Nessuno Tocchi Caino - UN’ALTRA PACE È POSSIBILE, ECCO COME

Nessuno Tocchi Caino News

Anno 22 - n. 40 - 29-10-2022

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : UN’ALTRA PACE È POSSIBILE, ECCO COME
2.  NEWS FLASH: GIAPPONE, ESECUZIONI A SOPRESA ‘PER NON TURBARE I CONDANNATI’
3.  NEWS FLASH: VENDEVA MERCE IN TV, ADESSO VANNA REGALA SPERANZA IN CARCERE
4.  NEWS FLASH: IRAN: UCCISI NELLE PROTESTE ALMENO 234 DI CUI 29 MINORI
5.  NEWS FLASH: SOMALIA: TRIBUNALE MILITARE FUCILA DUE AL-SHABAB
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :


UN’ALTRA PACE È POSSIBILE, ECCO COME
Sergio D’Elia su Il Riformista del 26 ottobre 2022

Occorre, innanzitutto, stabilire con fermezza e senza ambiguità che nella guerra in corso nel cuore dell’Europa il torto e la ragione non sono equivalenti, ma impari. Vittime e carnefici non si somigliano, sono inconfondibili. Da una parte c’è l’aggressore, la Russia di Putin; dall’altra c’è l’aggredito, l’Ucraina.
Da nonviolenti non possiamo essere pacifisti, neutrali ed equidistanti. Abbiamo il diritto e il dovere di ingerenza, di intervento, di pronto soccorso. Con le parole di Marco Pannella, ispirate dal Mahatma Gandhi, affermiamo che “fin quando non costruiremo una società di nonviolenti, sarà dovere dei nonviolenti, se non vogliono essere vili, schierarsi al fianco della violenza più vicina alle ragioni del diritto”.
C’è obiezione di coscienza e obiezione di coscienza. Chi siamo noi per giudicare qual è quella giusta? Tra l’obiezione di coscienza al militarismo che invoca la “pace senza se e senza ma” e l’obiezione di coscienza a un pacifismo che condanna a subire la guerra chi per sua legittima difesa decide di resistervi? Siano beati sempre i costruttori di pace e i nonviolenti “intolleranti” – nel senso pasoliniano del “tollĕre” – che non levano lo sguardo, non si voltano dall’altra parte. Gli uni e gli altri sono fratelli: non vivono nella indifferenza e nella rassegnazione o nell’attesa che la pace arrivi.
Occorre sempre costruire, non attendere, la pace. Il tempo della pace va pre-visto, visto prima. Il dopo-guerra va anticipato, preparato. Nulla di buono per il dopo-guerra può avvenire che non sia stato pensato per bene e per il bene, prima, molto tempo prima, quando a imperare sono ancora il male, la violenza, il terrore. Hic et nunc. Occorre pensare, sentire, agire, vivere, qui e ora, nel modo e nel senso in cui vogliamo accadano le cose.
Allora, cosa pensiamo di fare per rendere giustizia alle vittime ucraine in Ucraina e russe in Russia della guerra di Putin? Pensiamo davvero di consegnarci al solito Tribunale dei vincitori sui vinti? Di corrispondere, in proporzione uguale e contraria, alla violenza e al dolore infinito del crimine di guerra con la durezza e il castigo esemplare del “giudice di pace”? Con la pena tremenda, senza fine, senza speranza, fino alla morte?
