Nessuno tocchi Caino - IN CARCERE DA QUASI MEZZO SECOLO, PROBABILMENTE INNOCENTE. IL 10 GIUGNO SI DECIDE SULLA SUA LIBERTÀ. GLI USA LASCERANNO ANDARE IL PELLEROSSA LEONARD PELTIER?

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Anno 24 - n. 22 - 01-06-2024

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : IN CARCERE DA QUASI MEZZO SECOLO, PROBABILMENTE INNOCENTE. IL 10 GIUGNO SI DECIDE SULLA SUA LIBERTÀ. GLI USA LASCERANNO ANDARE IL PELLEROSSA LEONARD PELTIER?
2.  NEWS FLASH: ‘IL CARCERE IN ITALIA OGGI – UNA FOTOGRAFIA IMPIETOSA’ DI LIVIO FERRARI. RECENSIONE DI ELISABETTA ZAMPARUTTI
3.  NEWS FLASH: AMNESTY INTERNATIONAL: RAPPORTO SULLA PENA DI MORTE NEL MONDO 2023
4.  NEWS FLASH: INDIA: COMMUTATA CONDANNA A MORTE IN UN CASO DI STUPRO DI BAMBINA
5.  NEWS FLASH: IRAQ: GIUSTIZIATI TRE MEMBRI DELL’ISIS
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : DONA IL 5X1000 A NESSUNO TOCCHI CAINO


IN CARCERE DA QUASI MEZZO SECOLO, PROBABILMENTE INNOCENTE. IL 10 GIUGNO SI DECIDE SULLA SUA LIBERTÀ. GLI USA LASCERANNO ANDARE IL PELLEROSSA LEONARD PELTIER?
Naila Clerici*

