Nessuno tocchi Caino - ‘VI SPIEGO PERCHÉ SOLO IL 2% DELLE PERSONE IN CARCERE RIESCE A VOTARE’

Nessuno tocchi Caino news

Anno 24 - n. 23 - 08-06-2024

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : ‘VI SPIEGO PERCHÉ SOLO IL 2% DELLE PERSONE IN CARCERE RIESCE A VOTARE’
2.  NEWS FLASH: IN PAKISTAN GOVERNA IL BOIA E LA LIBERTÀ VIENE TRATTATA DA BLASFEMIA
3.  NEWS FLASH: ALTRO CHE REPARTI DI POLIZIA DI REAZIONE RAPIDA ALLE RIVOLTE, QUEL CHE SERVE PER MANTENERE L’ORDINE E LA SICUREZZA NELLE CARCERI È IL RAFFORZAMENTO DI SIGNIFICATIVE RELAZIONI UMANE
4.  NEWS FLASH: IRAN: PREMIO HAVEL ASSEGNATO AL RAPPER IRANIANO DISSIDENTE TOOMAJ SALEHI
5.  NEWS FLASH: AFGHANISTAN: I TALEBANI FUSTIGANO IN PUBBLICO 30 PERSONE
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA : DONA IL 5X1000 A NESSUNO TOCCHI CAINO


‘VI SPIEGO PERCHÉ SOLO IL 2% DELLE PERSONE IN CARCERE RIESCE A VOTARE’
A cura di Giulia Casula - Fanpage.it, 07/06/2024

Mancano meno di ventiquattro ore all'apertura dei seggi per le elezioni europee di quest'anno. Durante quella che è stata un'accesa e intensa campagna elettorale, le diverse forze politiche del nostro Paese si sono rivolte ai cittadini italiani in cerca di voti e preferenze per portare i loro candidati a Bruxelles. Eppure esiste una particolare categoria di elettori di cui nessuno sembra ricordarsi, ovvero gli oltre 61mila detenuti presenti nelle carceri italiane. "Per loro votare è una lunga corsa ad ostacoli nella burocrazia comunale e carceraria", dice intervistato da Fanpage.it, Sergio D'Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, ong che dal 1993 si batte per l'abolizione della pena di morte nel mondo.
Sul totale della popolazione carceraria che potrebbe esercitare il diritto di voto, "di solito va a votare tra l’1% e il 2%, in pochissimi", aggiunge. Una situazione che l'ex deputato conosce bene perché l'ha vissuta sulla propria pelle. In carcere infatti, ha scontato dodici anni dopo esser stato condannato per l’assalto di Firenze in cui venne ucciso l’agente di polizia Fausto Dionisi.
"Se costituzionalmente esiste l'imperativo di risocializzare i detenuti e reinserirli nella società, fare esercitare loro quello che è un diritto sacro e un banco di prova della maturità acquisita dovrebbe essere interesse dello Stato", spiega. Per il detenuto, "votare, compiere quel gesto, può essere l'inizio del cambiamento di un modo di pensare e per questo dobbiamo favorirlo".

Segretario, come funziona il voto all'interno delle carceri italiane?

Comincerei col dire che non tutti i detenuti possono votare. Chi è stato condannato ad una pena superiore a 5 anni fino all'ergastolo ha la cosiddetta interdizione perpetua dai pubblici uffici, tra cui appunto il diritto di voto. Sotto i 5 anni di pena l'interdizione può essere temporanea e può variare da un anno a cinque anni. Anche chi è in attesa di giudizio può votare. E non sono pochi: si tratta di un numero compreso tra il 25% e il 30% dei 61 mila detenuti presenti in Italia. Tuttavia, nelle carceri, luoghi di privazione della libertà, spesso si finisce per essere privati dell’esercizio di tanti diritti tra cui quello di voto.

Perché?

