Nessuno tocchi Caino - SINGAPORE, GIUSTIZIATO PER LA CANNABIS SENZA POTERSI DIFENDERE

Nessuno tocchi Caino news

Anno 23 - n. 16 - 29-04-2023

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : SINGAPORE, GIUSTIZIATO PER LA CANNABIS SENZA POTERSI DIFENDERE
2.  NEWS FLASH: NESSUNA RIEDUCAZIONE, RESTA SOLO LA PUNIZIONE
3.  NEWS FLASH: NESSUNO TOCCHI CAINO CONCLUDE CON LA VISITA AL CARCERE DI GROSSETO IL ‘VIAGGIO DELLA SPERANZA’ IN TOSCANA
4.  NEWS FLASH: WASHINGTON (USA): GOVERNATORE RATIFICA ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE NELLO STATO
5.  NEWS FLASH: YEMEN: LIBERATI QUATTRO GIORNALISTI CHE ERANO STATI CONDANNATI A MORTE DAGLI HOUTHI
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : DESTINA IL TUO 5X1000 A NESSUNO TOCCHI CAINO


SINGAPORE, GIUSTIZIATO PER LA CANNABIS SENZA POTERSI DIFENDERE
Piero Zilio* su Il Riformista del 28 aprile 2023

Negli ultimi 30 anni, il sole del venerdì non è mai sorto per le oltre 500 persone impiccate nella prigione di Changi a Singapore. Venerdì era il giorno del boia. Ma l’anno scorso qualcosa è cambiato. I familiari dei condannati a morte hanno cominciato a ricevere le notifiche di esecuzione in un qualsiasi giorno della settimana. È stato così anche per Leela Vathy, sorella di Tangaraju s/o Suppiah. Suo fratello è stato giustiziato mercoledì 26 aprile per favoreggiamento e cospirazione del traffico di 1.017,9 grammi cannabis. Si tratta della prima esecuzione di quest’anno nell’isola-stato sull’equatore.
Il caso di Tangaraju fa riflettere. Arrestato nel 2017 e condannato a morte nel 2018, il quarantaseienne singaporiano non ha mai toccato la droga di cui avrebbe progettato il traffico. Come sottolineano gli attivisti del Transformative Justice Collective, il suo caso si è basato su una serie di prove circostanziali. Tutto è partito dalla presenza dei suoi numeri di telefono nella rubrica di due uomini arrestati dall’Ufficio Centrale della Narcotici di Singapore. Il telefono di Tangaraju, però, non è mai stato recuperato per essere analizzato. I testimoni e le dichiarazioni dei due uomini che lo hanno accusato non sono mai stati resi noti alla difesa durante il suo processo. Al contrario, Tangaraju è stato interrogato senza un avvocato, e ha firmato una deposizione senza poterla capire interamente: durante l’interrogatorio gli è stato infatti negato l’interprete.
Nel 2020 la sorella di Tangaraju si è rivolta all’avvocato e difensore dei diritti umani Ravi Madasamy, che ha iniziato a lavorare al suo caso in parallelo a quello di altri 25 condannati a morte. Ravi ha fatto in tempo a salvarne uno, ingiustamente condannato alla pena capitale, ed è riuscito a rimandare l’esecuzione di altri 11 prigionieri, ma a causa delle sue dichiarazioni sul sistema giudiziario di Singapore la sua licenza è stata sospesa.
Tangaraju non è riuscito a trovare un altro avvocato disposto a rappresentarlo a Singapore, dove chi difende i condannati a morte rischia di dover sostenere personalmente gli alti costi processuali. Lo stesso Ravi ha dovuto pagare decine di migliaia di dollari per i casi che ha seguito. Amnesty International e Human Rights Watch hanno denunciato più volte le azioni disciplinari contro gli avvocati. Ma con sempre meno tempo a disposizione, Tangaraju ha chiesto ugualmente la revisione del caso, e pur senza una consulenza legale ha deciso di autorappresentarsi davanti alla Corte. La sua domanda è stata respinta due mesi fa. A nulla sono valse le decine di appelli di clemenza consegnati a mano domenica scorsa presso la residenza della Presidente di Singapore.
Oggi dovrebbero essere 54 i detenuti nel braccio della morte della prigione di Changi in attesa di salire sul patibolo in un giorno qualsiasi della settimana. Le autorità non divulgano tempestivamente questi dati e le esecuzioni avvengono in silenzio, spezzato solo dal grido dei familiari che decidono di condividere il proprio dramma con la stampa e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani. L’anno scorso sono state impiccate 11 persone, tutte per piccoli reati di droga.
La storia di Tangaraju è purtroppo molto simile a quella di molti altri detenuti. Come quella di Nazeri bin Lajim e Abdul Kahar, impiccati nel 2022, e di Syed Suhail bin Syed Zin, in attesa di esecuzione. Tutti loro hanno conosciuto la droga e il carcere minorile fin da bambini. Sono diventati adulti entrando e uscendo dalla prigione, avendo come unico riferimento un contesto privo di cure, comprensione, o altro tipo di supporto se non la punizione.
E mentre Singapore inasprisce le pene per i trafficanti, multa gli avvocati e persino i cittadini che provano la cannabis all’estero, la Thailandia ne legalizza l’uso ricreativo e la Malesia abolisce la pena di morte. Anche in Europa la situazione è molto diversa. In Italia, Germania, Paesi Bassi, Belgio e Austria il possesso di piccoli quantitativi di cannabis per uso personale è stato depenalizzato. In Spagna, Lussemburgo e Repubblica Ceca è addirittura legale coltivare un numero ridotto di piante. A Malta l’uso ricreativo è legale.
Che si sia favorevoli o contrari alla pena di morte, il caso di Tangaraju, impiccato mercoledì con l’accusa di aver progettato il traffico di un chilo di cannabis, punta i riflettori su due principi alla base della giustizia: la proporzionalità della pena e la dimostrazione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
*Fotoreporter

