Nessuno tocchi Caino - MARIATERESA DI LASCIA, UNA PRESENZA COSTANTE, VIVA E ILLUMINANTE

 
Nessuno tocchi Caino news 
Anno 23 - n. 32 - 16-09-2023

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : MARIATERESA DI LASCIA, UNA PRESENZA COSTANTE, VIVA E ILLUMINANTE
2.  NEWS FLASH: COME POSSIAMO TOLLERARE LA SEGREGAZIONE DI ESSERI UMANI?
3.  NEWS FLASH: UN GIORNO NEL CARCERE DI UDINE, MAGAZZINO DI CORPI SENZA SPERANZA
4.  NEWS FLASH: ARABIA SAUDITA: PIU’ DI 100 LE PERSONE GIUSTIZIATE FINORA NEL 2023
5.  NEWS FLASH: PAKISTAN: QUATTRO CONDANNATI A MORTE PER BLASFEMIA
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :


MARIATERESA DI LASCIA, UNA PRESENZA COSTANTE, VIVA E ILLUMINANTE
Sergio D’Elia

Il 10 settembre di ventinove anni fa, a quarant’anni, è venuta a mancare Mariateresa Di Lascia. In realtà non mi è mai “mancata”. I due capolavori della sua vita, il romanzo “Passaggio in ombra” e la fondazione di “Nessuno tocchi Caino”, sono stati per me, nella mia vita, una presenza costante, viva e illuminante. Il romanzo e la fondazione, a ben vedere, raccontano la stessa storia. La frase del romanzo “Bisogna essere molto ciechi per aggiungere nuove sofferenze all’eredità di dolore lasciata da chi è passato prima di noi!” è fondativa di Nessuno tocchi Caino, di un modo di pensare, di sentire e di agire nonviolento. Radicalmente diverso da quello - "allopatico" - della giustizia della bilancia e della spada, prigioniera della aberrante logica del diritto penale per cui alla violenza e al dolore del delitto debbano corrispondere una violenza e un dolore eguale e contrario, quello del castigo. In una catena perpetua di delitti e castighi, violenze e sofferenze. Celebreremo come si deve la vita, la visione e l’azione di Mariateresa Di Lascia il 10 settembre dell’anno prossimo, nel trentennale della sua mancanza, dei suoi trent’anni di presenza.

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

COME POSSIAMO TOLLERARE LA SEGREGAZIONE DI ESSERI UMANI?
Diego Mazzola su L’Unità del 10 settembre 2023