È il 1975, Pine Ridge Reservation, South Dakota, teatro di una guerra civile mai dichiarata. Sono gli anni caldi delle proteste, non solo dei nativi americani, contro la politica interna ed estera del governo statunitense: guardate Incident at Oglala e Cuore di Tuono per entrare in atmosfera.
L’FBI appoggiava Dick Wilson e la sua polizia privata: il presidente del Consiglio Tribale era favorevole allo sfruttamento minerario (petrolio e uranio), anche per interessi personali e i casi di violenza e intimidazione verso chi si opponeva alla sua politica erano all’ordine del giorno.
Leonard Peltier, Anishinabe Lakota Sioux, nato nel Nord Dakota, a Grand Forks, il 12 settembre 1944, crebbe con i nonni, sperimentò la rigidissima disciplina del collegio di Wahpeton e lavorò poi come meccanico a Portland e a Seattle. Nella sua officina dava regolarmente asilo a indiani alcolizzati ed ex carcerati. Fortemente impressionato dalla povertà e dai molti problemi che affliggevano la sua gente, Leonard nel 1970 si accostò all’American Indian Movement (AIM), un movimento che si batteva per ricordare i trattati infranti, le terre rubate, i diritti civili negati e gli episodi di razzismo, e in poco tempo ne divenne uno dei principali esponenti.
Su richiesta fatta all’AIM dai capi tradizionalisti Oglala Sioux, che volevano proteggere la comunità dai continui attacchi dei GOONs, Leonard Peltier si recò a Pine Ridge assieme ad altri membri dell’AIM. Il 26 giugno 1975, Leonard era presente durante una sparatoria in cui perirono due agenti dell’FBI entrati senza nessuna forma di riconoscimento in una proprietà inseguendo un nativo che “aveva rubato un paio di stivali”. Furono arrestati con l’accusa di omicidio Bob Robideau e Dino Butler, ma poi furono assolti per legittima difesa.
Leonard fuggì in Canada e venne estradato e arrestato nel 1977.
Il processo fu segnato da discriminazione e pregiudizio, testimoni che ritrattarono e prove balistiche (che provavano che non era stata la sua arma a uccidere gli agenti) arrivate in ritardo non servirono a cambiare il verdetto auspicato dall’FBI. Nonostante vari appelli e richieste di clemenza Peltier è in prigione dal 1977, condannato a due ergastoli e rinchiuso in carceri di massima sicurezza.
Amnesty International lo ha dichiarato prigioniero politico; da anni il Leonard Peltier Defense Commitee si batte per la sua innocenza, sostenuto anche da voci autorevoli da tutto il mondo; anche molte realtà italiane come il Centro di ricerca per la pace di Viterbo, il Comitato di solidarietà con Leonard Peltier di Milano, e Soconas Incomindios hanno continuato a scrivere petizioni e a organizzare eventi per non far cadere nell’oblio il suo caso.
Per un’analisi dei fatti e dei ruoli delle parti suggeriamo anche la rivista TEPEE, e i video su YouTube dell’associazione Soconas Incomindios.
Secondo il sistema giudiziario statunitense non c’è più possibilità di ricorrere in appello, l’unica via è la grazia. Al presidente Biden e al suo governo si chiede dunque un’azione umanitaria, auspicando che le pressioni dell’FBI non abbiano la meglio, com’è invece avvenuto con i precedenti presidenti.
Il 10 giugno si riunirà la United States Parole Commission ed è dunque l’occasione per fare pressione, chiedendo la concessione della libertà vigilata per Leonard Peltier.
Scriviamo al Procuratore Generale degli Stati Uniti d’America (United States Attorney General), chiedendo un provvedimento di “compassionate release” per Leonard Peltier (usare il form justice.gov/doj/webform/your-message-department-justice).
Scriviamo al Presidente degli Stati Uniti d’America, chiedendo la grazia presidenziale per Leonard Peltier (whitehouse.gov/contact/).
Scriviamo per opportuna conoscenza ai legali che assistono Leonard Peltier, Kevin Sharp: ksharp@sanfordheisler.com, Jenipher Jones: jenipherj@forthepeoplelegal.com e a Europe for Peltier 2024 Coalition: lpsgrheinmain@aol.com.
Leonard Peltier, a distanza di quasi 50 anni dai fatti che lo hanno visto condannato, resta un simbolo controverso e potente della lotta per i diritti civili e merita il nostro appoggio.
“Il silenzio, dicono, è la voce della complicità. Ma il silenzio è impossibile. Il silenzio grida. Il silenzio è un messaggio, proprio come non fare nulla è un’azione. Chiunque tu sia, lascia che suoni e risuoni in ogni parola e in ogni azione. Sì, diventa chi tu sei. Non è possibile eludere il tuo essere o la tua responsabilità. Tu sei ciò che fai. Hai ciò che meriti. Divieni il tuo messaggio. Tu sei il messaggio.” (Leonard Peltier, Nello spirito di Crazy Horse)
* già Docente di Storia delle Popolazioni Indigene d’America, Università di Genova
naila.clerici@soconasincomindios.it

