Nessuno tocchi Caino - NELLA PRIGIONE ‘AL HOUT’ DI NASSIRIYA DOVE MIGLIAIA DI ESSERI UMANI ATTENDONO DI FINIRE SULLA FORCA
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Anno 24 - n. 41 - 02-11-2024
LA STORIA DELLA SETTIMANA
NELLA PRIGIONE ‘AL HOUT’ DI NASSIRIYA DOVE MIGLIAIA DI ESSERI UMANI ATTENDONO DI FINIRE SULLA FORCA
NEWS FLASH
1. IL CARCERE, IL ‘SENSO D’UMANITÀ’ E L’ASSEMBLEA COSTITUENTE
2. IRAN: JAMSHID SHARMAHD GIUSTIZIATO IL 28 OTTOBRE IN UN LUOGO NON RIVELATO
3. ‘PETRICORE’, 6 REPLICHE A ROMA
4. KENTUCKY (USA): LA CORTE SUPREMA DI STATO CONFERMA LA SOSPENSIONE DELLE ESECUZIONI
I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA
PODCAST: DIALOGHI ABOLIZIONISTI
NELLA PRIGIONE ‘AL HOUT’ DI NASSIRIYA DOVE MIGLIAIA DI ESSERI UMANI ATTENDONO DI FINIRE SULLA FORCA
NEWS FLASH
1. IL CARCERE, IL ‘SENSO D’UMANITÀ’ E L’ASSEMBLEA COSTITUENTE
2. IRAN: JAMSHID SHARMAHD GIUSTIZIATO IL 28 OTTOBRE IN UN LUOGO NON RIVELATO
3. ‘PETRICORE’, 6 REPLICHE A ROMA
4. KENTUCKY (USA): LA CORTE SUPREMA DI STATO CONFERMA LA SOSPENSIONE DELLE ESECUZIONI
I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA
PODCAST: DIALOGHI ABOLIZIONISTI
NELLA PRIGIONE ‘AL HOUT’ DI NASSIRIYA DOVE MIGLIAIA DI ESSERI UMANI ATTENDONO DI FINIRE SULLA FORCA
Elisabetta Zamparutti
Nella prigione di Nassiriya tutto è fuori del comune e dalla norma. Il carcere è smisurato, sovraffollato, disumano.
Dal momento in cui è stato aperto nel 2008, tutto si è mosso contro le leggi naturali della scienza e della coscienza. È stata progettata per contenere solo 800 prigionieri e, in pochi anni, contro i principi elementari della fisica, è stata affollata da oltre 8.000 detenuti. Come se tutti entrassero e nessuno uscisse. Gli abitanti del luogo, infatti, chiamano la prigione “al hout”, la balena, perché inghiotte esseri umani che non vengono più sputati fuori. È stata architettata come carcere della massima sicurezza contro il terrorismo; è subito diventata il luogo della tremenda vendetta delle vittime sciite del regime del terrore saddamita.
La prigione di Nassiriya è l’unica in Iraq dove c’è il braccio della morte. I prigionieri in attesa di finire sulla forca sono migliaia, per lo più musulmani sunniti detenuti per reati politici o presunti atti di terrorismo. La “Balena” è diventata un mausoleo della legge del taglione. Ma, nel suo ventre, è violata la stessa regola islamica che prescrive il limite di un occhio per un occhio: uno al massimo, non di più. Invece, quando accade, a Nassiriya l’esecuzione è imprevedibile, smisurata e coperta da un manto di segretezza.
Il 12 ottobre scorso, AFAD, l’Osservatorio Iracheno per i Diritti Umani, ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che le autorità carcerarie hanno condotto quattro ondate di esecuzioni a settembre, la più grande delle quali si è verificata giorno 24, quando 21 prigionieri sono stati impiccati all’alba. AFAD sostiene che sono state effettuate senza consentire ai prigionieri di esprimere le ultime volontà o contattare le loro famiglie per un estremo saluto. I detenuti sono stati prelevati dalle loro celle in pigiama e impiccati in gruppi di sei, con alcune esecuzioni accompagnate da insulti settari da parte dei carnefici. Il giorno successivo i corpi sono stati consegnati alle famiglie, alle quali è stato chiesto di pagare la tassa per i certificati di morte.
