"Un mondo meraviglioso" di Vitaliano Trevisan (Einaudi)

 


Ho terminato con commozione la rilettura di "Un mondo meraviglioso" e qui sotto c'è un estratto. E a fine ottobre su una rivista esce un mio piccolo racconto.

"Ci accorgiamo sempre troppo in ritardo, sempre quando tutto è già successo, sempre quando non possiamo più fare niente di buono, pensavo, e anche se ci accorgiamo che qualcosa non va, facciamo finta di niente e passiamo oltre, perché non abbiamo tempo né voglia e dobbiamo pensare a salvare prima noi stessi, diciamo che comunque non c'era niente che potessimo fare, che il tipo era condannato e cosí via. Ma io, pensavo, ho sempre la sensazione che avrei potuto fare qualche cosa per lui, Valter, come anche per gli altri, ma non sono stato in grado di fare niente e anzi, forse apposta non ho fatto quello che avrei potuto fare, apposta li ho lasciati andare ognuno per il proprio destino e ho pensato prima al mio di dsetino; che forse mi sono addirittura consolato e al cospetto del loro destino mi sono sentito normale, dentro, a posto, tutto sommato piú a posto di loro. I mostri e i pazzi sono una consolazione per tutti, meno che per i pazzi e i mostri. Il meglio che possa capitare a un mostro, in questo mondo mostruoso di una mostruosità comunque di diversa natura, è di essere trattato come una persona cosiddetta normale, non essendo affatto una persona normale. Ho pensato il meglio, ho scritto il meglio, ma naturalmente intendevo il peggio, non certo il meglio. E poi, pensavo, ci sono gradazioni di mostruosità e diversità, per cui non tutti mostri sono uguali, non tutti sono ugualmente ripugnanti, in qualche angolo del mondo deve esistere il mostro piú mostruoso di tutti, non può esistere, mi dicevo camminando, semplicemente deve esistere, mi dicevo camminando, semplicemente deve esistere perché non è possibile che non esista, il mostro che è la consolazione degli altri mostri e non ha nessuno che lo possa consolare perché nessuno è piú mostruoso di lui. E cercavo, mentre camminavo, di immaginarmi come potesse essere il piú mostruoso essere umano esistente al mondo, ma per quanto mi sforzassi non mi riusciva di creare nessuna immagine abbastanza mostruosa, cosa del tutto logica, pensavo, perché l'essere in questione, se esistesse, e sicuramente esiste, dovrebbe essere - è - di una mostruosità inimmaginabile, dunque indescrivibile e non scrivibile, semplicamente non raffigurabile in alcun modo, non guardabile, inconcepibile, un essere che non potrebbe essere visto, gli occhi si rifiutano di vederlo, il cervello non è in grado di elaborare ciò che gli occhi gli trasmettono. Un essere cosí mostruoso, pensavo, la gente non lo vedrebbe e, se pure lo vedesse, non lo vedrebbe per quello che è, perché vederlo sarebbe troppo pericoloso. Vediamo solo ciò che vogliamo vedere, pensavo, la verità è questa, quello che non vogliamo vedere non lo vediamo, c'è, esiste, ma non lo vediamo perché vederlo ci metterebbe in pericolo, e la vista di un essere simile rappresenterebbe un pericolo mortale per il nostro equilibrio, dunque ci rifiutiamo di vederlo. Naturalmente, pensavo, questo vale per molte altre cose, vorrei dire che vale per quasi tutto ciò che è sotto i nostri occhi tutti i giorni, ma ancora di piú vale in questo caso particolare ed estremo: chi vedesse un essere simile, chi lo vedesse veramente, impazzirebbe, solo un pazzo potrebbe sopportare una simile vista senza impazzire. Oppure un altro mostro. Un essere cosí mostruoso, pensavo, apparirebbe alle persone normali come una persona del tutto normale, perché è questo che le persone normali vorrebbero e potrebbero vederlo. Il mostro dei mostri nel senso del mostruoso dei morti, pensavo. Potrebbe essere chiunque, pensai all'improvviso guardandomi intorno, qualunque persona di aspetto normale e forse nemmeno lui si rende conto di essere quello che è, anzi, è senz'altro cosí: lui non lo sa!, lui si crede normale, pensavo camminando verso ponte Pusterla, senza avere ancora deciso se tornare direttamente a casa, oppure continuare la mia passeggiata o meglio: il mio vagabondaggio, perché di questo si tratta: non di una passeggiata, ma di un vagabondaggio senza meta, pensavo, perché se non ho una meta, e se non mi dirigo verso casa una meta non ce l'ho, allora non passeggio: vagabondaggio." (pp. 65-67)




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