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

‘IL CARCERE IN ITALIA OGGI – UNA FOTOGRAFIA IMPIETOSA’ DI LIVIO FERRARI. RECENSIONE DI ELISABETTA ZAMPARUTTI
Livio Ferrari ha scritto un libro. Si intitola “Il carcere in Italia oggi – Una fotografia impietosa” edito dalla casa editrice Apogeo. L’autore non è di certo nuovo al tema. Giornalista, scrittore, cantautore, esperto di politiche penitenziarie, è portavoce del Movimento No Prison.
Il suo sguardo è rivolto a chi di pena muore. Livio sa che anche laddove la pena di morte non c’è più, anche laddove la pena fino alla morte è abolita, continua a esistere la morte per pena. E continua a esistere la morte per pena perché esiste il carcere.
Sono già 35 i suicidi avvenuti in carcere quest’anno. Dal libro apprendiamo che sono milleottocento quelli avvenuti da inizio ‘900 mentre quasi tremila esseri umani sono morti in carcere. Poi ci sono gli atti di autolesionismo, spesso ultima disperata istanza per dire “io esisto!”. Con le violenze che vengono perpetrate da chi, in questo luogo mortifero, si abbruttisce nel circolo vizioso senza fine del male che chiama male.
Numeri che parlano. Ma poi servono occhi che vedano. Perché se i muri di cinta dei penitenziari fossero cristalli trasparenti e le pareti di vetro, allora le petizioni popolari, le proposte di legge se non addirittura i decreti legge dettati da ragioni di “necessità e urgenza” di chiudere questi istituti, si sprecherebbero. Perché quello che accade là dentro, nascosto da alti muri di cemento e magari anche da “gelosie” alle finestre, urta contro il senso di umanità. E può durare fintanto che non lo si vede.
Nella guerra che si combatte nei campi di battaglia, i responsabili delle ostilità sono noti. Ma nel conflitto che ogni giorno si consuma nelle carceri dove la trasparenza svanisce insieme alla conoscenza di ciò che accade là dentro, le cose vanno diversamente e sembra che la responsabilità sia solo e sempre di chi in carcere ci è entrato. Vale per me quello che disse il Primo Ministro britannico Clement Attlee nel discorso di apertura della Conferenza istitutiva dell'UNESCO: “Le guerre, dopo tutto, non iniziano nelle menti degli uomini?” Perché è dal nostro modo di pensare che si determina il cambiamento.
Ecco allora che risulta attualissimo quanto affermato già dal “Manifesto No Prison” nel 2012 che dichiarava doveroso un radicale cambio di paradigma, un’uscita dalla concezione patibolare della giustizia che vuole la componente del dolore come riparatrice di un male accaduto. II volume descrive i nodi da sciogliere nello stretto mondo della reclusione: dalle case di lavoro all’ergastolo, dal 41bis alla questione della segregazione in carcere prevalentemente dei “perdenti”, i poveri, gli emarginati.
È una denuncia di come il diritto penale sia divenuto ormai e sempre di più il modo in cui si affrontano (o per meglio dire, non affrontano) questioni sociali. Il diritto penale con la sua appendice carceraria diventa così merce a buon mercato nello scambio tra elettori ed eletti. Uno scambio che per essere proficuo richiede la creazione e la costante alimentazione di un clima di paura che costringe a rifugiarsi in sentimenti primordiali quale la vendetta. Lucida poi è la denuncia di quanto la risposta insita nella pena come privazione della libertà comporti in realtà una de-responsabilizzazione dell’autore del reato. Quando invece quello che conta è l’esercizio della responsabilità. Responsabilità che porta con sé la riparazione del danno arrecato e anche il recupero all’ordine sociale di chi quell’ordine ha infranto.
È un libro quello di Livio Ferrari che nel paragonare il carcere all’ultimo avamposto manicomiale, recupera il pensiero di Basaglia. E che eleva a faro di un pensiero volto al futuro quello di chi, come Gustav Radbruch, quasi un secolo fa, a metà novecento, voleva un “codice penale senza pene”. Un uomo di grande sensibilità e intelligenza che non chiedeva un “miglioramento del diritto penale, ma un suo superamento con qualcosa di meglio del diritto penale” abbandonando gli atteggiamenti sanzionatori di carattere repressivo e vendicativo, per concretizzarli in leggi più umane e ragionevoli.
Conclude il libro un capitolo dedicato alle canzoni. Perché Livio Ferrari è legato alla musica e alle canzoni. Ha composto circa centocinquanta brani e tra questi c’è una canzone ambientata in carcere scritta quando ancora non conosceva direttamente questo luogo. Ma il carcere ritorna anche in diversi altri cantautori. Chi ne canta lo denuncia, lo racconta più
intimamente. Come in un processo alchemico, la combinazione di note musicali, può sprigionare forza vitale. E così anche la canzone può contribuire a questo processo di liberazione da questo altro ferrovecchio della storia.
Per saperne di piu' :