Non c’è pace senza giustizia, è vero, è giusto dirlo. Ma quale giustizia vogliamo? Se è quella di Dike, la dea con la spada in una mano e nell’altra la bilancia coi piatti impari, la pace può essere terrificante quanto la guerra. Prepariamo sin da oggi il tempo della pace, togliendo la spada dalla mano della giustizia e pareggiando sulla bilancia il piatto del torto con quello della ragione. Invochiamo un’altra dea, un’altra giustizia: Atena, dea della saggezza, la sua idea di giustizia che non punisce e separa, ma riconcilia e ripara.
Il “Nessuno tocchi Caino” della Genesi rimane un monito sempre più attuale. Dovesse accadere, lo diciamo sin da ora anche per Vladimir Putin, come facemmo con Saddam Hussein, anche con la proposta di esilio alternativa alla guerra. Nessuna vendetta, nessuna pena di morte, nessuna pena fino alla morte. Nessuna umiliazione! Usciamo dalla logica manichea del bene e del male della giustizia penale, del delitto e del castigo. Cerchiamo, anche in questo caso, qualcosa di meglio del diritto penale! Se vogliamo davvero una liberazione e una pace che durino nel tempo, liberiamo innanzitutto noi stessi e liberiamo il campo dagli armamentari mentali e strutturali del giudizio: indagini e tribunali, condanne e pene, procuratori e giudici, carcerieri e boia.
Scongiuriamo, quindi, per il nostro futuro la maledizione dei mezzi sbagliati che prefigurano e distruggono i fini giusti. Mettiamo in circolazione e usiamo parole e strumenti di segno diverso, coerenti coi fini che vogliamo affermare. Parliamo al male con il linguaggio del bene, all’odio con il linguaggio dell’amore, alla forza bruta della violenza con la forza gentile della nonviolenza. Per l’Ucraina e per la stessa Russia, immaginiamo sin da subito, prefiguriamo e, in tal modo, forse, riusciamo già a costruire qualcosa di diverso dalla violenza omicida e suicida di chi la guerra ha scatenato. Siamo il futuro, il diritto e la pace che vogliamo vedere affermati in quella terra e nel mondo!
Non occorre andare a cercare nella notte dei tempi per scoprire qualcosa di meglio del diritto penale. Il motto visionario “nessuno tocchi Caino” della Genesi e l’imperativo messianico “non giudicare!” del Vangelo, si sono inverati in tempi molto più recenti, quando per sanare le ferite del
passato e ristorare le vittime di immani violenze, di crimini di guerra e contro l’umanità, non sono stati edificati tribunali ma corti e commissioni “verità e riconciliazione”. È successo in Ruanda, dopo il genocidio del 1994. È successo in Sudafrica nel 1995 alla fine dell’apartheid. La verità per salvaguardare la memoria delle vittime, la riconciliazione per salvaguardare il futuro della società. Da questo esempio del passato, da questa visione del futuro, letteralmente “religiosa”, tendente cioè non a separare ma a legare vissuti e mondi diversi, può venire lo spirito creatore, lo stato di grazia che, forse, ci salveranno.

