Nessuno Tocchi Caino - NOSTRO FIGLIO SUICIDA IN CELLA. PER IL GIUDICE NON DOVEVA STAR LI’

NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS

Anno 22 - n. 23 - 11-06-2022

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : NOSTRO FIGLIO SUICIDA IN CELLA. PER IL GIUDICE NON DOVEVA STAR LI’
2.  NEWS FLASH: DA ‘PRIGIONE’ A ‘CARCERE’, CON LE PAROLE NASCE IL CASTIGO
3.  NEWS FLASH: MALDIVE: PROSEGUE LA MORATORIA SULLE ESECUZIONI
4.  NEWS FLASH: IRAN: DETENUTO GIUSTIZIATO DAL PROPRIO FIGLIO
5.  NEWS FLASH: DONETSK: DUE BRITANNICI E UN MAROCCHINO CONDANNATI A MORTE DAI FILORUSSI
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : DESTINA IL TUO 5X1000 A NESSUNO TOCCHI CAINO


NOSTRO FIGLIO SUICIDA IN CELLA. PER IL GIUDICE NON DOVEVA STAR LI’
Stefania e Maurizio* su Il Riformista del 10 giugno 2022

Giacomo non avrebbe dovuto trovarsi in quella cella di San Vittore, dove una settimana fa si è tolto la vita con il gas di un fornellino da campeggio per cucinare.
A causa delle sue condizioni di salute mentale, il giudice aveva infatti disposto il suo trasferimento in una REMS, le residenze subentrate alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, ma la sua sofferenza non era evidentemente compatibile con i tempi della burocrazia e il disinteresse delle istituzioni.
Giacomo Trimarco, 21 anni, soffriva di Disturbo Borderline di Personalità, una patologia che provoca incapacità di regolare l’intensità delle emozioni, continua variazione di stato d’animo, sentimenti di vuoto, terrore dell’abbandono. Qualcuno la paragona alla pelle ustionata, sulla quale anche un tocco lieve può provocare sofferenze enormi. Tra chi è affetto da questo disturbo, le statistiche riportano un’incidenza di suicidi altissima, intorno al 10 percento.
Il disturbo ha origini biologiche (inadeguato bilanciamento dell’attività dell’amigdala e della corteccia prefrontale), ma è accentuato da fattori ambientali. Per Giacomo, i fattori ambientali negativi iniziano presto: i primi tre anni di vita passati in un orfanotrofio di San Pietroburgo prima dell’adozione, la richiesta di aiuto a dodici anni che si trasforma in infiniti rimbalzi da una comunità all’altra, il carcere minorile.
Il disturbo avrebbe anche una prognosi favorevole, se correttamente trattato, ma a Giacomo, malgrado le nostre lotte, è stata negata questa possibilità: ha ricevuto una diagnosi tardiva; non ha mai avuto una psicoterapia specifica; è stato trattato con dosi massicce di psicofarmaci inadeguati che spesso peggioravano i sintomi della sua patologia. In un crescendo di inadempienze che hanno attraversato servizi di tutti i tipi: Servizi Sociali Territoriali, Uonpia, CPS, SERD, SPDC, Psichiatria Forense, presidi psichiatrici in carcere...
È paradossale che spesso venga delegata al carcere la gestione di situazioni cliniche complesse, che i Servizi di Salute Mentale per anni non hanno affrontato con mezzi e interventi efficaci. E, invece, il carcere contribuisce ad aggravare le patologie psichiatriche, come ha evidenziato il sociologo Erving Goffman, che ha individuato varie fasi della vita detentiva:
- l’ingresso in carcere: la persona che soffre di disturbi mentali perde il proprio ruolo sociale, è privata dei suoi effetti personali, dei suoi spazi, del supporto della famiglia e del caregiver;
- l’adattamento regressivo: il malato mentale, ormai detenuto, prende atto che il sistema non solo non l’ha aiutato, ma l’ha anche punito;
- l’adattamento ideologico: il soggetto psichiatrico accetta/finge di accettare la condanna e subentrano/peggiorano gli stati depressivi, che possono condurre ad autolesionismo e tentativi di suicidio;
- l’adattamento entusiastico: ormai la realtà carceraria è la nuova e unica realtà (senso di irrealtà), si teme la vita esterna e le patologie possono degenerare in vere e proprie psicosi.
Nella migliore delle ipotesi, quindi, l’unico risultato della pena detentiva (che dovrebbe, secondo la Costituzione, essere rieducativa) per chi ha un disturbo psichico è l’ottundimento delle capacità intellettive. Nella peggiore, l’esperienza si interrompe drammaticamente alla terza fase, come è stato per Giacomo.
Noi, i suoi genitori, non ci diamo pace: i mesi e i giorni prima della tragedia, sono state ignorate le sue richieste di aiuto e i suoi gesti che segnalavano una situazione di rischio crescente, aggravata dal suicidio del suo amico e vicino di cella Abu El Maati, 24 anni, scomparso nel silenzio più totale.
Ora noi genitori cerchiamo di dare un senso a una tragedia che sembra non averne: vorremmo che servisse almeno ad aprire una riflessione sul diritto alla cura, che deve essere di tutti, dentro e fuori dal carcere. Troppi giovani – molti più di quanto ci si aspetterebbe – sono nelle stesse condizioni di abbandono di Giacomo: vorremmo impegnarci perché non capiti più a nessun altro, siamo disposti anche a percorrere le vie legali, se può essere di aiuto a questi ragazzi. Da anni facciamo parte di una rete di famiglie – “Ci siamo anche noi” – che cerca di portare l’attenzione su questi ragazzi “invisibili” e sul loro destino.