“La maggior parte delle vittime proveniva dai governatorati di Salah al-Din, Diyala, Anbar, Baghdad e Ninive. Alcuni dei giustiziati sono stati condannati in base a sentenze emesse durante l’era del Primo Ministro Nouri al-Maliki, noto per le sue politiche settarie”.
AFAD ha fornito videoclip che mostrano i loro corpi dopo che sono stati restituiti alle loro famiglie. L’organizzazione ha anche condiviso il certificato di morte di un uomo, Waed Salim Hussain, di Talafer, provincia di Ninive. Il documento è stato firmato dalla clinica sanitaria della prigione centrale di Nassiriya e ha indicato la causa della morte come “esecuzione per impiccagione fino alla morte”.
Secondo il rapporto, inoltre, il presidente Abdul Latif Rashid ha approvato le esecuzioni sotto la pressione delle fazioni politiche sciite a Baghdad, nonostante le contestazioni dei prigionieri, che hanno affermato di essere stati torturati per firmare confessioni o di essere stati condannati sulla base di false accuse da parte di informatori segreti. Il comitato presidenziale formato per ratificare queste condanne a morte sarebbe composto interamente da sciiti, senza un solo sunnita. Le famiglie e gli avvocati spesso vengono a conoscenza delle esecuzioni solo dopo che sono avvenute.
Non c’è solo la prospettiva della forca. Nella prigione di Nassiriya, le guardie sottopongono regolarmente i prigionieri nel braccio della morte ad abusi fisici e psicologici. A volte li avrebbero tirati fuori dalle loro celle con il pretesto di un’esecuzione, per poi riportarli indietro. Alcuni hanno subito rappresaglie sotto forma di percosse, isolamento e negazione delle cure mediche. Altri sono tenuti in celle di detenzione senza cibo o beni di prima necessità.
Le autorità, ovviamente, si sono affrettate a smentire le notizie di esecuzioni di massa a Nassiriya, liquidando le accuse come “voci false” volte a creare caos. Gli ordini di
esecuzione, hanno assicurato, vengono implementati solo dopo una decisione giudiziaria definitiva e in conformità con i decreti presidenziali formali. Se le esecuzioni sono segrete, hanno aggiunto, è solo per il bene della sicurezza nazionale irachena.
L’Osservatorio ha ribadito l’accuratezza del suo rapporto; anzi, ha detto di avere la prova che un’altra ondata di impiccagioni ha avuto luogo il 15 ottobre, tre giorni dopo che era stata resa pubblica la notizia precedente. La pancia della balena della prigione di Nassiriya continua a ingoiare vite umane e a sputarle fuori solo da morte. L’Iraq liberato da Saddam Hussein rispecchia in pieno le sue vecchie abitudini, che sono poi le stesse del regime iraniano su cui il “nuovo Iraq” si regge: la persecuzione dei nemici politici, la pratica della tortura, e la stessa passione per la forca.
NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH
IL CARCERE, IL ‘SENSO D’UMANITÀ’ E L’ASSEMBLEA COSTITUENTE
Iacopo Benevieri*
Il 25 gennaio 1947 era un sabato mattina. Quel giorno si svolse una straordinaria discussione in seno all’Assemblea Costituente, un dibattito che sarebbe bello non dimenticare. Il dibattito fu sul contenuto di quello che sarebbe stato poi l’art. 27 della Costituzione.
Il Deputato Aldo Bozzi, del Partito Liberale, ricordò l’urgente necessità che fosse inserito in Costituzione la salvaguardia del “trattamento fisico” della persona detenuta: “il fatto stesso della pena è già qualche cosa che intacca questo patrimonio morale che è la dignità umana. Ora il concetto che si deve esprimere riguarda il trattamento fisico”.