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

GIAPPONE, ESECUZIONI A SOPRESA ‘PER NON TURBARE I CONDANNATI’
Alessandro Barchiesi e Sergio D’Elia su Il Riformista del 28 ottobre 2022

La pena di morte è ormai considerata un ferro vecchio della storia dell’umanità. È un ferro arrugginito e perciò tutti stanno attenti a maneggiarlo: tantissimi Stati l’hanno cancellata dai codici; alcuni non la usano più da decenni; altri si vergognano a usarla e la praticano in segreto; altri ancora l’hanno mascherata con il “fine pena mai”, l’ergastolo senza via d’uscita; in altri luoghi, come da noi, è il carcere, l’istituto strutturale della pena, a compiere l’opera mortifera.
Mentre il mondo tende all’abolizione, il Giappone si ostina a praticarla, ma come una vergogna la copre con un manto di incertezza e segretezza. Non solo l’opinione pubblica, gli stessi condannati nel braccio della morte sono tenuti all’oscuro: la prima la scopre dopo il fattaccio, i secondi qualche ora prima di essere appesi per il collo. Fino alla metà degli anni 70, i condannati a morte e le loro famiglie sono stati informati delle esecuzioni il giorno prima. Oggi, le notifiche arrivano ai detenuti con una o due ore di preavviso; le famiglie e gli avvocati vengono a conoscenza della loro impiccagione solo dopo che è avvenuta. Il governo ha spiegato in parlamento e altrove che notificare in largo anticipo il giorno e l’ora della morte disturberebbe la “stabilità emotiva” del detenuto che verrà giustiziato.
David Johnson, un professore dell’Università delle Hawaii, esperto del sistema capitale nel Paese del Sol Levante, ha definito il metodo di esecuzione giapponese un “attacco a sorpresa (damashi-uchi)”. Lo scopo della segretezza è proteggere “il potere del Ministero della Giustizia di decidere chi morirà e quando – e con poche discussioni pubbliche. In altre parole, questa pratica riguarda la conservazione delle prerogative del potere. Non vi è alcuna giustificazione di principio”.
Nel novembre dell’anno scorso, due detenuti avevano annunciato una causa contro il modo in cui le autorità giapponesi applicano la pena di morte. I loro nomi non sono stati resi noti. Il team legale teme ritorsioni. Potrebbero essere giustiziati in qualsiasi giorno, per un motivo sconosciuto. Il 13 gennaio di quest’anno sono cominciate le udienze, che continuano, presso il tribunale distrettuale di Osaka. Gli avvocati difensori Yutaka Ueda e Takeshi Kaneko hanno presentato documenti e testimonianze toccanti.
“Quando l’addetto della prigione apre la porta della cella e annuncia l’esecuzione, il prigioniero viene immediatamente preso, legato, ammanettato e portato con gli stessi vestiti sul posto delle esecuzioni, dove viene impiccato con un cappio”, ha scritto agli avvocati il detenuto del braccio della morte Hiroshi Sakaguchi.
Un’altra testimonianza, contenuta in un nastro audio registrato nel 1955, racconta le ultime ore di un prigioniero senza nome in un’epoca in cui i termini di preavviso erano più lunghi. Si capisce che l’uomo riceve tre giorni prima la notifica della sua esecuzione e trascorre il tempo salutando affettuosamente i detenuti e la sorella in visita, che singhiozza. Il nastro include il rumore dell’uomo che viene impiccato mentre i monaci buddisti cantano i sutra.
L’avvocato Yoshikuni Noguchi era presente a un’esecuzione al Tokyo Detention House nel 1971 come ufficiale penitenziario. Il detenuto aveva appreso della sua esecuzione il giorno prima. Quel giorno ha incontrato la sua famiglia e ha scritto delle lettere. Noguchi ha ricordato che il detenuto sembrava calmo quando ha detto alla sua famiglia: “Sono consapevole del mio crimine. È naturale per me prendermene la responsabilità. Non siate tristi”.
Proprio alla fine dell’udienza di gennaio, l’avvocato Takeshi Kaneko ha menzionato tre detenuti nel braccio della morte che erano stati giustiziati il 21 dicembre 2021, dopo che i due querelanti avevano intentato causa. Anche loro, come se fossero mucche o maiali portati al macello, sono stati avvisati all’ultimo momento, condotti alla camera dell’esecuzione dove gli hanno stretto una corda intorno al collo. Questo modo di fare nega ai detenuti anche la possibilità di contattare un avvocato e, quindi, il diritto di appello. Alcuni prigionieri hanno trascorso più di un decennio nel braccio della morte prima di essere uccisi in una data arbitraria. Almeno un prigioniero è stato giustiziato mentre era in corso un appello, ha ricordato Kaneko.
Il ministero della Giustizia annuncia il nome e il crimine commesso dal prigioniero ma nient’altro, citando regole di riservatezza e privacy. La segretezza significa che non c’è dibattito pubblico in Giappone sulla pena di morte o su come venga applicata. La causa legale in corso non mira certo a rovesciare la pena di morte. Può renderla però meno crudele. Se il Giappone adottasse un maggiore preavviso, potrebbe consentire ai prigionieri, prima della morte, almeno un piccolo segno di vita e di amore: un’ultima cerimonia del tè e la possibilità di scrivere poesie haiku, vedere le famiglie, comunicare i loro sentimenti, scrivere lettere a persone che gli hanno voluto bene.

VENDEVA MERCE IN TV, ADESSO VANNA REGALA SPERANZA IN CARCERE
Raffaella Stacciarini su Il Riformista del 28 ottobre 2022

