni fluviali di Leningrado.

Riconosci al volo di dicembre la breve gioranta,
dove alla pece funesta il tuorlo è mescolato.

Pietroburgo! Non voglio ancora morire:
dei miei telefoni ti restano i numeri.
 
Pietroburgo! Ho ancora indirizzi,
a cui troverò voci di morti.
 
Abito sulla scala del retro, e alla tempia
mi colpisce il campanello con la carne divelto.
 
E la notte intera attento ospiti cari,
della porta muovendo le catenelle carcerarie.
 
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Brindo agli astri, di guerra, a tutto quello che mi fu rinfacciato
alla pelliccia signorile, all'asma, alla bile del giorno pietroburghese.
 
Alla musica dei pini di Savoia, alla benzina degli Champs Élysées,
all'olio dei quadri parigini, alla rosa nella Rolls - royce.

Brindo ai flutti di Biscaglia, alla brocca di panna alpina,
alla fulva boria delle inglesi e al chinino di lontane colonie.

Brindo, ma senza aver deciso - dei due va scelto uno:
l'allegro Asti spumante o di castello dei papi il vino.

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Serba per sempre le mie parole, per il gusto loro di fumo e sventura,
per la la resina di circolare pazienza, per la pece del lavoro in coscienza.
Quanto l'acqua nei pozzi di Novgorod dev'esser dolce e nera,
perché vi si specchi a Natale con sette pinne la stella.

E in cambio, padre mio, amico e mio rude sostegno,
io - fratello misconosciuto, nella famiglia del popolo reietto -
erigerò pareti di tronchi tanto fitti
perché i tartari vi calino i principi nella secchia.

Purché solo mi amino questi ceppi gelati -
si colpiscono i gorodki in giardino mirando a morte -
per tutta la vita a portare son pronto una camicia di ferro
e per la petrina esecuzione troverò nel bosco un manico d'ascia.


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Quanto amiamo simulare,
e dimentichiamo con disinvoltura
che siamo più vicini alla morte da piccoli che in età matura.

Succhia ancora l'offesa del piattino
il bambino assonnato, mentre io 
non ho più a chi tenere il broncio
e su ogni via sono solo.

Ma non voglio morire come un pesce
nel deliquio profondo delle acque
e la libera scelta mi è cara
dei miei crucci e sofferenze.

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Viviamo senza sentire sotto di noi il paese,
a dieci passi i nostri discorsi sono già spenti,
e dove si dà una mezza conversazioncina,
là ti ricordano il montanaro del Cremlino.
Le sue tozze dita come vermi grasse,
come pesi di ghisa le sue parole esatte,
se la ridono gli occhioni da blatta,
rilucono i gambali dei suoi stivali.

E attorno a una masnada di gerarchi dal collo fino,
i favori di mezzi uomini sono il suo trastullo,
chi fischia, chi miagola, chi frigna.
lui solo spauracchia e picchia.
Un decreto dopo l'altro elargisce come ferri di cavallo -
a chi nell'inguine, a chi in fronte, a chi nell'occhio, o al sopracciglio.
È una pacchia ogni esecuzione che decreta,
e un largo petto di osseta.

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Le tue strette spalle dovranno di sferze arrossarsi,
di sferze arrossarsi, al gelo bruciare.

Le tue mani infantili ferri da stiro alzare,
ferri alzare e corde legare.

I tuoi teneri piedi posarsi scalzi sul vetro,
scalzi sul vetro, e su sabbia di sangue.

E io dovrò invece come nera candela per te bruciare,
per te bruciare e non osare pregare.

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