Innanzitutto perché per poter votare bisogna che i detenuti sappiano che ci sono le elezioni. Ammesso che questo avvenga, chi si trova in carcere deve poter recuperare la propria tessera elettorale che spesso viene smarrita. Per fare ciò deve chiedere al proprio Comune di residenza, all'ufficio elettorale, la copia del documento, tramite naturalmente un parente o un familiare che si adoperi per richiederla. La copia dovrà comunque arrivare nelle mani del detenuto in tempo utile perché possa esibirla insieme a un documento d'identità al momento del voto, ma non basta. Per poter esercitare il proprio diritto di voto chi si trova in carcere deve anche fare la cosiddetta “domandina”, termine ancora in voga nel gergo carcerario seppure abolito dall'ordinamento penitenziario. In sostanza il detenuto deve chiedere di poter votare al direttore che predisporrà una lista di tutti coloro che hanno manifestato tale volontà da inviare all’ufficio elettorale del Comune in cui è collo
 cato il carcere. Il Comune dovrà poi nominare un presidente di seggio e allestire un seggio speciale almeno uno o due giorni prima delle votazioni. Si tratta di una corsa ad ostacoli della burocrazia comunale e carceraria. Solo chi vince riesce a esercitare tale diritto.

In base ai dati relativi alle precedenti tornate elettorali, in media quanti detenuti vanno a votare?

Di solito va a votare tra l’1% e il 2% della popolazione carceraria. Sono in pochissimi. Alle scorse elezioni per esempio, in istituti come il Pagliarelli o l'Ucciardone, a Palermo, hanno votato sei o sette persone su oltre mille detenuti. Per questo motivo insieme a Elisabetta Zamparutti, la tesoriera di Nessuno tocchi Caino e la presidente Rita Bernardini abbiamo incontrato il capo del Dipartimento della polizia penitenziaria, Giovanni Russo, che ha poi recepito la nostra richiesta. Dal Dap è stata inviata una circolare in tutte le carceri che raccomandava una massima informazione e sono state poi diffuse, con un avviso nelle bacheche delle sezioni detentive, delle linee guida per poter esercitare il diritto di voto.

Qual è la situazione nel resto d’Europa invece? Ci sono delle differenze con il nostro paese?

L’Europa si muove fra due estremi. L’esempio più positivo è la Danimarca dove tutti detenuti possono votare e non ci sono interdizioni. In Regno Unito invece c'è l'interdizione totale, che tu sia in attesa di giudizio o meno. Per il resto d'Europa di sono situazioni diverse tipo quelle italiana con interdizione in base al tipo di reato o all'entità della pena. La cosa che bisogna che si capisca è che, se costituzionalmente esiste l'imperativo di risocializzare i detenuti e reinserirli nella società, fare esercitare loro quello che è un diritto sacro e un banco di prova della maturità acquisita dovrebbe essere interesse dello Stato. Per chi è entrato per aver commesso un fatto più o meno grave, cominciare già ad esercitare le regole della democrazia, potrebbe risultare più dolce e sicuro il ritorno in società. Votare, compiere quel gesto, può essere l'inizio del cambiamento di un modo di pensare e quindi dovremo favorirlo perché è interesse della società.

Lei ha passato in carcere dodici anni dopo esser stato condannato nel 1978, per l’assalto di Firenze in cui venne ucciso l’agente di polizia Fausto Dionisi. In quei dodici anni è mai riuscito a votare?

No, non ho potuto votare perché avevo l'interdizione dai pubblici uffici. Non ricordo se in attesa di giudizio abbia potuto votare, non ho memoria di un seggio. Forse semplicemente perché era talmente dura e irta di ostacoli la corsa a esercitare il diritto di voto che poi uno finisce per rinunciare.

Nella sua attività con Nessuno tocchi Caino lei lavora a stretto contatto con i detenuti, per cui le chiedo: qual è la loro percezione delle elezioni europee? Le avvertono come un qualcosa di lontano, che non li riguarda oppure c'è un interesse rispetto a ciò che accade in Europa?

