Nessuno tocchi Caino - IL PRESIDENTE PEZESHKIAN PARLA ALL’ONU DI DIALOGO MENTRE IN IRAN IL SUO REGIME STABILISCE NUOVI RECORD DI ESECUZIONI

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NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM

Associazione Radicale Nonviolenta
Transnazionale Transpartitica

Anno 24 - n. 37 - 05-10-2024

LA STORIA DELLA SETTIMANA

IL PRESIDENTE PEZESHKIAN PARLA ALL’ONU DI DIALOGO MENTRE IN IRAN IL SUO REGIME STABILISCE NUOVI RECORD DI ESECUZIONI

NEWS FLASH

1. IL CASO DI UN IMPRENDITORE ITALIANO PRIVATO DEL SUO PATRIMONIO MILIONARIO DA UNA CONFISCA TRANSNAZIONALE SENZA CONDANNA E SENZA PROCESSO
2. ARABIA SAUDITA: NUOVO RECORD DI ESECUZIONI CAPITALI
3. USA: 1600 ESECUZIONI, QUANDO FINIRÀ LA FOLLIA?
4. GIAPPONE: PER IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA L’ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE È ‘INAPPROPRIATA’




IL PRESIDENTE PEZESHKIAN PARLA ALL’ONU DI DIALOGO MENTRE IN IRAN IL SUO REGIME STABILISCE NUOVI RECORD DI ESECUZIONI
Virginia Pishbin

“Sguardi sull’Iran. Suoni, immagini e racconti dal Paese misterioso”. È il titolo della rassegna presentata a Cagliari dal 30 settembre al 2 ottobre dal Centro Italo Arabo e del Mediterraneo della Sardegna. A svelare il mistero che racchiude la cultura persiana è stato invitato l’ambasciatore della Repubblica Islamica in Italia, Mohammad Reza Sabouri. Ecco come la macchinosa logica della geopolitica internazionale impedisce di smascherare i regimi dittatoriali e promuove il dialogo e la collaborazione con una dittatura “religiosa” che detiene il record mondiale di esecuzioni capitali pro capite. E i cui leader vengono considerati seppur indirettamente criminali contro l’umanità dall’ex special rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti umani in Iran, Javaid Rehman, che ha recentemente definito genocidio il massacro di circa 30.000 prigionieri politici nell’estate del 1988 nel quale sono state direttamente coinvolte molte delle attuali alte sfere del regime dei mu llah.
Il crimine continua e il 24 settembre scorso, in vista della Giornata mondiale contro la pena di morte del 10 ottobre prossimo, il nuovo presidente della repubblica islamica, Masoud Pezeshkian, che dona all’opinione pubblica un volto docile e moderato del regime teocratico, viene invitato a parlare nella prestigiosa sede delle Nazioni Unite a New York. Mentre migliaia di iraniani della diaspora manifestavano davanti al Palazzo di Vetro contro la sua presenza, è ironico che la comunità internazionale sia rimasta in silenzio di fronte al riconoscimento di una presunta autorevolezza del regime più brutale del nostro tempo. Pezeshkian parla a New York di dialogo mentre il suo Paese, da quando lui è entrato in carica, stabilisce nuovi record, giustiziando 223 persone, tra cui 10 donne e 26 dei quali in un solo giorno in una prigione del paese, un fatto senza precedenti negli ultimi 25 anni. Sono tornate anche le esecuzioni sulla pubblica piazza, come di recente a Shahroud, mentre co ntinuano le condanne a morte e le esecuzioni dei prigionieri politici arrestati durante le proteste del settembre 2022.
Il 24 settembre, mentre il presidente Pezeshkian parlava alle Nazioni Unite, la signora Maryam Rajavi, presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, rivolgendosi ai partecipanti alla manifestazione fuori dal Palazzo, ha giustamente detto: “La vostra potente assemblea, oggi come negli ultimi quattro decenni, ha posto le Nazioni Unite e i suoi stati membri, in particolare le potenze occidentali, di fronte a questa domanda cruciale: cosa ci fa alle Nazioni Unite il presidente del regime delle esecuzioni e dei massacri? Le Nazioni Unite non sono fondate sulla loro Carta, radicata nella “fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana”? Allora perché è presente alle Nazioni Unite il rappresentante di un regime che, secondo il relatore speciale delle Nazioni Unite sull’Iran, ha commesso un genocidio e crimini contro l’umanità?”
Il giorno dopo, il 25 settembre, a Roma, intervenendo alla conferenza con parlamentari italiani organizzata dall’on. Gruppioni, la signora Rajavi ha notato che con impiccagioni che avvengono a distanza di poche ore l’una dall’altra, Khamenei ha portato il livello di repressione ai massimi termini. Ha ricordato che, negli ultimi quattro decenni, queste esecuzioni hanno preso di mira dissidenti politici, beluci, turkmeni, arabi e curdi e che tra le vittime, che abbracciano tutte le età, dagli adolescenti agli anziani, comprese ragazze di 13 e 14 anni e donne incinte, ci sono anche sunniti, baha’i, studenti, poeti, intellettuali, avvocati e attivisti ambientali.
Il 27 settembre durante una conferenza con parlamentari e attivisti in Germania, la signora Maryam Rajavi, nel ricordare l’80esimo anniversario della rivolta nonviolenta dei Ragazzi della Rosa Bianca, ha citato una frase da una delle loro dichiarazioni: “Ogni giorno che ritardi e non resisti a questi inventori dell’inferno, la tua colpa cresce.” Oggi, ha concluso la Presidente Rajavi, “l’inventore dell’inferno è il fascismo religioso al potere in Iran. Questo regime è la fonte delle esecuzioni all’interno dell’Iran e della guerra e del terrorismo fuori dall’Iran.”
È tempo che l’Occidente, e in particolare l’Italia, prenda l’iniziativa e inserisca nella lista nera l’IRGC, il famigerato corpo dei guardiani della rivoluzione islamica, che è il principale strumento guerrafondaio e terroristico nella regione mediorientale e in Europa e di totale repressione all’interno del paese. Ci si chiede quindi quale mistero racchiuda la cultura persiana che non valga la pena di essere svelato alla luce dei diritti calpestati del popolo iraniano, in particolare, nelle ultime quattro decadi. Ai posteri l’ardua sentenza.



NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

IL CASO DI UN IMPRENDITORE ITALIANO PRIVATO DEL SUO PATRIMONIO MILIONARIO DA UNA CONFISCA TRANSNAZIONALE SENZA CONDANNA E SENZA PROCESSO
Gianluca Zaghini

Sono un ex imprenditore forlivese vittima di una confisca penale emessa dalle autorità di San Marino su un mio fondo pari a 1.892.700 euro. Nell’anno 2003, tale valore veniva sottoposto a sequestrato preventivo dal giudice sammarinese per le rogatorie a seguito di una specifica richiesta del tribunale italiano davanti al quale io affrontavo un processo per evasione fiscale. Dopo quasi 15 anni, esattamente nell’anno 2017, il mio procedimento in Italia si concludeva nel grado di appello con assoluzione definitiva e la corte competente dispose lo svincolo di tutte le somme di mia proprietà sequestrate cautelativamente, sia in territorio italiano che sammarinese, difatti inoltrando al giudice per l’esecuzione di San Marino uno specifico e motivato ordine di dissequestro.
Incomprensibilmente, però, ottenevo solo la restituzione dei fondi custoditi dalle autorità italiane e non anche quanto detenuto presso quelle sammarinesi. Solo in quel momento, nell’anno 2017, scoprivo quello che lo Stato di San Marino aveva compiuto alle mie spalle e all’insaputa dell’autorità italiana: nell’anno 2008, la somma di mia proprietà del valore – ripeto – di 1.892.700 euro vincolati a San Marino dal PM italiano già dal 2003 e che dovevano essere e restare di sola pertinenza dello Stato italiano, veniva confiscata per tramite di una sentenza che condannava per riciclaggio soggetti altri e diversi da me e all’interno di un processo penale svolto a San Marino nel quale io non ero parte e per il quale mai avevo ricevuto alcuna comunicazione.
Ma trovammo altro e di ancora più sconcertante negli atti del processo sammarinese. Tale processo aveva come presupposto, testualmente, “il reato di evasione fiscale commesso da Gianluca Zaghini in Italia”; peccato però che a quel tempo, ossia nell’anno 2008, io ero semplicemente un indagato in Italia e all’interno di un procedimento al termine del quale sarei poi stato assolto definitivamente.
Quel che ha fatto, quindi, lo Stato di San Marino è stato condannarmi senza processarmi e inoltre emettere a mio carico – sempre al di fuori di un processo che mi riguardasse – una misura penale sulla base di mere supposizioni. Non soltanto, dalla lettura del testo del Decreto di Confisca si evince che tale abominio avveniva persino grazie all’applicazione retroattiva della Legge penale: il testo normativo utilizzato non era neanche vigente al tempo dei fatti contestati. Quel che ho subito, quindi, da San Marino è stata e resta confisca patrimoniale completamente e manifestamente contraria a qualsivoglia principio fondamentale vigente negli odierni Stati di Diritto: principio di legalità, principio di difesa e colpevolezza, rispetto della proprietà, Ne bis in idem internazionale e ancora i principi di proporzionalità e necessità dell’azione statale.
Ma vi è di più, le autorità sammarinesi non solo hanno calpestato manifestamente i miei diritti fondamentali, hanno anche violato palesemente gli storici Accordi di buon vicinato tra la Repubblica di San Marino e lo Stato Italiano, in quanto l’assurda confisca emessa sul denaro di mia proprietà è intervenuta su valori già investiti da un provvedimento giudiziario italiano e – incomprensibilmente – senza che mai lo Stato di San Marino indirizzasse alcuna comunicazione in merito non soltanto a me, proprietario del denaro, ma neanche allo Stato italiano, autorità ab origine unica pertinente.
Per il recupero del fondo, ho alla fine proposto tutti i ricorsi interni accessibili, rimedi, tuttavia, rimasti via via tutti infruttuosi per generiche e immotivate dichiarazioni di incompetenza dei giudici sammarinesi chiamati a pronunciarsi. Esauriti i rimedi interni, ho fatto ricorso alle vie giurisdizionali sovranazionali, lamentando la manifesta violazione di diritti fondamentali, quali quello a un equo processo, del rispetto della proprietà privata e di tutti i principi nazionali e internazionali connessi, specie con riguardo a quelli relativi alla “Confisca penale in assenza di condanna”.
Ad oggi, lacerato dalla mortificazione e stremato dalla stanchezza, sto ancora lottando tra vie ministeriali e diplomatiche per avere giustizia, assistito da un pool di giuristi coordinati dall’avvocato internazionalista Lucia Galletta che, come me, non si arrendono a un tale abominio processuale. È mia ferma intenzione continuare a combattere per le competenti vie. Io devo avere Giustizia e lo Stato italiano non può abbandonarmi.