L’Onorevole Giuseppe Maria Bettiol concordò e sottolineò che “deve restare il principio che la pena deve umanizzarsi, che la pena, particolarmente nel momento della sua esecuzione, deve essere tale da non avvilire, da non degradare l’individuo. Dobbiamo sempre tener presente che anche nel più malvagio [c’è lo spazio perché sia] riabilitato”.
Intervenne l’On. Leone, che suggerì di utilizzare le parole “pene e trattamenti”: oggetto della tutela costituzionale doveva essere il momento sanzionatorio anche nella sua dimensione dinamica, cioè nella fase esecutiva e, soprattutto, nelle prassi, nei protocolli, nell’attuarsi quotidiano della pena. Inoltre esortò a inserire nella disposizione costituzionale una espressione straordinaria, cioè la locuzione “contrari al senso di umanità” al posto di “lesivi della dignità umana”.
L’art. 27 della Costituzione contiene infatti queste parole: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.
Con questo articolo viene inserito in Costituzione un parametro mirabile perché non è giuridico, né normativo: “il senso di umanità”. Nella Costituzione italiana il “senso di umanità”, quell’idem sentire umano diventa parametro costituzionale che regola, indirizza, disciplina, orienta il “trattamento” sanzionatorio. Non si è ritenuto sufficiente fare riferimento a convenzioni internazionali, al diritto naturale, ai principi universali, si doveva richiamare qualcosa di più profondo e comune al consorzio umano, cioè il “senso” d’umanità. Così i trattamenti sanzionatori, quand’anche rispettassero leggi, regolamenti, accordi ma fossero “contrari al senso di umanità” sarebbero comunque incostituzionali.
L’attuazione dell’art. 27 della Costituzione vive o muore oggi solo se questo “senso di umanità” noi, oggi, a distanza di più di 70 anni, sappiamo vederlo, percepirlo, proteggerlo. Ecco quindi: “Assemblea Costituente” è un participio presente. È un’Assemblea Costituente perenne, quotidiana, permanente: siamo noi che continuamente costituiamo la Costituzione, richiamandoci a quella voce profonda che ci unisce nel senso di umanità.
Molti componenti dell’Assemblea Costituente e della Commissione dei 75 avevano conosciuto il carcere politico, l’esilio, il confino: Teresa Noce, Giorgio Amendola, Ivanoe Bonomi, Edoardo D’Onofrio, Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Pietro Mancini, e molti altri avevano conosciuto celle anguste, avevano subito atti di inumanità. Quel drammatico vissuto sui loro corpi detenuti fu trasferito nell’art. 27 della Costituzione.
L’On. Preziosi ricordò alla Commissione questa comune esperienza: “purtroppo molti dei presenti nell’Aula ne hanno fatto esperienza. Anche lei, onorevole Presidente, ha visto, soffrendo per la libertà del nostro Paese, come vergognoso sia il sistema carcerario vigente in Italia”.
Oggi quando regoliamo, legiferiamo, progettiamo riforme sul carcere dovremmo forse convincerci che in queste celle, dove oggi sono ristretti i corpi di detenuti ignoti, in queste celle in realtà ci sono ancora quei corpi dei nostri Padri e Madri costituenti, che conobbero la disumanità di un carcere e che chiesero a noi tutti oggi di nutrire continuamente il “senso di umanità”. Finché non libereremo l’ultima persona detenuta da queste condizioni disumane delle carceri, in quelle celle resteranno ancora confinati i corpi di Teresa Noce, di Giorgio Amendola e di molti altri. D’altronde la parola “carcere” ha un unico anagramma possibile, è “cercare”. Il contrario, dunque, di uno stop, di una fine, di un epilogo.