AMNESTY INTERNATIONAL: RAPPORTO SULLA PENA DI MORTE NEL MONDO 2023
Nel 2023, secondo il rapporto annuale sulla pena di morte nel mondo reso noto oggi da Amnesty International, c’è stato il più alto numero di esecuzioni da quasi un decennio, con un netto aumento registrato nel Medio Oriente.
Senza tener conto delle migliaia presumibilmente portate a termine in Cina, lo scorso anno le esecuzioni sono state 1153, con un aumento di oltre il 30 per cento rispetto al 2022.
Si tratta del più alto numero di esecuzioni registrato da Amnesty International dal 2015, quando erano state 1634.
Nonostante questo aumento, il numero degli stati che hanno eseguito condanne a morte ha raggiunto un minimo storico: solo 16.
“Il profondo incremento delle esecuzioni è stato dovuto soprattutto all’Iran, le cui autorità hanno mostrato un totale disprezzo per la vita umana con un aumento delle esecuzioni per reati di droga che, ancora una volta, ha messo in luce l’impatto discriminatorio della pena di morte sulle comunità più povere e marginalizzate dell’Iran”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
“Nonostante questi passi indietro, soprattutto nel Medio Oriente, gli stati che ancora eseguono condanne a morte sono sempre più isolati. La nostra campagna contro questa orribile punizione funziona. La porteremo avanti fino a quando la pena di morte non sarà stata abolita”, ha aggiunto Callamard.
I cinque stati che, nel 2023, hanno eseguito il maggior numero di condanne a morte sono Cina, Iran, Arabia Saudita, Somalia e Stati Uniti d’America.
L’Iran, da solo, ha fatto registrare il 74 per cento di tutte le esecuzioni note, l’Arabia Saudita il 15 per cento. In Somalia e negli Stati Uniti d’America le esecuzioni sono aumentate.
C’è stato un incremento, del 20 per cento, anche nel totale delle condanne a morte emesse nel 2023: 2428.
Nel 2023 le autorità iraniane hanno intensificato l’uso della pena di morte per seminare paura nella popolazione e tenersi aggrappate al potere. Sono state messe a morte almeno 853 persone, con un aumento del 48 per cento rispetto alle 576 esecuzioni del 2022.
Le esecuzioni hanno avuto un impatto sproporzionato (il 20 per cento del totale) sui beluci, la minoranza etnica che costituisce solo il cinque per cento della popolazione. Ci sono state anche almeno 24 esecuzioni di donne e di almeno cinque di minorenni al momento del reato.
Almeno 545 delle 853 esecuzioni sono state illegali, ossia hanno riguardato reati che secondo il diritto internazionale non dovrebbero essere puniti con la pena capitale, come i reati di droga, le rapine e lo spionaggio. Le esecuzioni per reati di droga hanno costituito il 56 per cento del totale, con un aumento dell’89 per cento rispetto alle 255 del 2022.
Negli Stati Uniti d’America i progressi degli ultimi anni hanno segnato il passo: nel 2023 le esecuzioni sono state 24 rispetto alle 18 del 2022.
Nell’Idaho e nel Tennessee sono state presentate proposte di legge per introdurre il metodo del plotone d’esecuzione, mentre nel Montana è stato proposto di aumentare i medicinali da usare nell’iniezione letale. Nella Carolina del Sud è entrata in vigore una legge che vieta di rivelare l’identità delle persone o degli enti coinvolti nel preparare le esecuzioni e nel portarle a termine.
“Un piccolo gruppo di stati degli Usa ha mostrato un tremendo attaccamento alla pena di morte e una cinica intenzione di investire risorse nell’uccidere esseri umani. Il nuovo metodo di esecuzione tramite asfissia da azoto è stato vergognosamente applicato, senza essere testato, nei confronti di Kenneth Smith, solo 14 mesi dopo che era sopravvissuto a un tentativo particolarmente cruento di metterlo a morte”, ha commentato Callamard.