ARABIA SAUDITA: NUOVO RECORD DI ESECUZIONI CAPITALI
Le autorità saudite hanno giustiziato oltre 198 persone finora nel 2024, il numero più alto di esecuzioni registrato nel Paese dal 1990, ha affermato Amnesty International il 28 settembre 2024.
Nonostante le ripetute promesse di limitare l'uso della pena di morte, le autorità saudite hanno intensificato le esecuzioni, senza tuttavia rispettare sistematicamente gli standard internazionali sul giusto processo e le garanzie per gli imputati.
Le esecuzioni per reati legati alla droga sono aumentate vertiginosamente quest'anno, con 53 esecuzioni finora praticate, con una media di un'esecuzione ogni due giorni solo a luglio, in aumento rispetto alle sole due esecuzioni legate alla droga nel 2023.
Le autorità hanno anche trasformato la pena di morte in un mezzo per mettere a tacere il dissenso politico, punendo i cittadini della minoranza sciita del Paese che hanno sostenuto le proteste "anti-governative" tra il 2011 e il 2013.
"Le autorità dell'Arabia Saudita stanno perseguendo una serie incessante di omicidi che mostrano un agghiacciante disprezzo per la vita umana, promuovendo al contempo una campagna di parole vuote per rinnovare la propria immagine", ha affermato Agnès Callamard, Segretaria Generale di Amnesty International.
"La pena di morte è una punizione abominevole e disumana che l'Arabia Saudita ha utilizzato contro le persone per una vasta gamma di reati, tra cui il dissenso politico e le accuse legate alla droga a seguito di processi gravemente iniqui. Le autorità devono stabilire immediatamente una moratoria sulle esecuzioni e ordinare nuovi processi per coloro che si trovano nel braccio della morte, in linea con gli standard internazionali, senza ricorrere alla pena di morte".
Nel 2022, l'Arabia Saudita ha giustiziato 196 persone, il numero annuale più alto di esecuzioni che Amnesty International abbia registrato nel Paese negli ultimi 30 anni.
(Fonte: Amnesty International, 28/09/2024)