Che l’uomo moderno possa definirsi “libero”, in qualche modo e in qualche occasione, è una vera sciocchezza. L’uomo può al limite “sperare” di diventare libero, ma oltre le proprie speranze non gli è dato di andare. Eppure la libertà è un diritto fondamentale dell’umanità e dell’individuo, sancito il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che in uno dei primissimi articoli afferma: Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Un articolo che vediamo ogni giorno disatteso dai governi di tutto il mondo, dal nostro incluso.
C’è chi addirittura pretende di dirci come dobbiamo amare, come dobbiamo vivere l’obbligo del lavoro (accontentandoci di quello che c’è o che, forse, verrà), dei motivi per i quali si vuole l’inasprimento delle pene, facendo di noi tutti dei perfetti obbedienti o sudditi in ogni caso. Nel frattempo individuiamo l’ennesimo “capro espiatorio” degli “scafisti” e degli “emigranti economici”, manco coloro che fuggono dal loro Paese per i motivi che conosciamo debbano aver conseguito la patente nautica e di poter esibire un ISEE di soddisfazione per i nostri economisti al governo. Il dissenso è vissuto come una disobbedienza intollerabile e non mai come un’affermazione di un diritto individuale.
Si dice che le prigioni nacquero verosimilmente al sorgere della civile convivenza nelle società umane organizzate per garantire la sicurezza dei cittadini. Come si possa ancora tollerare che le prigioni permettano la segregazione e l’emarginazione di persone che il potere considera pericolosi per sé e che ciò si possa fare in conformità a Leggi e codici determinati dal potere stesso, non mi è dato di capire. Come si possa pensare che la “rieducazione” alla libertà e alla democrazia possa giungere attraverso la tortura del carcere non è cosa di secondaria importanza, tanto più che il tutto avviene sotto la coperta di una cultura violenta che non viene mai fatta conoscere per prevenirne le inevitabili manifestazioni. Sembra di vedere un medico che, pur riconoscendo un cancro nel fisico di un paziente, non fa nulla per curarlo.
L’infamia della punizione diviene l’arte letteralmente “diabolica” di dividere e di porre tutti contro tutti. Perfino del precetto evangelico, quello che ci chiede di lanciare la prima pietra se si è certi di non aver peccato, non si riesce a far comprendere l’importanza di farlo proprio dal pensiero laico. Così, nel momento in cui il Sistema Penale sembra parlare soltanto di Legge, politicamente espressa, che sembra sempre dover appartenere a una maggioranza o a una classe dirigente alle quali non passa nemmeno per la testa l’idea di tutelare le minoranze, si vedono sempre più impallidire le misure che permettono il controllo e la conoscenza delle regole necessarie al vivere civile. Al cittadino si dice che la Legge non ammette ignoranza, quando le leggi nel nostro Paese sono più di 160mila e di impossibile comprensione. Provare a leggerne una, per credere.
Mia è la pretesa che quel controllo debba essere esercitato anche dalla società civile.
Ma tutto ciò deve diventare proposta politica. Luigi Manconi afferma, infatti, che l’abolizione del carcere comporta “un programma politico e una strategia normativa”. Questo è il mio sogno, che vede comunque riproporsi il dilemma dell’Uomo, del quale Michel Foucault non a caso annuncia la morte, come già avevano fatto Nietzsche e Heidegger. Il guaio è che le analisi di Foucault si scontrano, evidentemente senza successo, contro il muro di gomma delle Teorie Generali della Pena e della odierna conoscenza.
Lo dico perché la legalità non si occupa di ciò che conduce al fatto/problema, ma consuma sé stessa nella ricerca delle prove (peraltro spesso opinabile) per esercitare l’arte della punizione. Di fatto la “punizione” (ovvero la “pena”), che Michael Zimmerman, autore di “The Immorality of Punishment”, definisce come “immorale propensione umana” a omologare il pensiero di un popolo, costringendolo a leggi non scelte e, quindi, non condivise, diventando lo strumento più ambito nei progetti di chi crede nell’illusione totalitaria. In sostanza: il Sistema Penale, proprio perché si occupa di “punizione del reo” (ovvero di chi compie un fatto/reato), impedisce le conoscenze necessarie ad affrontare quelle incapacità relazionali, nascondendole agli occhi di tutti, pensando di usare la tortura del carcere per la loro presa di coscienza. È solo ingenuità?

UN GIORNO NEL CARCERE DI UDINE, MAGAZZINO DI CORPI SENZA SPERANZA
Matteo Dordolo su L’Unità del 10 settembre 2023