* Genitori di Giacomo Trimarco, morto suicida a San Vittore 1° giugno 2022

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

DA ‘PRIGIONE’ A ‘CARCERE’, CON LE PAROLE NASCE IL CASTIGO
Antonio Coniglio su Il Riformista del 10 giugno 2022

La parola, nel momento in cui viene scandita, pensa, concepisce, crea. A volte distrugge, rade al suolo. In ogni caso, la parola fucina e modella il destino. Perché, in principio, fu il verbo, il logos e, trovare le parole giuste, rimane l’unico viatico per capire, intenderci, dar vita alla realtà.
Nel corso dell’ultima assemblea di Nessuno tocchi Caino, a Roma, presso la Società Romana di Nuoto, Sergio D’Elia ha riflettuto, per esempio, sulla parola “galera”.
Sino al XVIII secolo, il reo era costretto, infatti, a remare nelle galee o galere: navi medioevali spinte dalla forza delle braccia sui remi. Nessuno avrebbe potuto immaginare che, nel momento in cui le navi avessero ammainato le proprie bandiere, i detenuti, sarebbero stati costretti a trasformarsi in “automi peripatetici”: coartati a muoversi, come pesci in un acquario, avanti e indietro, dentro quattro mura, senza un senso, un verso, una destinazione, un destino! Quale parola usare per definire questa condizione? Di uomini e donne condannati alla inutilità e all’impotenza?
Non certo la parola “prigione”. “Prigione” deriva dal latino “prehensio”: prendere, afferrare. Ti prendo, ti afferro e ti porto in luogo distinto dalla società perché sei pericoloso, nocivo. Per un tempo determinato e senza alcuna intenzione punitiva. Starai lì, solo fino a quando sarai portatore di insidie e pericoli per gli altri. Lo Stato deve “sorvegliare”, vivaddio, ma mai “punire”! L’etimologia di “prigione”, ci consegna allora questa realtà. La crea, gli dà un nome. La prigione ha una funzione meramente preventiva. Non è un caso se, nel mondo classico, i prigionieri erano protetti da un semplice vestibolo, nel quale, in taluni casi, avevano finanche la libertà di incontrare parenti e amici. Un vestibolo, un passaggio, un passo verso qualcosa. Che poteva essere la libertà o anche la morte. Oggi – che è quasi patrimonio diffuso aver superato la pena di morte nel nome dei diritti umani universali – il termine “prigione” avrebbe potuto esplicarsi al pieno della sua capacità inventrice. Uno spazio funzionale solo a “raffreddare”, stiepidire le passioni morbose, pericolose, per un periodo centellinato della propria esistenza. Dopo, il quale si potesse ritornare al teatro della vita. La prigione serve “ad continendos homines, non ad puniendos”.
In Italia, invece, abbiamo partorito l’idea insalubre e venefica di abolire le prigioni! Di creare il “carcere”. Nomen omen: nel nome il presagio, la realtà creata. Carcere deriva dal verbo latino “coerceo”. Che significa contenere ma anche domare, reprimere, frenare, punire, castigare, correggere, costringere all’obbedienza. Prigione non è sinonimo di carcere. Carcere è invece sinonimico di penitenziario, di istituto di pena. Sono luoghi progettati ontologicamente per infliggere dolori e patimenti. Gattabuie del castigo e della terribilità. Se ci incamminiamo oltre, dobbiamo ulteriormente spaurire. Abbiamo dovuto finanche aggiungere un attributo perché il nome carcere, in sé e per sé, non rendeva sufficientemente la proporzione enorme di piaghe e flagelli inflitti. C’è, infatti, un carcere “ostativo”. Ostativo deriva dal latino ob-stare: stare di contro, opporsi, contrastare. È la modernità della tortura. Il castigo perpetuo nei confronti dell’hostis, del nemico.
È il coerceo senza limite: la dannazione dell’essere cristallizzata dallo Stato. Di questo, in questi mesi forse torridi, discuterà il Parlamento italiano. La Corte Costituzionale ha infatti inspiegabilmente concesso altri sei mesi al legislatore per superare una norma – l’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario – dichiarata incostituzionale.
Freud era convinto che le parole originariamente fossero incantesimi. Sarebbe un miracolo, se i signori deputati cambiassero parole, pronunciassero incantesimi di segno diverso. Sostituissero, al “coerceo”, il “prehensio”: un prendere, afferrare, per un tempo limitato, nel nome della sicurezza sociale, compatibile con i diritti umani universali. E sarebbe un incantesimo, capace di rompere un maleficio, eliminare quantomeno la parola ostativo. Sarebbe superare una parola, carcere, che potrebbe anche avere, tra gli avi, l’ebraico carcar, ossia tumulare, sotterrare. Può lo Stato sotterrare, tumulare, un uomo? I signori parlamentari hanno dinnanzi a loro, non capi mafia, boss potenti, “giganti della montagna”, ma uomini ristretti in carcere da più di 20 anni. Inermi, che hanno il diritto di lasciare il vestibolo, laddove abbiano raggiunto nuovi livelli di coscienza. Di ritornare nel teatro della vita, oltre ogni scambio sinallagmatico che umilia le coscienze. I “giganti della montagna” di Pirandello rischiano invece di essere i deputati del parlamento italiano che – alla stregua di quelli del dramma pirandelliano – non accettano la proposta della compagnia teatrale della contessa Ilse e degli scalognati di assistere alla rappresentazione di un’opera che racconta la storia della vita. Non fate come “i giganti della montagna”, signori deputati: non ammazzate. Pronunciate parole di segno diverso!