USA: 1600 ESECUZIONI, QUANDO FINIRÀ LA FOLLIA?
La scorsa settimana gli Stati Uniti hanno eseguito la 1.600esima esecuzione dal 1976. Quando finirà la follia?
Il 26 settembre sera, Alan Miller è diventato la seconda persona messa a morte in Alabama con l'ipossia da azoto. Miller era stato condannato per l'omicidio di tre uomini nel 1999 e questo è stato il suo secondo viaggio nella camera della morte dell'Alabama. Lo Stato aveva già tentato di giustiziarlo con un'iniezione letale nel 2022.
Con la morte di Miller, il Paese ha giustiziato 1.600 persone da quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ha ripristinato la pena capitale con la sentenza Gregg v. Georgia del 1976. Il Washington Post ha giustamente definito il traguardo delle 1.600 esecuzioni “una triste pietra miliare”.
1.600 esecuzioni in 48 anni significa che abbiamo giustiziato una media di poco meno di 3 persone al mese. Naturalmente, il ritmo delle esecuzioni va e viene. Questo fatto è stato illustrato proprio la settimana scorsa, quando Miller è diventato la quinta persona giustiziata in un periodo di 7 giorni a partire dal 20 settembre.
Anche se ricordiamo la morte di Miller, dobbiamo riconoscere che negli ultimi decenni abbiamo fatto molta strada sulla via dell'abolizione. I segni del progresso sono tutti intorno a noi.
Le condanne a morte e le esecuzioni sono diminuite drasticamente rispetto al picco degli anni Novanta. Dal 2007 sono stati aboliti più Stati della pena di morte che in altri periodi analoghi della storia della nazione.
Mentre il sostegno alla pena capitale è cresciuto costantemente dopo “Gregg” e ha raggiunto un picco nel 1994, con l'80% degli americani che sosteneva che fosse la giusta punizione per una persona condannata per omicidio, oggi questa percentuale è del 53%.
Inoltre, come riporta Gallup, “per la prima volta da quando ha iniziato a chiedere l'equità dell'applicazione della pena di morte negli Stati Uniti, ... più americani dicono che è applicata in modo ingiusto (50%) che giusto (47%)”.
Tuttavia, come dimostra lo sforzo determinato dell'Alabama per uccidere Miller, abbiamo ancora molta strada da fare se vogliamo che questo Paese si liberi della maledizione dell'omicidio di Stato. Infatti, mentre la maggior parte del Paese mette la pena di morte nello specchietto retrovisore (l’ha superata, ndt), la restante minoranza di Stati vi si aggrappa sempre più tenacemente e sembra essere pronta a fare di tutto per mantenere in funzione la macchina della morte.
Ciò è stato dimostrato la settimana scorsa, quando il Missouri ha giustiziato Marcellus Williams, anche se l'ufficio del procuratore della contea di St. Louis che lo aveva originariamente perseguito ha confessato un errore. Quell'ufficio si è unito a Williams nel tentativo di impedire allo Stato di ucciderlo.
Dopo l'esecuzione, Wesley Bell, l'attuale procuratore di St. Louis, ha dichiarato: “Marcellus Williams dovrebbe essere vivo oggi. Ci sono stati diversi momenti in cui si sarebbero potute prendere decisioni che gli avrebbero risparmiato la pena di morte. Se c'è anche solo l'ombra di un dubbio di innocenza, la pena di morte non dovrebbe mai essere un'opzione. Questo risultato non ha servito gli interessi della giustizia”.