“Il presidente Biden deve smetterla di rimandare la sua promessa di abolire la pena di morte a livello federale”, ha aggiunto Callamard.
Altri passi indietro sono stati registrati nell’Africa subsahariana, dove sono aumentate sia le condanne a morte che le esecuzioni: queste ultime sono più che triplicate nel 2023, passando dalle 11 dell’anno precedente a 38 e le condanne a morte sono nettamente aumentate del 66 per cento: da 298 nel 2022 a 494 nel 2023. Nessuno stato della regione ha abolito la pena di morte.
A causa del segreto di stato che avvolge l’uso della pena capitale in alcuni stati, i dati di Amnesty International non includono le migliaia di esecuzioni che, presumibilmente, sono state portate a termine in Cina, che rimane al primo posto nel mondo per numero di esecuzioni.
Allo stesso modo, non è stato possibile proporre dati su Corea del Nord e Vietnam, due stati che si ritiene continuino a ricorrere in modo massiccio alle esecuzioni.
In ogni caso, dalle scarse informazioni ufficiali trapelate da questi stati emerge un chiaro messaggio destinato alle loro popolazioni: i reati o il dissenso saranno puniti con la morte, che resta in questo modo un’arma nelle mani delle autorità per mantenere il controllo e reprimere il dissenso.
In Cina gli organi d’informazione dello stato hanno ricordato alla popolazione che reati come il traffico di droga o la corruzione saranno duramente puniti con la pena capitale.
Nella Corea del Nord è stata promulgata una legge che prevede la pena di morte per coloro che non parlano la lingua nativa coreana.
In Myanmar la giunta militare ha continuato a imporre condanne a morte, al termine di processi segreti e gravemente irregolari celebrati da tribunali controllati dall’esercito.
Malgrado i passi indietro fatti registrare da pochi stati, i progressi non si fermano: oggi 112 stati sono completamente abolizionisti, su un totale di 144 stati che hanno abolito la pena di morte nelle leggi o nella prassi.
Nel 2023 ci sono state esecuzioni in 16 stati, il più basso numero mai registrato da Amnesty International. A differenza del 2022, non ci sono state esecuzioni in Bielorussia, Giappone, Myanmar e Sud Sudan.
In Asia, il Pakistan ha annullato la pena di morte per reati di droga, in Malesia è stata annullata l’obbligo d’infliggere la pena di morte per determinati reati e le autorità dello Sri Lanka hanno confermato, smentendo il pericolo di un ritorno della pena di morte, che il presidente non intende firmare ordini di esecuzione.
Sebbene nessuno stato dell’Africa subsahariana abbia cancellato la pena capitale, proposte abolizioniste sono in discussione in Kenya, Liberia e Zimbabwe.
In Ghana, il parlamento ha approvato due proposte in tal senso, ma alla fine del 2023 non erano ancora diventate legge.
“La discriminazione e l’arbitrarietà insite nell’uso della pena di morte non fanno altro che rafforzare le violazioni dei diritti umani del sistema di giustizia penale. La piccola minoranza di stati che ancora si ostina a usare la pena di morte deve mettersi al passo coi tempi e abolirla una volta per tutte”, ha sottolineato Callamard.
“Di pena di morte si parlerà ancora all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di quest’anno. Sollecitiamo tutti i governi a unirsi alla richiesta delle Nazioni Unite di porre fine all’uso della pena di morte, mostrando così un forte impegno verso i diritti umani”, ha concluso Callamard.
(Fonte: AI, 28/05/2024)

