Intervista a Paolo Mascheri
Ciao Paolo il tuo romanzo “L'albero delle farfalle” (peQuod) è uscito a distanza di tredici anni da quel “Il Gregario” (Minimum Fax) che ritengo uno dei miei migliori romanzi italiani pubblicati degli ultimi vent'anni.
Cosa è accaduto in questi anni e come hai ritrovato il mondo editoriale italiano? Cosa pensi di questo mondo fatto di agenzie letterarie, corsi e scuole di scrittura, festival di ogni genere, intrattenimento? A me sembra che tutto stia peggiorando.
Ciao Andrea, e grazie per l’ospitalità sul tuo blog. Considera che dopo Il gregario per diversi anni ho abbandonato la scrittura. Ho ripreso a scrivere costantemente nel 2017. Mia madre si era gravemente ammalata e sapevo che non ce l’avrebbe fatta. L’albero delle farfalle nasce in fondo dalla volontà più o meno inconscia di fermarla in un ricordo, di imbalsamarla in questo libro come un tassidermista che lavora con il proprio dolore. Sebbene il romanzo sia sotto molti punti di vista ricco di invenzioni e io sia solo in parte Riccardo, la Costanza del libro è vicinissima a come era mia madre. Ho terminato la prima stesura de L’albero delle farfalle sul finire del 2017 poi ho iniziato la ricerca di un editore e ovviamente riaffacciarmi sul mondo editoriale dopo nove anni ha fatto sì che non venissi preso in grande considerazione. Senza elencare tutti i problemi noti di questa industria che comunque gli addetti ai lavori elencherebbero meglio di me, posso dirti che io sono serenamente fuori da questo mondo, né in alcun modo vorrei mai diventare un intellettuale che pontifica su tutto o che dice agli altri chi devono votare o come la devono pensare su ogni argomento quotidiano.
Concordo con te. Vivo di dubbi, ripensamenti e interrogativi che non hanno e non avranno mai risposta e a cui nemmeno mi interessa che ce ne siano. Apprezzo sempre più quegli scrittori e intellettuali e in generale tutte quelle persone che non si vergognano di confessare che non sanno che dire o scrivere di quel determinato argomento e preferiscono ascoltare, porre domande, fregarsene.
Sei approdato a Pequod. Come mai questa scelta e come ti sei trovato a lavorare con loro?
PeQuod era una delle case editrici che seguivo con entusiasmo quando ero poco più che un ragazzino, Uscivo dall’università e passavo davanti a una libreria indipendente sbirciando in vetrina le nuove uscite di Fazi, Minimum Fax e PeQuod. Quindi un giorno di autunno del 2019 ho avuto l’idea di scrivere a Marco Monina. Lui aveva apprezzato Il gregario e mi invitava a inviargli il nuovo lavoro. Dopo averlo letto, Monina mi chiamò proponendomi la pubblicazione. Non c’è stato alcun intervento sul testo, tornando alla tua domanda. Mi sono trovato bene, anche a livello umano, fattore per me fondamentale. Se sono tornato a pubblicare lo debbo a Marco Monina.
In due parole come descriveresti, a un potenziale lettore, il tuo romanzo? Non hai avuto paura che lo definissero come l'ennesimo racconto di malati terminali, di dolore e di morte che riempiono gli scaffali?
Il destino dell’uomo non è il suo carattere. Il destino dell’uomo è lo scherzo che la vita fa al suo carattere. Ecco, lo definirei con questa citazione che andando a memoria dovrebbe essere di Philip Roth, se non erro. Per quanto riguarda la paura non ne ho avuta. E questo alla fine sia perché ero stato anni senza pubblicare e quindi non aspettandomi nessuno non avevo nulla da perdere. E sia perché era l’unico libro che potevo scrivere in quel determinato momento. Una volta Yehoshua ha detto che non siamo noi a decidere i libri che scriviamo, ma che in parte i libri si scrivono da soli. Lo credo anch’io. E tu, Andrea?
Certe volte penso che scrivere libri sia per m come un'operazione chirurgica in cui noi ci ritroviamo ad essere sia il dottore che il paziente che il parente che è in attesa nella sala d'attesa del Pronto soccorso. Quando scrivo mi sento svuotato psicologicamente e fisicamente e tutte le volte che ho terminato un romanzo o un racconto è come se sentissi di essermi strappato qualcosa dal cuore ma anche come se avessi trovato quella malattia dentro di me e di averla curata, di aver asportato una ferita, un organo ormai morto e di poter tornare finalmente a respirare.