Lontano o vicino è una dimensione molto relativa per i detenuti. Una cosa lontanissima può essere resa prossima da chi informa. E questo accade se chi sta in carcere viene informato sul fatto che ci sono le elezioni al parlamento di Strasburgo e se si guarda all'Europa come dimensione politica, come spazio giuridico.
Perché in Italia il diritto viene assicurato non tanto dal potere nazionale, ma sempre di più dal diritto internazionale. A proposito di carceri, ad esempio, l'ergastolo ostativo (cioè il fine pena mai) è stato superato dalla Corte di Strasburgo, una corte sovranazionale. Quindi se un detenuto, chiuso nel buio di una cella, venisse informato che da lì arriva il lume della speranza del cambiamento, allora ecco che quel detenuto forse dice: "Io voglio votare a queste elezioni". Basti pensare che il Manifesto degli Stati Uniti d'Europa, dell'Europa federale, noto anche come il manifesto di Ventotene, è stato concepito da tre carcerati che durante il fascismo erano detenuti a Ventotene e lì hanno detto basta alla guerra e sì alla pace. Hanno deciso di creare un'Europa dove chi comanda non siano le istituzioni nazionali ma degli organismi sovranazionali, come il Parlamento europeo, a tutela dei diritti fondamentali. Da quel luogo è venuta questa visione, necessaria contro la viol enza e la guerra nel nostro continente.

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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

IN PAKISTAN GOVERNA IL BOIA E LA LIBERTÀ VIENE TRATTATA DA BLASFEMIA
Domenico Bilotti*

Il Pakistan è il quinto Stato più popolato al mondo ed è, al netto delle sue contraddizioni, uno dei più grandi sistemi federali del pianeta. Per dare una misura pratica del tutto: nonostante la sua capitale sia l’antichissima città di Islamabad, il centro più importante, Caraci, ha un’area metropolitana da venticinque milioni di persone.
La Costituzione vigente, adottata come testo fondamentale nel 1985, dopo tre decenni di aspri rivolgimenti etnici, politici, militari e confessionali, fissa l’Islam come religione di Stato. Un emendamento del 1988 ha accentuato la conformazione presidenziale del Paese, ridisegnando in parte le stesse suddivisioni amministrative: è passata tuttavia un’interpretazione marcatamente accentratrice del potere, distinta dalle rivendicazioni autonomistiche dei movimenti politici di base. A dispetto di ciò, il Pakistan ha sempre ospitato una demografia sostanziale molto più varia di ogni interdetto governativo. I sunniti rappresentano circa i tre quarti dei fedeli locali, ma la scuola hanafita (uno dei principali madhabid, orientamenti, sunniti) prevale nettamente sul radicalismo wahabita. C’è poi da tempo una cospicua componente sciita, dove è probabilmente presente la frazione ismailita più diffusa (prende il nome dal settimo imam, dalla presunta linea di successione legittima d
 el Profeta).
Queste ricchissime tradizioni culturali fanno a pugni con l’attuale legislazione e la presente struttura amministrativa del Paese, all’interno del quale, soprattutto nelle zone di confine, le minoranze religiose subiscono un trattamento ostile, per non dire, anche in senso tecnico-giuridico, persecutorio.