La NAACP l'ha messa giù più schiettamente. Stanotte”, ha affermato il gruppo, ‘il Missouri ha linciato un altro nero innocente’. Quando la prova del DNA dimostra l'innocenza, la pena capitale non è giustizia, è omicidio”.
Per fare un altro esempio, Richard Glossip si trova nel braccio della morte dell'Oklahoma anche se Gentner Drummond, il procuratore generale dello Stato favorevole alla pena di morte, e molti altri funzionari statali lo ritengono innocente.
Stati come il Missouri e l'Oklahoma vi si aggrappano come se abbandonare la pena di morte significasse abbandonare il loro stile di vita. Preferiscono portare avanti le esecuzioni anche quando ci sono dubbi reali sul fatto che coloro che vogliono uccidere meritino di morire.
E non sono soli.
L'Alabama, il Texas e altri Stati della cintura della morte sembrano avere un'inclinazione simile. Inoltre, se Donald Trump tornerà nello Studio Ovale, sicuramente lancerà un'altra serie di esecuzioni come ha fatto negli ultimi mesi del suo primo mandato.
Il Death Penalty Information Center (DPIC) ha ragione quando dice che Trump, così come i funzionari di tutta la cintura della morte, “non sono al passo con la crescente preoccupazione dell'opinione pubblica circa l'equità e l'accuratezza della pena capitale - e che gli approcci zelanti all'uso della pena di morte, che un tempo erano popolari, non stanno più ottenendo gli stessi livelli di sostegno degli elettori”.
In effetti, ogni volta che ignorano le dichiarazioni di innocenza e procedono con le esecuzioni, avvicinano il Paese al giorno in cui gli americani, compresi i cittadini dei loro Stati, non sopporteranno più le uccisioni di Stato. E casi come quelli di Williams e Glossip non sono certo unici.
Samuel Gross e i suoi colleghi stimano che oltre il 4% dei detenuti nel braccio della morte sia in realtà innocente. Sappiamo anche che, mentre il Paese accumulava abbastanza esecuzioni da raggiungere il traguardo delle 1.600, oltre 200 persone sono state scagionate dal braccio della morte.
1.600 persone giustiziate, 200 scagionate è una vergogna nazionale. Non sorprende che gli Stati che ricorrono spesso alla pena di morte, come la Florida, il Texas e l'Oklahoma, siano in testa al numero di persone che hanno dimostrato di essere state condannate ingiustamente.
Guardando indietro a quasi 50 anni fa, si nota che il problema delle false condanne era appena sotto gli occhi di tutti. Tra il 1973 e il 1976, solo 13 persone sono state scagionate dal braccio della morte.
La questione dell'effettiva innocenza e del rischio di giustiziare un innocente non è stata una preoccupazione centrale quando la Corte Suprema ha temporaneamente bloccato le esecuzioni in Furman contro Georgia o quando ha dato il via libera alla ripresa delle esecuzioni quattro anni dopo. Anzi, è stato a malapena menzionato in entrambi i casi.
Ma non è solo perché da quelle decisioni abbiamo imparato di più sui guasti nella fase di colpevolezza dei processi capitali. Abbiamo capito molto di più sul ruolo della razza nel sistema della pena di morte.