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

NESSUNA RIEDUCAZIONE, RESTA SOLO LA PUNIZIONE
Giuseppe Belcastro e Cesare Gai* su Il Riformista del 28 aprile 2023

Prosegue a ritmo serrato il macabro conteggio.
Dall’inizio di questo 2023, 16 esseri umani, 16 persone, detenute e perciò affidate alla cura dello Stato, hanno deciso che è meno gravoso uccidersi che vivere in carcere. Toglie il fiato, pensarci.
È ancora nell’aria l’eco di un tempo politico recente nel corso del quale buttare la chiave è stata la parola d’ordine di improvvisati pensatori del diritto e del processo. Ma passato quel tempo e, con esso, archiviate le sonore sciocchezze che lo hanno scandito, pensavamo che la nuova temperie culturale avrebbe finalmente messo a fuoco in maniera meno approssimativa l’acuta tragicità del “tema dei temi”, provando almeno a ragionare seriamente su come ricucire la ferita che il carcere italiano infligge ogni giorno da decenni alla Carta Costituzionale.
Siamo i primi a ritenere che il carcere rappresenti talvolta la risposta istituzionale alle esigenze di tutela della collettività, ma viene da chiedersi se la deriva che negli ultimi tempi ha contraddistinto la gestione delle strutture penitenziarie non esprima la completa sconfitta di quel principio costituzionale scolpito nell’art 27 che ormai sembra dimenticato.
Insomma, si sta sempre lì a salmodiare sulla necessità di contenere il sovraffollamento, di fare prevenzione, di rendere più dignitosa la disgraziata esistenza di chi, talvolta suo malgrado, con questa terribile esperienza ha avuto in sorte di confrontarsi.
È come se, nell’idea collettiva, ci fosse ancora tempo per parlarsi addosso, senza avere ben chiaro di cosa si stia effettivamente discutendo, non solo nelle prospettive tecniche che una discussione di questo tipo inevitabilmente comporta, ma pure negli aspetti più semplicemente umani.
È come se la nostra collettività fosse preda dell’effetto narcotizzante figlio di mantra ripetuti stancamente che disegnano obbiettivi nitidi – la risocializzazione, la cura, il lavoro – ma trascurano anche solo di abbozzare le vie per raggiungerli.
In questo tempo sospeso viviamo noi, avvocati penalisti, che con la sofferenza di questi luoghi si confrontano ogni santa mattina, assorbendo il dolore di chi sta dentro una cella ma pure di chi, stando fuori, è comunque detenuto: i figli, le mogli, i mariti, le madri, i padri, i fratelli, le sorelle di questi ultimi della terra.
E sembriamo un po’ suonati per quante volte ripetiamo l’urgenza della questione oppure, quando va bene, risultiamo fastidiosi.
Ma è solo per questo peso sul cuore che la Camera Penale di Roma, al congresso UCPI di Pescara, ha reiterato ancora una volta una mozione che impegna la Giunta dell’Unione a operare perché tornino nell’agenda politica quei provvedimenti di clemenza che il disastro delle carceri italiane impone. Amnistia e indulto sono un impegno indifferibile.
Ed è per lo stesso motivo che vorremmo restasse sempre acceso il riflettore su quel ganglio giurisdizionale deputato al funzionamento dell’esecuzione penale che è la Giurisdizione di Sorveglianza e che invece, nel nostro Distretto, è letteralmente al collasso.
A nulla sono valse le astensioni, le proteste e le plurime interlocuzioni tentate con la locale magistratura di sorveglianza per provare a garantire alla pena la sua finalità rieducativa, mentre occorre tristemente prendere atto che una delicata materia quale quella dell’esecuzione penale venga relegata ai margini della giurisdizione, trascurata in termini di risorse e resa ancora meno accessibile attraverso scelte sconsiderate che