Pena perpetua e pena di morte sono comminatorie formalmente accordate dalla legislazione sulla blasfemia. Il punto è che la mentalità del boia ha contagiato i tumulti popolari, nonostante le sue attribuzioni giuridiche siano sempre più spesso desuete. In assenza di un monitoraggio esaustivo e attendibile sulle esecuzioni capitali, è bene chiarire che in ogni caso esse difficilmente avvengono ad esito di processi per blasfemia.
La tutela penale del culto, con la forte repressione dei comportamenti apparentemente irreligiosi o eterodossi, serve piuttosto da grimaldello e da costante strumento di pressione contro le minoranze – proprio a Caraci è radicata una comunità cattolica; al confine indiano, scuole e istituti induisti appartengono da secoli al vissuto collettivo.
Sebbene nessuno sia stato giustiziato per blasfemia, anche solo un’accusa può provocare rivolte e incitare la folla alla violenza, ai linciaggi e agli omicidi.
Il mese scorso, Nazir Masih, un cristiano di 72 anni sospettato di blasfemia è stato aggredito nel Punjab da una folla inferocita dopo che la gente del posto ha detto di aver visto pagine del Corano bruciate fuori dalla sua casa e ha accusato il figlio di esserne l’autore.
Nazir è morto all’ospedale dopo un paio di settimane per le ferite riportate. È stato sepolto nella città di Sargodha da un gruppo di cristiani che lo hanno portato al cimitero in una bara avvolta in un panno nero e sopra un piccolo crocifisso. Dal piccolo corteo funebre svolto in mezzo a strette misure di sicurezza si sono levate grida come “Lode a Gesù” e “Gesù è grande”.
Il potere, insomma, può riporre il cappio in cantina e la pistola nella fondina: dietro lo spauracchio della corruzione morale, finiscono additati a masse allo stremo soggetti diversamente credenti, oppositori politici e intellettuali secolari. In una terra che non ha ancora conosciuto un ceto borghese di scala e dove il caro prezzi e i costi energetico-climatici sono gestibili soltanto per i già abbienti, indicare le streghe è un’ottima scorciatoia alla soluzione dei problemi. Un vero e proprio pogrom anticristiano era del resto già avvenuto nel 2023, sempre nel contesto di agitazioni artatamente fomentate, che su tutto poggiavano meno che sulla cacciata degli eretici dalle moschee. Migliaia di persone incendiarono chiese e case di cristiani a Jaranwala, sempre nel Punjab. Anche all’epoca i residenti musulmani affermarono di aver visto due uomini profanare il libro sacro dell’Islam.
A oltre quindici anni dall’uccisione della leader socialdemocratica, popolare e moderata Benazir Bhutto, il nuovo fondamentalismo ha perfezionato la sua strategia: frequenta poco la letteratura coranica, predilige allearsi con le forze armate, nella acquiescente connivenza-compiacenza delle magistrature superiori. Esse stesse, più che difendere la Costituzione, fanno da polizia morale, tenendo in mano il martelletto molto più del codice.
* Docente di diritto ecclesiastico, Università “Magna Graecia” di Catanzaro 