MALDIVE: PROSEGUE LA MORATORIA SULLE ESECUZIONI
Il ministro dell'Interno delle Maldive Imran Abdulla ha affermato che le Maldive hanno intenzione di continuare la moratoria sull'applicazione della pena di morte.
Imran ha rilasciato la dichiarazione il 6 giugno 2022 essendo stato interrogato dal deputato Ahmed Thoriq del collegio elettorale di Mahibadhoo del Majlis del Popolo (parlamento monocamerale) in merito alla politica del governo riguardo i detenuti che hanno completato le procedure per le esecuzioni.
In risposta, Imran ha affermato che nell'ultimo mezzo secolo tutti i governi hanno seguito la politica di mantenimento della moratoria.
"Non si tratta di una nuova politica introdotta da questo governo. E’ ciò che viene fatto nelle Maldive da molto tempo", ha affermato Imran.
Ha notato che, sebbene diverse amministrazioni precedenti abbiano parlato in diverse occasioni di pena di morte per scopi politici, non sono state apportate modifiche alla politica.
Anche l'amministrazione dell'ex presidente Abdulla Yameen ha mantenuto la moratoria senza applicare la pena di morte, ha affermato Imran.
Attualmente ci sono tre persone nel braccio della morte: Hussain Humam Ali, per aver ucciso il dottor Afrasheem Ali, Ahmed Murath per aver ucciso l'avvocato Mohamed Najeeb e Mohamed Nabeel per aver ucciso Abdulla Faruhadh.
Anche se la Corte Suprema ha confermato tutte e tre le condanne a morte nel 2016, non è stata intrapresa alcuna azione per la loro applicazione.
Nel 2015 è stato emanato un regolamento per l'applicazione della pena di morte, che prevede come metodi l’impiccagione o l’iniezione letale.
La pena di morte è stata applicata l'ultima volta nelle Maldive nel 1953, mediante fucilazione.
(Fonti: Edition, 06/06/2022)