precludono al difensore qualsiasi tipo di attività in grado di agevolare la decisione del Magistrato o del Tribunale di Sorveglianza.
Sappiamo delle carenze di risorse anche umane in cui il Tribunale di Sorveglianza naviga, ma questo non ci allevia quel peso sul cuore, tanto più nei casi in cui, nelle pieghe di quei deficit, si annidano sicuri alibi per l’insipienza; e, ahinoi, ne abbiamo quotidiana prova.
Abbiamo indetto ancora un’assemblea dei soci per il 3 maggio e discuteremo, v’è da credere serratamente, su altre iniziative che alimentino la riflessione su una nuova idea della esecuzione penale e releghino il carcere al ruolo di parte del tutto; una parte, auspichiamo, sempre meno rilevante. Discuteremo del Tribunale di Sorveglianza e della necessità che qualcuno riesca a farlo funzionare.
Ma non è più il tempo, crediamo, di approcciare la questione come fosse materia per iniziati: è fuori dalle aule e dai convegni che occorre parlare del carcere, di cosa sia, di cosa dovrebbe essere. È fuori dalle aule che occorre far capire alla collettività che quelli dentro sono esseri umani, tali e quali a noi, con il loro carico di sciagura e molta meno fortuna e che, anche quando hanno sbagliato, non meritano il degrado in cui li abbiamo costretti. Serve un sussulto di coscienza, uno scatto di reni.
Non ci sarà forse, nemmeno stavolta. Ma noi continueremo a chiederlo in ogni modo che ci sia consentito. Non siamo noi a girare il chiavistello alla sera serrando le sbarre, ma quel peso sul cuore ci rende questa storia così gravosa che a volte ce ne dimentichiamo.
* Camera Penale di Roma
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NESSUNO TOCCHI CAINO CONCLUDE CON LA VISITA AL CARCERE DI GROSSETO IL ‘VIAGGIO DELLA SPERANZA’ IN TOSCANA
Con la visita al carcere di Grosseto si conclude il "Viaggio della speranza-visitare i carcerati" in Toscana. Il viaggio è stato organizzato da Nessuno tocchi Caino, con l'Osservatorio Carcere dell'Unione camere penali italiane e la Fondazione Enzo Tortora.
Della delegazione di oggi hanno fatto parte con Sergio D'Elia, Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti di Nessuno tocchi Caino anche Francesca Scopelliti e gli avvocati Massimiliano Arcioni, Presidente della camera penale di Grosseto, Romano Lombardi, Segretario, Tania Amarugi, Alessandro de Carolis Ginanneschi, Gabriele Terranova con Michele Bottoni e Alessandra Impallazzo.
Nell'istituto oggi la delegazione ha trovato 27 detenuti per una capacità regolamentare di 15 posti. Due sono le sezioni che ospitano i detenuti in celle anche da quattro. La dimensione del carcere è tale da permettere quelle significative relazioni umane tra detenuti e personale che permettono di attenuare il degrado delle condizioni materiali. L'aspetto che più colpisce in questa struttura che risale all'800 è che per la presenza di grate alle finestre nelle celle manca la luce naturale. Un carcere per il quale esiste un progetto di chiusura e di trasferimento in una ex caserma. Il dato rilevante sempre più comune a tutti i luoghi di pena in Italia è l'alta percentuale di detenuti affetti da disturbi mentali espressione di una condizione di emarginazione sociale. Visitandolo emerge la consapevolezza di un cambio di paradigma e cercare più che di migliorare il carcere qualcosa meglio del carcere e alternative al sistema penale.
Oggi si sono iscritti a Nessuno tocchi Caino gli avvocati Massimo Arciori, presidente camera penale di Grosseto, Romano Lombardi, segretario, Tania Amarugi e Michele Bottoni.
(Fonte: NtC, 28/04/2023)