Ho trovato incredibile il tuo romanzo soprattutto per come sa restituire, senza alcuna caduta nel patetismo, quel cambiamento che una tragedia porta nella vita delle persone. Ho vissuto anche io la malattia e la morte di mia madre e ripensando a quei mesi mi sono accorto di come, in maniera quasi obbligata, avessi cominciato a riempirmi la bocca di termini medici, di medicine, a sentirmi addosso l'odore dell'ospedale e della perdita anche dopo una doccia. Lo stesso rapporto con mia madre e mio padre si era modificato: li vedevo con occhi diversi e ho scoperto lati del loro carattere a me sconosciuti ed è come se mi fossi ritrovato a raccontarli, a conoscerli forse meglio e questo nuovo vocabolario affettivo ha avuto ripercussioni, anche negative, nella relazione con la mia compagna, nei rapporti di lavoro, su me stesso.
“Non conosco nessun altro modo di affrontare questa situazione se non metterci tutto me stesso, se non soffrire fino in fondo.” scrivi a pagina 100. Ma mi ha colpito anche come Riccardo si senta come responsabile della malattia della madre e di non offrirle la cura giusta per poterla guarire. Come se ci fosse una mancanza. Come se quel figlio non sapesse restituire, nel momento del bisogno e quasi fisicamente, tutto l'amore materno ricevuto sin dalla nascita. È un tema che attraversa tutto i tuoi scritti: l'inadeguatezza filiale, il non corrispondere alle aspettative dei genitori o della moglie, il combattere per un'intera esistenza una battaglia che sembra vana fatta di sacrifici e che sfinisce, riempie di dolore, isola.
Ti ringrazio. Questo era il rischio più grosso con un tema del genere. Il libro è pieno di tenerezza ma al tempo stesso non cade nel patetismo. Riccardo è un uomo di buona volontà. E al tempo stesso è convinto che essere una brava persona, fare lo cose con coscienza e responsabilità lo mettano al riparo dal caos o dal male. Quindi è completamente sprovveduto davanti alla vita quando questa si fa imprevedibile. E sopravvaluta la propria buona volontà. Investe nella lotta alla malattia di Costanza ogni significato riguardante le propria esistenza. Esponendosi alla rovina. È certamente inadeguato. Ma chi non è inadeguato dinnanzi alla complessità dei rapporti, al mistero, alla dittatura del caso nell’esistenza umana? Solo gli stolti o solo chi bara. Non trovi?
Il caso e la morte sono le uniche certezze della vita e cercare di trovare una via d'uscita a questa condanna è una costante che in qualche modo ci permette di vivere nell'illusione di essere gli artefici della propria esistenza. Ammiro per questo motivo, ma non li invidio, i credenti che vedono nella vita un disegno, un progetto che non termina con la morte, conciliando libero arbitrio e il disegno di Dio. Proprio recentemente è morta mia zia e ho notato come mia cugina, credente, trovasse conforto e un senso a tutte le sofferenze vissute e le inserisse in un contesto armonico. Io, questo senso proprio non ce lo vedo. Ci vedo solo dei fatti. Ma non accettare la mancanza di senso, la morte dei propri cari, i fallimenti è una molla straordinaria per scrivere.
“L'albero delle farfalle” mi sembra ad oggi il tuo romanzo migliore, il più classico e per certi versi inattuale, slegato da qualsiasi tendenza in voga. È come se la tua narrazione si stia spogliando, romanzo dopo romanzo, da tutti quegli aspetti e, che potremmo definire più scioccanti o estremi, per arrivare all'essenziale.
Anche secondo me. Quando ho cominciato a scriverlo ero anche disgustato da una certa evoluzione del linguaggio comune. Vedevo come la gente dialogava sul web o certo tipo di giornalismo televisivo e ne avevo la nausea. Ormai, certi contenuti che potevano, un tempo, essere funzionali perché di rottura, li vedevo consumati e superati almeno nella mia sensibilità. Poi volevo fare qualcosa di differente rispetto a Il gregario. Credo che l’incoerenza sia una dote fondamentale in uno scrittore. L’incoerenza che ti spinge a rinnegare continuamente il libro precedente. Tu che ne pensi?
Lo penso anche io e ho pensato a come un autore che amo come Houellebecq si sia impatanato proprio per non aver voluto essere accusato di incoerenza. Come se stesse scrivendo da anni lo stesso libro, al di là della storia o ambientazione che sceglie, per soddisfare il suo lettore “tipo”, offrendogli sempre quelle descrizioni, l'inevitabile pompino. Quest'anno compio 43 anni e le storie che sto scrivendo sono segnate da tutti i miei cambiamenti e dalle esperienze che ho vissuto, da quello che ho letto e conosciuto, dai ripensamenti, dagli errori. E soprattutto dall'ascolto degli altri. Sono diventato meno intransigente, meno spocchioso, meno severo con gli altri perché ho capito che essere diverso da loro non mi rende certo migliore di loro. Sto scrivendo di ciò che conosco e vivo ma "me stesso" sta quasi evaporando, o almeno è questo che mi auguro.
