"Il digiunatore" di Enzo Fileno Carabba (Ponte alle Grazie)

 


Nella mia vita di digiuni ne ho fatti sei. Quattro per motivi politici, che poi si chiamano scioperi della fame, e due perché non avevo più voglia di toccare cibo e una di queste due volte finii all'ospedale perché all'assenza di cibo compensavo con robuste dosi di alcool. Durata massima del digiuno/sciopero: sei giorni. Ma ogni volta mi è accaduto che al terzo giorno mi accadeva qualcosa di strano: la fame tornava a macerarmi lo stomaco (non ero Succi e non sarò mai un digiunatore, visto il vizioso sottopeso che sono) ma sentivo che mi mancava l'appetito per tutta una lunga serie di abitudini che contraddistinguevano la mia vita. 

Come se il rinunciare al cibo fosse riuscito a farmi rendere conto di quanta "Roba" di troppo avessi addosso, quante parole, quante aspettative, quanta noia, quanti suoni, quanti rumori mi riempissero il copro e la mente ed é anche per questo motivo che sono uscito felicemente stravolto dalla lettura del nuovo romanzo di Enzo FilenoCarabba “Il digiunatore” (Ponte alle Grazie) che racconta, con un'apertura inquietante e circense che mi ha ricordato quel romanzo straordinario di László Darvasi che è “La leggenda dei gioccolieri di lacrime” (Il Saggiatore) la vita di Giovanni Succi, il primo grande digiunatore (conosciuto, sconosciuto, farlocco, millantatore, vero) della storia, nato nel 1850 a Cesenatico e morto nel 1918. 

Un romanzo bellissimo, trascinante, denso, sorprendete, che riesce, con uno stile che ti entra da subito in bocca, nello stomaco, nelle orecchie come una fiaba un racconto epico, un romanzo di Salgari a restituire al lettore la figura di un uomo contradditorio, affascinato dall'estremo, dai segreti del corpo e dell'anima. 

Un uomo che col suo corpo ha percorso strade infinite, che ha vissuto continenti dentro al proprio corpo, che si è raccontato, che ha raccontato storie indecifrabile, che è stato in Africa, che si é chiuso in una gabbia mostrando il proprio digiuno a una schiera di commensali, che custodiva un fantomatico elisir miracoloso, che è diventato un corpo sottoposto a estremi riti di digiuno lunghi quaranta giorni come Gesù Cristo, che ha venduto se stesso per un sacco di soldi, che ha ispirato Kafka, che è finito in manicomio due volte, che è sparito e ricomparso, che a Milano ha vissuto l'avvento dell'elettricità e della modernità che elimina dal mondo la bellezza di quel buio custode di misteri insondabili, che ha incontrato donne straordinarie/pazze/malate/affamate/sole/dimenticate, che si è ritirato a vita privata, che ha incrociato Buffalo Bill, spiristi, psichiatri, che ha iincontrato e cavalcato il nascente movimento socialista e chissà magari anche ispirato pure Lenin. 

Una vita straordinaria quella di Succi ma io non sono rimasto tanto colpito dalla vita comunque straordinaria e fuori dagli schemi di Giovanni Succi (sono rimasto travolto soprattuto dalle parti ambientate nell'ospedale psichatrico della Lungara), ma quanto invece dalla bravura dell'autore nel raccontare e far vivere quest'uomo contraddittorio, mistico, furbo, eretico, affascinante, misero, posseduto senza mai annoiarmi ma facendomi sentire a casa, confondendomi, irretendomi, lasciandomi in sospeso e pieno di dubbi. 

Questo libro sembra una fiaba che rinnova i propri codici che forse non sono nemmeno codici ma sangue e carne e notti insonni di ogni essere umano. È un racconto dell'orrore perché i corpi che si divorano lasciano ossa, macerie, scarti, indifferenza, resti di denaro e cibo nella polvere. È un trattato sulla follia, sulla psicosi, sul narcisismo, sulla bellezza dell'incontro con la diversità. È un dialogo aperto con Giovanni Succi, con la compagnia costante della voce di sua nonna e di ante, tantissime altre voci che stanno anche dentro di noi. È il racconto epico di uomo che tocca le piramidi e viene imbrigliato in una camicia di forza. Il distillato delle ossa, del cuore di un uomo in una boccetta da nascondere. Il canto delle sue paure. Delle sue rinunce. Del suo modo unico di stare al mondo. 

Un libro che canta una canzone unica. Quella che era Giovanni Succi. Quella che dovrebbero essere tutti i grandi libri. Quella che siamo tutti noi esseri umani. Con le nostre piccole grandi storie. Le nostre miserie. Le nostre debolezze. Il nostro addormentarci per sempre mentre tutti intorno gridano e gridano.

E di cosa farei oggi a meno?

Del lavoro, di internet, di Whatsapp. 

Di me stesso.

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