IRAN: DETENUTO GIUSTIZIATO DAL PROPRIO FIGLIO
Un uomo, non identificato, è stato giustiziato dal proprio figlio in Iran il 1° giugno 2022.
La notizia è stata riportata il 7 giugno da Iran Human Rights, che cita come fonte originaria l’agenzia di stampa filogovernativa Rokna, che ha aggiunto solo che l’uomo era accusato di aver accoltellato a morte la moglie il 20 marzo 2019. Mancano ulteriori informazioni. IHR ritiene che l’esecuzione possa essere avvenuta il 1° giugno, quando diverse esecuzioni sono state effettuate all’interno della prigione centrale di Gohardasht, più nota come prigione di Rajai Shahr.
Iran Human Rights sta proseguendo le indagini per confermare le esecuzioni nel carcere di quel giorno. In Iran, una volta che un imputato è stato condannato per “qisas” (omicidio), la famiglia della vittima è tenuta a scegliere tra tre alternative: morte, diya (letteralmente “prezzo del sangue”, ossia un risarcimento) o perdono. Inoltre, i familiari della vittima non solo sono incoraggiati ad assistere alle esecuzioni, ma a realizzarle personalmente. In questo caso, i parenti più prossimi erano suo figlio e i genitori della moglie, i quali hanno scelto la morte.
Si dice che il figlio dell'uomo abbia tirato lo sgabello da sotto i piedi di suo padre. Questo non è il primo caso in cui un condannato per qisas viene giustiziato dal proprio figlio. Nel 2021, le esecuzioni di due donne, Maryam Karimi e Zahra Esmaili, sono state eseguite personalmente dai propri figli come parenti prossimi dei loro padri. (Fonte: IHR)

DONETSK: DUE BRITANNICI E UN MAROCCHINO CONDANNATI A MORTE DAI FILORUSSI
Due cittadini britannici e un marocchino sono stati condannati a morte il 9 giugno 2022 per aver combattuto a fianco dell'Ucraina, con una pena inflitta dai separatisti filo-Mosca.
Il procedimento contro i tre combattenti catturati è stato denunciato dall'Ucraina e dall'Occidente come una farsa e una violazione delle leggi di guerra.
Un tribunale dell'autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk in Ucraina ha giudicato i tre combattenti colpevoli di aver cercato il rovesciamento violento del potere, un crimine punibile con la morte nella repubblica orientale non riconosciuta. Gli uomini sono stati anche condannati per attività mercenaria e terrorismo.
L'agenzia di stampa statale russa RIA Novosti ha riferito che gli imputati - identificati come Aiden Aslin, Shaun Pinner e Brahim Saadoun – saranno messi davanti a un plotone di esecuzione. Hanno un mese per presentare appello.
I separatisti sostengono che i tre siano "mercenari" che non hanno diritto alle consuete protezioni accordate ai prigionieri di guerra. Sono i primi combattenti stranieri condannati dai ribelli ucraini sostenuti dalla Russia.
Il portavoce del ministero degli Esteri ucraino Oleh Nikolenko ha condannato il procedimento come legalmente non valido, dicendo: "Tali processi farsa pongono gli interessi della propaganda al di sopra della legge e della moralità". Ha affermato che tutti i cittadini stranieri che combattono come parte delle forze armate ucraine devono essere considerati personale militare ucraino e protetti come tali.
Il ministro degli Esteri britannico Luz Truss ha definito la sentenza un "giudizio farsa assolutamente privo di legittimità". Il portavoce del primo ministro Boris Johnson, Jamie Davies, ha affermato che ai sensi delle Convenzioni di Ginevra, i prigionieri di guerra hanno diritto all'immunità come combattenti.
Il padre di Saadoun, Taher Saadoun, ha detto al quotidiano online marocchino in lingua araba Madar 21 che suo figlio non è un mercenario e che possiede la cittadinanza ucraina.
Le famiglie di Aslin e Pinner hanno affermato che i due uomini sono da tempo membri dell'esercito ucraino. Entrambi vivrebbero in Ucraina dal 2018.
I tre uomini hanno combattuto con le truppe ucraine prima che Pinner e Aslin si arrendessero alle forze filo-russe nel porto meridionale di Mariupol a metà aprile e Saadoun fosse catturato a metà marzo nella città orientale di Volnovakha.
Un altro combattente britannico fatto prigioniero dalle forze filo-russe, Andrew Hill, è in attesa di processo.
L'esercito russo ha affermato che i mercenari stranieri che combattono dalla parte dell'Ucraina non sono combattenti e devono aspettarsi lunghe pene detentive, nella migliore delle ipotesi, se catturati.
(Fonti: AP, 09/06/2022)
 

 


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