ALTRO CHE REPARTI DI POLIZIA DI REAZIONE RAPIDA ALLE RIVOLTE, QUEL CHE SERVE PER MANTENERE L’ORDINE E LA SICUREZZA NELLE CARCERI È IL RAFFORZAMENTO DI SIGNIFICATIVE RELAZIONI UMANE
Elisabetta Zamparutti

Tutto è in evoluzione. Anche i concetti e la loro pratica. Pensiamo all’educazione. Non molto tempo fa si ricorreva alle pene corporali per correggere comportamenti di bambini considerati inappropriati oppure li si umiliava. I figli del baby boom certamente ricorderanno quando la maestra mandava dietro la lavagna chi disturbava in classe.
Oggi nessuno si sogna di prendere a ceffoni un figlio o di bacchettare un alunno, men che mai di esporlo al pubblico ludibrio quando si ritiene abbia sbagliato.
Organizzazioni internazionali, con mozioni e risoluzioni, incoraggiano una genitorialità positiva e nonviolenta.
Poi c’è la sicurezza. Concetto ancora intriso di repressione quando invece è possibile, direi indispensabile, mutarlo verso una concezione improntata alla relazione. I fatti accaduti al carcere minorile Beccaria di Milano, prima il 7 maggio poi alla fine del mese di maggio, contribuiscono a far comprendere quanto questa evoluzione sia necessaria e urgente. Lo è a partire dalle difficoltà che il personale, a cominciare dalla polizia penitenziaria, incontra sul luogo di quotidiano lavoro.
Perchè il carcere, per quanto in un istituto minorile il regime possa essere più flessibile, resta uno spazio in cui gli aspetti securitari sono dominanti. Dominano sull’ambiente di lavoro e sulle relazioni umane. Il coinvolgimento emozionale che deriva dalla costante esposizione all’angoscia di chi vi è recluso, a vissuti intrisi di dolore, al senso di sbandamento, è condizione di per sé stressante. In una situazione che è ulteriormente aggravata dal sovraffollamento, dalla ricorrente mancanza di risorse oltre che da condizioni materiali spesso degradanti.
Per quello che ho potuto constatare nel corso delle visite agli istituti penali che con Nessuno tocchi Caino mi hanno portata a entrare nell’ultimo anno e mezzo in circa 150 delle 189 carceri del nostro Paese, posso dire che il compito affidato alla polizia penitenziaria è tale da esporre sempre di più gli agenti a continue prove e sfide tanto fisiche quanto psichiche. È come se fossero stretti in una tenaglia. Da un lato aumenta il sovraffollamento con un crescente allentamento delle interazioni con i detenuti. Dall’altro, l’accresciuta presenza di detenuti con disordini mentali amplia le difficoltà dell’interazione stessa.
Un allentamento del legame detenuto-detenente che si traduce, per tutti, in un’esperienza logorante, in un senso di solitudine e di complessiva frustrazione.
Il dibattito pubblico è stato alimentato dalle notizie sulla cronaca dei fatti accaduti al Beccaria e dall’immediata decisione di creare, con decreto ministeriale del 14 maggio, il GIO, “reparto di rapida reazione operativa, specializzato nella protezione e tutela della sicurezza delle strutture penitenziarie e delle persone in caso di rivolta in carcere”.
Non vi è spazio di parola e di azione per valutare diverse e nuove forme di gestione della sicurezza improntate alla creazione e al rafforzamento di significative relazioni umane.
In una recente visita in un carcere, un detenuto, nel descrivere la sua condizione di pena e nel tentativo di spiegare il perché di così tanta afflizione mi ha detto: “noi detenuti siamo troppo immaginati”. Perché in effetti il carcerato continua a essere pensato, dunque trattato, come una costante minaccia dalla quale bisogna proteggersi. Con la conseguenza che chi è preposto al suo controllo è costretto su una posizione difensiva, sulla concezione che la miglior difesa è l’attacco. Tutto si svolge in un recinto dove il confronto è fisico e l’arma della parola ha la punta smussata. Quando invece l’interazione tra persone e la gestione dei conflitti dovrebbe farsi forte proprio della parola, della sua pertinenza, del suo vigore, della sua forza di attrazione, influenza e propagazione.
Perchè la vera sicurezza dipende non dai rapporti di forza ma dalla forza del legame che si crea tra persone come avviene tra gli organismi viventi. Questo significa che la stessa formazione degli agenti penitenziari deve lasciare più spazio ai metodi di costruzione di significative relazioni umane. Serve farsi forti di un concetto di sicurezza che non si basa sulla repressione ma sulla relazione. In un circolo virtuoso che può ripercuotersi anche sul detenuto contribuendo al suo pieno reinserimento sociale riducendone anche la recidiva.
(Fonte: fanpage.it. 07/06/2024)