“In radio mi hanno chiesto cosa farei per i detenuti. Sapete io cosa farei? Inventerei una lima potentissima, una super-lima-mirabolante, e ve la regalerei per segare le sbarre e uscire da qui: veloci! dinamici! svelti, andate via tutti!” Checché se ne dica, a Vanna Marchi i mezzi termini non sono mai piaciuti e non piaceranno mai. Il pubblico esplode in uno scroscio di incitazione e per un attimo sembra di ripiombare nel rampantismo scalmanato e sognante di fine anni ’80, quando la Prima Repubblica era sull’orlo del tracollo ma ancora non lo sapeva, e Marchi la precedeva di poco, senza saperlo pure lei.
Stavolta non siamo nelle sale del potere né in tv, anche se della tv il luogo ne condivide le sembianze, una scatola chiusa che può diventare prigione, e in questo caso lo è: nel teatro interno della casa di reclusione di Opera – il carcere di massima sicurezza alle porte di Milano che ogni mese accoglie il laboratorio Spes contra spem di Nessuno tocchi Caino – il dna da venditrice torna con una veste inedita; l’energia all’epoca al servizio della televendita ora convertita in motore di speranza per i detenuti.
E sì che di entrambe – energia e speranza – qui c’è più bisogno che mai. Vanna Marchi e la figlia Stefania Nobile, che dalla scorsa primavera partecipano al laboratorio e per anni hanno conosciuto il carcere in prima persona, lo sanno bene. “Io mi sento libera ogni volta che vengo qui” dice Stefania, “perché libera fuori non lo sarò più.” Come sono diverse Vanna e Stefania, oggi, in questa loro seconda vita, dall’immagine che televisione e fiction hanno consegnato della loro prima vita!
Un percorso, il loro, che comincia insieme con la carcerazione preventiva nel 2002 e si conclude in maniera definitiva nel 2013 per Stefania, nel 2014 per Vanna. Nel mezzo, il calvario delle cure per l’artrite reumatoide della figlia, patologia autoimmune che la rende invalida al 100% e che sancisce la separazione madre-figlia nel 2009, anno in cui Stefania viene trasferita nel carcere di Pisa, ritenuto più idoneo al trattamento della malattia. “Il momento più difficile? Quando l’hanno portata via da me”, Vanna non trattiene le lacrime. Soprattutto perché per la malattia di Stefania le cure non sono quelle promesse, e il centro idoneo si rivela invero una sorta di discarica dove parcheggiare chi nelle altre case di reclusione non può più stare.
Eppure, loro come altri riescono a trasformarsi e a trasformare il luogo della pena in luogo di dignità e libertà interiore: Vanna lavorando in cucina (“cucinavo per tutti, adoro cucinare”), Stefania riconsiderando il passato – i miliardi, il parco auto, la notorietà – alla luce del presente. Ché dietro le sbarre i beni materiali perdono ogni valore e ci si trova a fare i conti con sé stessi e coi propri errori, soli e nudi, inchiodati a nuove priorità.
Forse, per dirla con le parole del segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D’Elia, la lima più potente che fa evadere dal carcere è quella che prima libera la mente, apre il cuore, eleva la coscienza. La vera libertà si scopre interrompendo una coazione a ripetere, e quando la coazione a ripetere si spezza con un evento traumatico come quello dell’arresto non si arresta la persona, ma la vita della persona fino a quel momento: eccola, la liberazione. Il rinascere a nuova vita, senza dissociarsi dalla precedente ma tenendo insieme il tempo, le cose, le vite (l’importanza della religiosità, quella laica e letterale: “re – ligo”, legare, tenere insieme).
Tengono insieme le vite Vanna Marchi e Stefania Nobile. Qui a Opera tiene insieme le cose Orazio, che oggi esce in permesso-premio, una piccola libertà dal fine-pena-mai che fino a ieri sembrava impensabile. Tiene insieme i tempi Antonio, da 30 anni in carcere, quotidianamente dedito al ricamo, spesso senza completare le figure per regalarsi una via di fuga, l’illusione del movimento. Che forse illusione non è, perché il movimento interiore è verità più potente di qualsiasi moto esterno, nel cosiddetto mondo libero.
Lungo il corridoio d’uscita sgattaiola un frequentatore abituale delle sezioni, pelo a chiazze cineree e occhio sornione – si chiama Opera, ma in molti sostengono sia la reincarnazione felina di Marco Pannella –, ci guarda di sguincio da un mondo che non è il nostro, e se ne va.