Decisive per me sono le lunghe descrizioni di fiori, piante ma anche delle terapie mediche., quasi in maniera entomologica. All'inizio ho pensato a qualcosa di cinematografico ma rileggendo alcune pagine ho pensato alla forza espressiva di un dipinto che apparentemente sembra statico ma che a ogni sguardo offre particolari inattesi e soprattutto agisce sul nostro stato d'animo, quasi in maniera materica. È come se il tuo amore per le piante e i fiori sia una sorta di canzone che esce da questo romanzo. Cosa ne pensi?
Mi piace questa immagine che hai creato. Non ci avevo pensato. Ne Il gregario avevo tolto le colline, la macchia mediterranea dal paesaggio riempiendolo di capannoni, centri commerciali, night club perché quell’operazione mi pareva funzionale alla storia e ai protagonisti. Qui, il paesaggio con la macchia sempreverde e le fioriture fa invece da contraltare alla malattia. E il giardinaggio è una parte fisica di quella lingua comune tra madre e figlio.
Ho sentito il respiro della Szabó, Coetzee, Roth ma credo che questa volta questi autori siano solo dei compagni di viaggio ed emerge la tua voce, quella di Paolo Mascheri, con la sua cifra stilistica, piaccia o non piaccia Ma per curiosità che letture hai fatto in questi ultimi anni e hai letto anche libri specifici per parlare di cancro?
Credo di sì. I nomi che tu citi sono nomi inarrivabili ovviamente. Nel mio piccolo ho sempre cercato di trovare una voce e se tu mi dici che la senti mi fa solo piacere. Negli ultimi anni ho amato particolarmente la trilogia di Kent Haruf e L’ultima stagione di Don Robertson, Stoner di John Williams e le poesie di Stefano Simoncelli, A beneficio degli assenti e Sotto falso nome specialmente. E i libri di Donatella Di Pietrantonio. Ho smesso da tempo di essere un lettore forte se lo sono mai stato. Leggo molto poco, rileggo spesso i libri che sono stati importanti per me. So che tu invece leggi moltissimo, vero? Non reputi questo un rischio per la tua scrittura? Non temi che tutte queste voci possano danneggiare la tua? Quali libri fondamentali hai letto tu negli ultimi tempi?
Io mi sento più un lettore che uno scrittore. Trascorrerei tutto il giorno a leggere e trascrivere brani che mi piacciono, come un monaco amanuense in qualche abbazia dispersa in mezzo alle Alpi. Credo che tutte queste letture mi servano per capire alcuni miei errori, anche trovare qualche risposta. È come se fossero degli editor molto esigenti. Come se dialogassi con loro e mi mettessero in crisi su tutte le mie certezze oppure confermandomi che sono sulla strada giusta o spronandomi a non avere paura. In questi ultimi anni anche io ho molto apprezzato Kent Haruf e Stoner e ho scoperto una straordinaria scrittrice e donna che è Lionel Shriver, ho divorato Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart ma ho soprattutto riletto tanto Melville, Maupassant e Flaubert su tutti e poi negli ultimi è arrivato Mill Town di Kerry Arsenault che mi ha lasciato senza parole perché è come se avesse descritto con precisione il paesino dove sono cresciuto, il mondo della fabbrica, le aspettative di miglioramento sociale, l'inquinamento e soprattutto il sentirsi fuori posto, non avere radici e sentirsi spaesati e lontani tutte le volte che si torna nella casa dove si è cresciuti.
Non sei solo uno scrittore ma anche un farmacista. Come hai vissuto questi ultimi due anni di pandemia? Oggi leggevo che a Bologna ci sarà un patentino, con tanto di punti, per i bravi cittadini che comportandosi bene avranno delle agevolazioni fiscali o di altro tipo. Una follia vera e propria.
Ho sempre lavorato, quindi guardandomi intorno posso dire di essere stato fortunato. Vivere in campagna è stata l’altra fortuna. Non conosco il caso di Bologna nello specifico. Quindi non posso giudicarlo. Ma in assoluto per i miei valori ogni prospettiva di cittadinanza a punti è ovviamente qualcosa di totalmente inaccettabile.
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