INDIA: COMMUTATA CONDANNA A MORTE IN UN CASO DI STUPRO DI BAMBINA
L'Alta Corte dello stato indiano di Uttarakhand ha commutato la condanna a morte di un uomo riconosciuto colpevole di aver violentato ripetutamente la sorellastra di cinque anni, ha riportato il sito Lawbeat il 28 maggio 2024.
La giuria composta dal giudice Ritu Bahri e dal giudice Alok Kumar Verma ha commutato la pena capitale in venti anni di carcere duro, affermando che "le finalità della giustizia sono soddisfatte" con questa commutazione.
La Corte ha dichiarato: "Nel caso di specie, il ricorrente non ha precedenti penali né si può dire che sarà un grave pericolo per la società in generale. È vero che il suo atto è stato atroce e richiede di essere condannato, ma allo stesso tempo non si può dire che rientri nei casi più rari tra i rari, circostanza in cui l'imputato deve essere eliminato dalla società. Quindi, non esiste una ragione giustificabile per imporre la condanna a morte."
Il 3 aprile 2021, il personale di polizia fu avvisato da un informatore che una bambina di 5 anni era stata violentata dal fratellastro, identificato come Janak Bahadur, di origini nepalesi. Dopo aver raggiunto il posto segnalato, la polizia trovò una donna con una bambina angosciata in braccio. La donna ha riferito di aver trovato la bambina che si nascondeva sulla sua terrazza. La bambina ha raccontato che viveva con suo fratello di nome Janak Bahadur, che l'ha picchiata, le ha rimosso il pigiama e le ha fatto "cose sporche", causando dolore e paura. La bambina ha supplicato di non essere rimandata da lui.
La polizia ha appreso che l’uomo viveva nelle vicinanze. La polizia lo ha arrestato, mentre la vittima e i due figli del sospettato sono stati affidati al Centro di Riabilitazione Ujjawala.
Una denuncia è stata presentata dalla polizia il 3 aprile 2021, ai sensi delle sezioni 323 e 376 del Codice penale indiano (IPC) e della Sezione 5 letta con la Sezione 6 della Legge per la Prevenzione dei Reati sessuali contro i Bambini (POCSO), del 2012.
La vittima è stata esaminata dal punto di vista medico e la sua età è stata successivamente fissata tra 5 e 6 anni.
La dichiarazione della vittima è stata registrata il 7 aprile 2021.
Le prove, compresi i vestiti e i campioni biologici della vittima e dell'accusato, sono state inviate al laboratorio di scienze forensi.
La procura ha accusato l'imputato ai sensi delle sezioni 323 e 376 AB dell'IPC e della Sezione 5 con la Sezione 6 della legge POCSO, 2012.
L'imputato ha dichiarato di essere il fratellastro della vittima ma ha negato le accuse di abuso.
Il rapporto forense del 13 gennaio 2022 non ha rilevato seme o sangue sui reperti. La difesa ha sostenuto che la mancanza di prove fisiche e testimoni indipendenti, nonché improbabilità logistiche relative alla vittima, dovessero portare all'assoluzione.
Nonostante le dichiarazioni di innocenza da parte dell'imputato e la sua affermazione di aver cercato la vittima scomparsa, l’uomo è stato riconosciuto colpevole.
L'Alta Corte ha esaminato la testimonianza della donna che ha trovato la vittima, ritenendola inequivocabile e chiara. Sia la donna che un vice-ispettore di polizia hanno testimoniato che la vittima ha raccontato loro di essere stata aggredita.
La Corte ha anche valutato la testimonianza della vittima, registrata ai sensi della sezione 164 del CRPC, in cui ha con precisione descritto l'abuso. Le prove mediche hanno confermato il suo racconto, avendo riportato lesioni e lacerazione dell’imene.
Nonostante gli argomenti della difesa, la Corte ha concluso che le prove fossero affidabili e ben corroborate. La giuria ha confermato la colpevolezza, osservando tuttavia che “l'accusa non ha posto alcun materiale o prova dinanzi alla Corte per giungere alla conclusione che la riforma, la riabilitazione e il reinserimento sociale del ricorrente nella società non siano possibili."
Inoltre, l’imposizione da parte della Corte di una pena minore nel caso del ricorrente, nonostante la natura atroce del reato, è giustificata dalla presenza di diverse circostanze attenuanti. I punti chiave includono:
Il ricorrente aveva 31-32 anni all'epoca del reato; Era un operaio; Non aveva precedenti penali; Ha una figlia e un figlio che sono ancora molto piccoli; La loro madre è morta; Non c'è nessun altro tranne il ricorrente per la loro cura e sostentamento.
Non si può dire che Bahadur costituirà in futuro una minaccia per la società se la condanna a morte non gli viene assegnata.
Pertanto, considerando la giovane età di Bahadur, la mancanza di precedenti penali e la responsabilità per i suoi figli minorenni, la Corte ha stabilito che la condanna a morte sia sproporzionata.
"Confermiamo la colpevolezza del ricorrente per tutte le accuse, ma la condanna a morte imposta per il reato ai sensi della Sezione 376-AB viene commutata in reclusione dura per un periodo di venti anni", ha concluso L’Alta Corte.
(Fonte: Lawbeat, 28/05/2024)

IRAQ: GIUSTIZIATI TRE MEMBRI DELL’ISIS
Il Consiglio Giudiziario Supremo iracheno ha comunicato il 28 maggio 2024 che tre combattenti dell’ISIS sono stati giustiziati.
Secondo le autorità giudiziarie, i tre avevano confessato di essere membri dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (ISIS) e di aver partecipato a vari atti terroristici contro le forze di sicurezza, comprese azioni con auto-bomba e tentativi di liberare combattenti ISIS imprigionati.
Il Consiglio Giudiziario ha affermato che il tribunale penale ha fornito la documentazione necessaria per ordinare e praticare le esecuzioni.
Si tratta della seconda esecuzione di membri dell'ISIS in Iraq questo mese, dal momento che lo scorso 6 maggio, 11 membri dell'ISIS sono stati giustiziati nella prigione di Al-Hoot (nota anche come Prigione Centrale) a Nasiriyah, capitale della provincia di Dhi Qar.
(Fonte: Kurdistan24, 28/05/2024)

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I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA


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