IRAN: UCCISI NELLE PROTESTE ALMENO 234 DI CUI 29 MINORI
Almeno 234 persone, tra cui 29 minori, sono state finora uccise in Iran nelle proteste in corso a livello nazionale.
Iran Human Rights ha anche ricevuto molte segnalazioni di autorità che tentano di coprire l'uccisione di manifestanti. La restituzione dei corpi è subordinata al fatto che le famiglie promettano di rimanere in silenzio o confermino le false cause di morte citate sui certificati di morte. In alcuni casi gli uccisi sono stati seppelliti senza che le famiglie venissero avvertite, e lontano dalla loro residenza.
I familiari sono stati sottoposti ad arresti e maltrattamenti fisici e mentali per costringerli a concordare con false narrazioni che indicavano, come cause della morte, non l’operato delle forze dell’ordine ma, tra l’altro, "caduta dall'alto, incidente d'auto o avvelenamento da droghe, alcol o cibo".
D'altra parte, c'è una crescente pressione su medici e personale medico affinché emettano certificati di morte come dettato dalle forze di sicurezza. Sostenendo la richiesta dei medici iraniani di vietare alle forze di sicurezza di entrare nelle strutture mediche, Iran Human Rights sottolinea la necessità di stabilire zone di sicurezza per fornire servizi medici a tutte le vittime senza l'interferenza delle forze di sicurezza, e il parere di esperti per stabilire la causa della morte.
Il direttore di Iran Human Rights, Mahmood Amiry-Moghaddam, ha dichiarato: "Costringere i medici a rilasciare certificati di morte falsi, arrestare i manifestanti feriti negli ospedali e utilizzare le ambulanze per trasportare le forze di sicurezza sono altri esempi della non conformità e della violazione delle leggi internazionali e dei principi morali da parte della Repubblica islamica e della consuetudine a nascondere i suoi crimini. Le organizzazioni internazionali, tra cui l'OMS (Organizzazione mondiale della sanità) e il CICR (Comitato internazionale della Croce Rossa), devono mostrare una reazione urgente e appropriata a queste violazioni".
Secondo le informazioni ottenute da Iran Human Rights, almeno 234 persone sono state uccise finora dalle forze di sicurezza nelle proteste a livello nazionale. Di questi, 29 avevano meno di 18 anni, ma non tutti sono stati verificati attraverso prove documentali. Iran Human Rights sta lavorando per ottenere la conferma della loro età.
I manifestanti sono stati uccisi in 21 province, la maggior parte delle quali in Sistan e Baluchistan, Mazandaran, Teheran, Gilan e Kurdistan. Il maggior numero di decessi è stato registrato il 21, 22 e 30 settembre.
I decessi sono stati registrati in 21 province: Sistan e Baluchistan: 93 persone; Mazandaran: 28 persone; Teheran: 23 persone; Gilan: 18 persone; Kurdistan: 17 persone; Azerbaigian Occidentale: 13 persone; Kermanshah: 12 persone; Alborz: 6 persone; Khorasan-Razavi: 4 persone; Isfahan: 3 persone; Kohgiluyeh e Boyer Ahmad: 2 persone; Zanjan: 2 persone; Qazvin: 2 persone; Azerbaigian Orientale: 2 persone; Ardabil: 2 persone; Ilam: 2 persone; Bushehr: 1 persona; Semnan: 1 persona; Khuzestan: 1 persona; Markazi: 1 persona; Hamedan: 1 persona.
Scuole e università sono state al centro delle proteste a livello nazionale degli ultimi giorni con molte denunce di violenze usate contro alunni e studenti. Le scuole continuano ad essere attaccate, con alunni picchiati e arrestati.
Sono stati ampiamente segnalati anche maltrattamenti di arrestati, compreso il muovere contro di loro imputazioni molto pesanti. Il procuratore di Teheran, Ali Salehi, ha annunciato che sono state emesse incriminazioni per quattro persone con l'accusa di moharebeh (inimicizia contro dio) che comporta la pena di morte.
(Fonte: IHR, 25/10/2022)

SOMALIA: TRIBUNALE MILITARE FUCILA DUE AL-SHABAB
Un tribunale militare somalo il 24 ottobre 2022 ha giustiziato mediante fucilazione due miliziani di Al-Shabab a Mogadiscio. I due erano stati in precedenza giudicati colpevoli di aver ucciso diverse persone.
Bendati, ammanettati e legati ai pali, Shuayb Abdullahi Mohamed e Saadaq Abdi Jabar sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco all’interno di un'accademia di polizia, la mattina presto.
Shuayb Abdullahi Mohamed era stato condannato a morte per aver ucciso quattro persone, inclusi tre agenti di sicurezza, tra il 2017 e il 2018.
Sadaq Abdijabar Omar era stato riconosciuto colpevole dell’omicidio di un soldato nel 2019.
(Fonti: Shabelle Media, 24/10/2022)

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