WASHINGTON (USA): GOVERNATORE RATIFICA ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE NELLO STATO
Il governatore dello stato di Washington Jay Inslee il 20 aprile 2023 ha ratificato l’abolizione della pena di morte nello stato.
"È ufficiale. La pena di morte non è più nella legge statale", ha detto Inslee su Twitter dopo la firma. Ha anche ringraziato i parlamentari e altri leader che hanno fatto parte dello sforzo decennale per porre fine alla pratica, incluso il procuratore generale Bob Ferguson.
Lo scorso 1° febbraio il Senato statale aveva approvato il ddl SB 5087 con un voto 34-14. La Camera aveva approvato il ddl il 7 aprile con un voto 58-39. Il ddl era stato ratificato dal Presidente del Senato l’8 aprile, e dal Presidente della Camera il 10 aprile.
Il 14 aprile era stato inoltrato al governatore Inslee per la ratifica definitiva.
Nel 2014, Inslee aveva emesso una moratoria sulle esecuzioni.
Nel 2018, la Corte Suprema di Washington aveva dichiarato incostituzionale all'unanimità la pena di morte per come veniva applicata nello stato, definendola arbitraria e fortemente contaminata dal fattore razziale.
Un'analisi statistica dei sociologi dell'Università di Washington, citata dai giudici, ha mostrato che le giurie avevano circa quattro volte più probabilità di condannare a morte gli imputati neri.
"Nella misura in cui la razza distingue i casi, è chiaramente inammissibile e incostituzionale", aveva scritto la Corte.
La Corte aveva anche convertito in ergastolo senza condizionale le condanne degli otto detenuti del braccio della morte dello Stato.
L'ultima esecuzione nello stato di Washington è avvenuta nel 2010 nella prigione di Walla Walla. Cal Brown è stato giustiziato con l'iniezione letale per un omicidio del 1991. Un totale di 78 persone, tutti uomini, sono state messe a morte nello stato di Washington tra il 1904 e il 2010.
Sono ventisette gli stati degli Usa che hanno ancora la pena di morte, secondo il Death Penalty Information Center, con sede a Washington, DC. L'Oregon ha una moratoria sulle esecuzioni.
(Fonti: The Seattle Times, 21/04/2023)

YEMEN: LIBERATI QUATTRO GIORNALISTI CHE ERANO STATI CONDANNATI A MORTE DAGLI HOUTHI
I giornalisti Tawfiq Al-Mansoori, Abdul Khaleq Amran, Akram Al-Waleedi e Hareth Humaid, che erano stati condannati a morte dagli Houthi in Yemen per il loro lavoro giornalistico, sono stati rilasciati il 16 aprile 2023 nell'ambito di uno scambio di prigionieri, dopo aver trascorso otto anni dietro le sbarre. La Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) si unisce alla sua affiliata, il Sindacato dei Giornalisti Yemeniti (YJS), nell'accogliere con favore il loro rilascio, chiedendo la liberazione di tutti i giornalisti e operatori dei media che si trovano in carcere.
I quattro giornalisti yemeniti sono stati liberati nell'ambito di uno scambio di prigionieri tra le forze governative e il movimento Houthi, avvenuto nell’arco di tre giorni e conclusosi il 16 aprile, mentre il conflitto si avvicina al compimento dei nove anni, secondo YJS e fonti dei media.
Nel luglio 2015, Al-Mansoori, Amran, Al-Waleedi e Humaid furono arrestati insieme ad altri giornalisti dal Movimento Houthi/Ansar Allah presso l'Hotel Dream Castle nella capitale Sana'a. Furono arrestati per aver riferito di violazioni dei diritti umani commesse dalle forze Houthi, che li accusarono a loro volta di “spionaggio a favore di Stati stranieri e diffusione di notizie false”.
Nell'aprile 2020 furono condannati a morte.
L'IFJ e lo YJS lanciarono un appello internazionale ai governi nel febbraio 2022 per fare pressione sulle autorità Houthi affinché rilasciassero i quattro giornalisti yemeniti.
Il 21 febbraio, l'IFJ inviò una lettera al Presidente della Repubblica dello Yemen, Abdrabbuh Mansur Hadi, esortando lui e il suo governo a fare tutto il possibile per salvare le loro vite.
La Federazione invitò anche i giornalisti di tutto il mondo a difendere i loro colleghi firmando una lettera aperta all'Inviato Speciale per lo Yemen del Segretario Generale delle Nazioni Unite, esortandolo a intervenire per salvare le vite dei quattro
giornalisti.
(Fonti: IFJ, 17/04/2023)

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