IRAN: PREMIO HAVEL ASSEGNATO AL RAPPER IRANIANO DISSIDENTE TOOMAJ SALEHI
Il rapper iraniano Toomaj Salehi, condannato a morte, è stato insignito del premio internazionale Václav Havel in occasione del 16° Oslo Freedom Forum tenutosi nella capitale norvegese il 4 giugno 2024.
Salehi è stato uno dei tre vincitori del premio insieme al poeta e regista uiguro Tahir Hamut Izgil e alla pianista venezuelana Gabriela Montero.
Non potendo partecipare alla cerimonia a causa della sua detenzione nella prigione iraniana di Dastgerd a Esfahan, il premio è stato ritirato da Negin Niknaam, attivista e amica iraniana. Niknaam ha pronunciato un discorso toccante, sottolineando la situazione di Salehi e la più ampia lotta per la libertà in Iran.
"Toomaj non è qui. Non può essere qui oggi. È in prigione dietro le fredde sbarre in Iran ed è condannato a morte. La Repubblica islamica vuole giustiziarlo. Perché? Perché è molto più di un musicista. È un faro di speranza, un simbolo di resistenza", ha dichiarato Niknaam.
Salehi è stato accusato di “corruzione sulla terra” da un tribunale di Esfahan. Niknaam ha dichiarato che questa accusa “riflette la paura del regime nei confronti del coraggio e della speranza” che Salehi rappresenta attraverso la sua arte.
L'avvocato di Salehi, Amir Raisian, ha confermato il verdetto di condanna a morte di Salehi nell'aprile di quest'anno.
Salehi, che è diventato un'icona delle proteste nazionali del 2022 in Iran, ha pubblicato una canzone a sostegno dei manifestanti, oltre a prestare la sua piattaforma per dare eco alle voci dei manifestanti iraniani. Non solo ha sostenuto le proteste, ma si è anche unito a loro per le strade dell'Iran mentre le forze di sicurezza sparavano contro i manifestanti pacifici in tutto il Paese.
Questo lo ha reso un bersaglio delle autorità e ha portato al suo arresto arbitrario, alla tortura, all'incarcerazione e ora a una sentenza di condanna a morte dopo processi farsa.
“La Repubblica islamica vuole giustiziarlo perché è diventato la voce di una nazione, che anela alla libertà come i coraggiosi manifestanti feriti... come coloro i cui figli sono stati uccisi durante le proteste... come quelle donne e quegli uomini coraggiosi che hanno esalato l'ultimo respiro sotto la brutalità delle forze di sicurezza”, ha continuato Niknaam.
Facendo ulteriormente luce sulla situazione degli iraniani, Niknam ha affermato che “nonostante le repressioni, le incarcerazioni e le esecuzioni, il movimento per la libertà in Iran continua a guadagnare forza...”. Tuttavia, ha avvertito che la mancanza di azione da parte dei Paesi occidentali non fa altro che incoraggiare il regime a continuare la sua repressione, incoraggiando “la Repubblica islamica a uccidere altri manifestanti”.
Niknaam ha esortato i partecipanti all'evento ad alzare la voce per sostenere Toomaj fino al suo rilascio e ha sottolineato che il regime della Repubblica islamica a volte cede di fronte alle pressioni internazionali.
Niknaam ha concluso il suo discorso riprendendo le parole di Salehi, diventate virali tra i giovani iraniani: “La morte definitiva è la morte della speranza”.
La cugina di Salehi, Arezou Babadi, ha parlato con Iran International dopo l'evento, sottolineando l'impatto globale del suo coraggio.
"L'incrollabile coraggio e la voce di Toomaj hanno superato i confini, rendendolo un'icona globale della libertà di espressione e della resistenza. Toomaj è un faro per chi non ha voce, incarnando l'incessante ricerca della verità e della giustizia in un mondo spesso avvolto dal silenzio", ha dichiarato Babadi.
Nelle scorse settimane, centinaia di familiari dei morti e dei feriti della guerra Iran-Iraq, attivisti civili e personalità della cultura e dell'arte di tutto il mondo, in dichiarazioni separate, hanno chiesto il rilascio di Salehi.
Poco dopo il discorso di Niknaam, Jack Dorsey, il cofondatore di Twitter, ha scritto sui social media #FreeToomaj.
Il Premio internazionale Václav Havel premia coloro che dimostrano un coraggio e una creatività eccezionali nell'opporsi alla tirannia. Il Premio Havel prende il nome dal defunto presidente ceco ed ex presidente della Fondazione per i diritti umani, con sede a New York, Václav Havel.
Havel è ricordato per le sue lotte contro il governo comunista della Cecoslovacchia. È stato eletto primo ministro della Repubblica Ceca ed è stato al potere nel Paese dal 1993 al 2003. È morto nel 2011.
Riflettendo ulteriormente sul premio assegnato a Salehi dopo il suo discorso, Niknaam ha dichiarato a Iran International English: "L'impegno incrollabile di Toomaj per la sua causa lo rende un destinatario meritevole. La situazione di Toomaj e la lotta in corso del popolo iraniano servono a ricordare al mondo la resilienza e la forza necessarie per combattere per la libertà".
(Fonte: iranintl.com)