Che cosa ti lascia il carcere una volta che ci sei entrato? Rispondere è profondamente difficile. Come profonda è la disperazione che serpeggia tra chi in carcere è costretto a viverci. Molti direbbero per scelta. Tuttavia, entrandovi si comprende come nessuno, se non per puro masochismo, intraprenderebbe la scelta di vivere in un istituto di pena italiano. Questo vale anche per il carcere di Udine. Luogo di reclusione collocato nella prossimità del centro cittadino, a due passi dal teatro, dalla Facoltà di Giurisprudenza in cui io studio. Eppure, nella noncuranza più totale, esso, come cancellato, scompare. Via Spalato, il luogo ove esso si trova, è una strada comoda in cui parcheggiare, dove evitare i pedaggi che affollano il capoluogo friulano.
Allo stesso modo, in quel magazzino di corpi privati di ogni speranza e prospettiva di vita, sostano gli abitanti della Casa circondariale. Parcheggiati in attesa di una sentenza, o di una misura alternativa che possa permettergli di varcare la soglia anche solo per qualche giorno. Tuttavia, lì sono e lì, secondo l’opinione comune, devono restare. Non come me, che ci sono entrato in visita il 16 agosto con Nessuno tocchi Caino. Io non resto. Io sono lì per vedere. Di questo senso devo dotarmi mentre mi accingo ormai a entrare. Le porte si aprono, le serrature si chiudono.
Il primo incontro non si ha con le persone, ma con i rumori e l’odore, forti e pungenti, che ti colpiscono sin da subito. Poi mi concentro sull’edificio, sulla sua struttura fatiscente e obsoleta, sino a quando non arrivo in prossimità della sezione. Allora entro davvero, ed entro con i detenuti in una quotidianità avvilente, fatta di costrizioni, di giornate perlopiù trascorse stipati in celle sovraffollate, costretti con compagni che non ti sei scelto, in una città che non hai scelto, in condizioni che non hai scelto. Gli sguardi di chi si affaccia dalle sbarre sono spesso vuoti, come privi di qualsiasi volontà. Come se volessero comunicarti che lì dentro la vita non è uno slancio in avanti ma un subire continuo, un ricacciare la testa verso il basso, in silenzio.
Vengono aperte le celle e noi entriamo. Sfortunatamente nel farlo interrompiamo il pasto di alcuni dei detenuti. In quella cella tre su quattro sono stranieri, quello italiano ha una settantina d’anni. Mangiano su un tavolino delle dimensioni di un banco, uno di loro seduto sul letto e chino su una sedia. Lo spazio non è abbastanza, come non è abbastanza quando devo passare dai letti al bagno: per farlo devo piegarmi di traverso. Tutti vogliono che entriamo a vedere. Il tempo non è sufficiente. Noi dobbiamo uscire. Non possiamo restare perché nulla ci condanna o ordina di farlo.
Organizziamo allora degli incontri nelle stanze adibite al tempo libero, proprio nel luogo dove il tempo non puoi scegliere come viverlo, creato dall’umanità per privare una persona della libertà. I detenuti cominciano a parlare dei problemi: sovraffollamento (a Udine il tasso è del 176%), rara concessione dei benefici penitenziari, eccessiva somministrazione di psicofarmaci, alto numero di tossicodipendenti e di persone affette da patologie psichiche, carenza di educatori (1 sui 4 previsti), esiguità del lavoro interno (solo 23 i detenuti che lavorano). Tutti sono accomunati da una cosa: la voglia di dimostrarti che sono meglio della scelta che li ha condotti lì, che si impegnano, che ci provano. Vorrei aiutarli, dire di continuare, di non rassegnarsi e continuare a sperare. Come farlo in quell’edificio, creato per punire nella dimenticanza, fino a che non ti dimentichi davvero di essere umanità anche tu, di essere parte di chi resta fuori, o di chi come noi tra qualche or
 a fuori ci tornerà.
È venuto il momento, dobbiamo uscire. Devo uscire, con la coscienza affollata di pensieri, di domande sul come si possa davvero pensare che quello che ho visto sia il modo di applicare la funzione, costituzionalmente prevista, rieducativa della pena. Risocializzare richiede fiducia, volontà di costruire, progettando futuri diversi dai passati di chi ha sbagliato. Ciò che ho visto è il frutto della sfiducia, della volontà di relegare ai margini chi pensiamo ci finisca sempre e solo per una sua scelta. Nessuno sceglie il carcere, tantomeno uno ove le condizioni sono inumane e degradanti. Il carcere lo sceglie chi resta fuori, chi vuole separare giusti e delinquenti, dimenticandosi che così a essere vinto non è il male, ma l’umanità. E noi, i giusti, non saremo innocenti verso questa perdita.