Sebbene la Corte abbia riconosciuto che la pena di morte sembra essere piena di pregiudizi razziali, è stata ostacolata nel cogliere le dimensioni del problema dalla natura delle prove disponibili. Come ha riconosciuto il giudice William Douglas in una nota a piè di pagina del suo parere “Furman”, anche le migliori ricerche non potevano escludere l'effetto di “una serie di fattori diversi dalla razza” per spiegare l'apparente discriminazione razziale nei casi di morte.
“Non ci è possibile”, spiegò Douglas, “individuare i fattori che nelle fasi preprocessuali e processuali collegano i negri e una maggiore frequenza di esecuzioni.... Troppi fattori sconosciuti o attualmente incommensurabili ci impediscono di fare affermazioni definitive sulla relazione”.
E poi arrivò David Baldus a fornire esattamente ciò che Douglas chiedeva a “Furman”. Baldus esaminò oltre 2.000 casi capitali post-Gregg in Georgia utilizzando sofisticate tecniche statistiche. Dimostrò potenti effetti della razza della vittima che spiegavano la disparità delle sentenze nei casi di morte controllando 230 variabili.
La sua ricerca era così valida che persino la Corte Suprema non ne ha contestato la validità.
Da quando Baldus ha svolto il suo lavoro, abbiamo imparato che l'effetto della razza non si esaurisce con la sentenza. Altri studi hanno dimostrato che i neri hanno maggiori probabilità di essere giustiziati e di avere esecuzioni compiute male.
Dal 1976, infatti, questo Paese ha assistito a una cascata di esecuzioni sbagliate di imputati di ogni razza. Il problema è diventato così grave che il DPIC ha definito il 2022 “l'anno delle esecuzioni sbagliate” perché in 7 delle 20 esecuzioni di quell'anno (35%) le cose sono andate male.
False condanne, pregiudizi razziali ed esecuzioni sbagliate sono inevitabili. Sono tanto caratteristiche quanto difetti del sistema della pena di morte in America.
Ecco perché anche le giurisdizioni più ardentemente favorevoli alla pena di morte dovranno un giorno confrontarsi con questi fatti. I loro sforzi per ignorarli e spingere il numero di esecuzioni sempre più in alto sono, parafrasando l'ex giudice della Corte Suprema Harry Blackmun, “chiaramente destinati al fallimento”.
Anche se non possiamo dire con esattezza quando, un giorno Stati come l'Alabama, il Missouri, l'Oklahoma e il Texas arriveranno alla stessa conclusione prevista da Blackmun, cioè che “la pena di morte... deve essere abbandonata del tutto”.
(Fonte: Austin Sarat, Amherst College, 01/10/2024)



GIAPPONE: PER IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA L’ABOLIZIONE DELLA PENA DI MORTE È ‘INAPPROPRIATA’
Il neo-nominato ministro della Giustizia Hideki Makihara ha dichiarato il 2 ottobre 2024 che abolire la pena di morte in Giappone, dove non ci sono esecuzioni da oltre due anni, sarebbe "inappropriato" poiché l’opinione pubblica la considera in gran parte "inevitabile per crimini efferati".
Parlando in una conferenza stampa, Makihara ha aggiunto che poiché togliere la vita a un essere umano è una questione estremamente seria, dovrebbe essere affrontata con la massima attenzione.
In mezzo al crescente interesse per i nuovi processi, in seguito alla recente assoluzione di Iwao Hakamata, 88 anni, che ha trascorso quasi mezzo secolo nel braccio della morte, Makihara ha sottolineato che "è necessaria un'attenta e approfondita considerazione da diverse prospettive".
(Fonte: Kyodo News, 02/10/2024)

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