AFGHANISTAN: I TALEBANI FUSTIGANO IN PUBBLICO 30 PERSONE
I Talebani negli ultimi quattro giorni hanno fustigato in pubblico 30 persone, tra cui una donna, nelle province di Ghor, Paktika, Ghazni, Khost e Kunduz, ha riportato il sito kabulnow.com il 4 giugno 2024.
Negli ultimi quattro giorni, la Corte Suprema dei Talebani ha emesso diversi comunicati riguardanti la fustigazione di queste persone, che erano accusate di “adulterio”, “sodomia”, “fuga di casa” e “furto”.
Oltre a ricevere dalle 20 alle 40 frustate ciascuno, queste persone sono state anche condannate a diversi anni di prigione.
Dopo aver ripreso il potere in Afghanistan nell’agosto 2021, i Talebani hanno effettuato la prima fustigazione pubblica nella provincia orientale di Logar nel novembre 2022. Da allora, il regime ha ripreso questa pratica in tutto il Paese, con fustigazioni pubbliche spesso avvenute negli stadi sportivi alla presenza di autorità locali, degli anziani delle comunità e dei residenti.
Inoltre, i Talebani hanno continuato a praticare esecuzioni pubbliche per varie accuse. Negli ultimi tre anni, il regime ha giustiziato pubblicamente almeno cinque persone nel Paese.
Il ripristino della fustigazione pubblica da parte dei Talebani ha provocato una diffusa condanna a livello internazionale di questa forma di “punizione corporale”.
Le Nazioni Unite sono state esplicite nel condannare questa pratica, descrivendola come una violazione dei valori umani fondamentali. Le Nazioni Unite e numerose organizzazioni per i diritti umani hanno anche criticato la legittimità dei tribunali talebani, soprattutto perché agli imputati viene negato il diritto alla rappresentanza legale e l’opportunità di difendersi.
L’anno scorso, Amnesty International ha invitato i Talebani a cessare immediatamente e incondizionatamente la “pratica criminale” della fustigazione pubblica e di tutte le altre forme di punizione corporale. L’Organizzazione ha sottolineato la necessità di istituire un sistema giudiziario formale che garantisca processi equi e l’accesso a strumenti legali.
I Talebani affermano da parte loro di applicare in Afghanistan la legge della Sharia, accusando gli altri paesi e organizzazioni di non avere sufficiente comprensione o di avere pregiudizi contro l'Islam.
Il leader supremo dei Talebani, Hibatullah Akhundzada, ha recentemente ribadito la continuazione delle punizioni corporali, comprese le percosse pubbliche e la lapidazione delle donne. Ha detto che anche se tali punizioni potrebbero non essere in linea con i valori democratici occidentali, il regime persisterà nell’applicarle in Afghanistan.
“Nella vostra visione la lapidazione è una violazione dei diritti delle donne. Nel prossimo futuro, prevediamo di applicare la punizione per l’adulterio, che include la lapidazione e la fustigazione pubblica delle donne”, ha detto il leader talebano, rivolgendosi ai paesi occidentali. “Proprio come voi affermate di lottare per salvare e liberare l’umanità, anch’io lo faccio. Voi rappresentate Satana e io rappresento Dio. Come dice Allah, ‘Il partito di Allah prevarrà’”, ha aggiunto.
(Fonte: kabulnow.com, 04/06/2024)

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I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA


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