ARABIA SAUDITA: PIU’ DI 100 LE PERSONE GIUSTIZIATE FINORA NEL 2023
L’Arabia Saudita ha finora giustiziato quest’anno più di 100 persone, ha dichiarato l’8 settembre 2023 Amnesty International, secondo cui il dato rivela “l’agghiacciante disprezzo per il diritto alla vita” da parte delle autorità saudite.
Sempre l'8 settembre, l'Arabia Saudita ha giustiziato un uomo con l'accusa di aver ucciso un cittadino saudita nella capitale Riyadh, ha riferito l'Agenzia ufficiale di stampa saudita (SPA).
Quest’ultima esecuzione porta a 102 il numero delle persone finora giustiziate nel 2023, secondo l'Agence France-Presse, sulla base di dati ufficiali, tra cui 33 persone messe a morte in casi legati al terrorismo.
Nel 2022 l’Arabia Saudita ha eseguito 147 condanne a morte.
La SPA non ha fornito dettagli su come sia avvenuta l'esecuzione, sottolineando che il Regno spesso esegue condanne a morte mediante decapitazione.
Le organizzazioni per i diritti umani affermano che queste esecuzioni minano gli sforzi compiuti dal Regno per migliorare la propria immagine approvando emendamenti sociali ed economici come parte del suo programma riformatore denominato Vision 2030.
"In netto contrasto con le ripetute promesse dell'Arabia Saudita di limitare l'uso della pena di morte, quest'anno le autorità saudite hanno già giustiziato 100 persone, rivelando il loro agghiacciante disprezzo per il diritto alla vita", ha affermato l’8 settembre Heba Morayef, responsabile di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa.
Morayef ha sottolineato: “L’incessante follia omicida delle autorità solleva seri timori per la vita dei giovani nel braccio della morte che avevano meno di 18 anni al momento dei crimini. Solo nel mese di agosto, l’Arabia Saudita ha giustiziato una media di quattro persone a settimana”.
Secondo Amnesty, nel 2022, l’Arabia Saudita era al terzo posto nella lista dei paesi che hanno eseguito condanne a morte nel mondo.
L'Arabia Saudita ha effettuato più di 1.000 esecuzioni da quando il re Salman Bin Abdulaziz è salito al potere nel 2015, secondo un rapporto congiunto di Reprieve e dell'Organizzazione Euro-Saudita per i Diritti Umani, pubblicato all'inizio di quest'anno.
Sessantanove condanne a morte sono state eseguite nel 2021, 27 esecuzioni nel 2020 durante il picco dell'epidemia di COVID e 187 nel 2019.
Alla fine dello scorso anno, dopo una sospensione delle esecuzioni durata circa tre anni, sono riprese nel Paese le condanne a morte per reati di droga. Quest'anno l'Arabia Saudita ha già giustiziato due persone per traffico di droga.
Amnesty International ha dichiarato di aver: “Documentato numerosi casi in cui le autorità hanno condannato a morte persone per qualsiasi cosa, da pochi tweet a reati legati alla droga, a seguito di processi gravemente iniqui che sono stati ben al di sotto degli standard internazionali sui diritti umani”.
(Fonti: middle east monitor, 09/09/2023)

PAKISTAN: QUATTRO CONDANNATI A MORTE PER BLASFEMIA
Un tribunale pakistano il 4 settembre 2023 ha condannato a morte quattro persone per aver commesso blasfemia condividendo contenuti ritenuti offensivi nei confronti di Maometto e del Corano.
Nello stesso caso, un altro imputato è stato condannato a sette anni di carcere.
Il giudice del tribunale distrettuale di Rawalpindi, Ahsan Mahmood Malik, ha condannato a morte Faizan Razzaq, Amin Rais, Muhammad Rizwan e Wazir Gul per aver commesso reato di blasfemia, imponendo inoltre una multa di 100.000 rupie (325 dollari).
"La condanna a morte dei condannati non sarà eseguita a meno che non venga confermata dalla Sezione di Rawalpindi dell’Alta Corte di Lahore", si legge nella sentenza.
Secondo la legge pakistana, una condanna a morte emessa da un tribunale di grado inferiore deve essere confermata dall'alta corte competente prima della sua esecuzione.
Un altro imputato, Usman Liaqat, è stato condannato a “reclusione rigorosa per sette anni e a una multa di 100.000 rupie”, ha stabilito il tribunale.
I cinque imputati erano stati denunciati dalla Federal Investigation Agency (FIA) del Pakistan nel settembre dello scorso anno, dopo che il denunciante, Umar Nawaz, li aveva accusati di aver creato un gruppo WhatsApp e di aver condiviso contenuti blasfemi.
(Fonte: Arab News, 05/09/2023)

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