* Camera penale di Roma
IRAN: JAMSHID SHARMAHD GIUSTIZIATO IL 28 OTTOBRE IN UN LUOGO NON RIVELATO
Il cittadino tedesco-iraniano Jamshid Sharmahd è stato giustiziato il 28 ottobre in un luogo non rivelato, dopo che la sua sentenza è stata confermata dalla Corte Suprema iraniana, ha riportato l'agenzia di stampa governativa Mizan.
Era stato condannato a morte con l'accusa di “efsad- fil-arz (corruzione sulla terra) per aver pianificato e diretto atti terroristici” nel febbraio 2023.
Iran Human Rights condanna l'esecuzione di Jamshid Sharmahd e chiede una forte reazione della comunità internazionale alla sua esecuzione e all'ondata di esecuzioni in Iran.
Il direttore di IHR, Mahmood Amiry-Moghaddam, ha dichiarato: “L'esecuzione di Jamshid Sharmahd è un caso di uccisione extragiudiziale di un ostaggio che mira a coprire i recenti fallimenti dei sequestratori della Repubblica Islamica. Jamshid Sharmahd è stato rapito negli Emirati Arabi Uniti e trasferito illegalmente in Iran, dove è stato condannato a morte dal Tribunale rivoluzionario senza un giusto processo. L'intero processo, compreso l'arresto, la condanna e l'esecuzione, costituisce una grave violazione del diritto internazionale. La comunità internazionale deve condannare con la massima fermezza l'uccisione extragiudiziale di Jamshid Sharmahd”.
Jamshid Sharmahd era un attivista dissidente tedesco-iraniano che è stato rapito durante uno scalo a Dubai mentre si recava negli Stati Uniti, suo Paese di residenza, dall'India. Ha parlato per l'ultima volta con la moglie il 28 luglio 2020. Il 1° agosto, il Ministro dell'Intelligence e della Sicurezza Mahmoud Alavi ha annunciato alla televisione di Stato che Jamshid Sharmahd era stato arrestato “a seguito di una complessa operazione” e ha trasmesso un video in cui pronunciava il suo nome mentre era bendato con un panno nero. Le accuse sono legate all'attentato alla moschea del 2010, per il quale erano già stati giustiziati tre uomini.
Dopo oltre un anno e mezzo di detenzione preventiva, il 6 febbraio 2022 si è tenuta la prima udienza. Presieduta dal giudice Salavati, un “giudice sospeso” nella lista delle sanzioni statunitensi, la sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Teheran ha tenuto diverse udienze pubbliche con l'accusa di “efsad- fil-arz per aver pianificato e diretto atti terroristici”, tra cui l'attentato del 2010. È stato condannato a morte il 21 febbraio 2023. Dopo l'arresto, Jamshid è stato tenuto in isolamento e gli sono stati negati la rappresentanza legale, il giusto processo e il diritto a un processo equo. La conferma della sentenza da parte della Corte Suprema è stata annunciata dalle autorità il 26 aprile 2023.
L'arresto di dissidenti politici al di fuori dell'Iran non è senza precedenti. Ruhollah Zam, direttore del canale Telegram Amad News, era stato arrestato in Iraq nell'ottobre 2019 e trasportato in Iran. È stato giustiziato il 12 dicembre 2020. Anche il dissidente iraniano-svedese Habib Chaab è stato rapito in Turchia nell'ottobre 2020 e giustiziato il 6 maggio 2023.
(Fonte: IHR)
‘PETRICORE’, 6 REPLICHE A ROMA
Petricore, lo spettacolo è finito, il pubblico può lasciare la sala.
Sul palcoscenico un muro di sbarre d’acciaio che fanno da sfondo al corpo senza vita del condannato a morte giustiziato. Non riusciamo a capacitarci che sia morto. Sì, è in croce, immobile, legato mani e piedi sul lettino delle esecuzioni con gli aghi infilati nella vena mentre esala l’ultimo convulso respiro e schiuma bianca fuoriesce dalla bocca. Non sappiamo se sia davvero colpevole anzi potrebbe essere persino non colpevole. Sappiamo che gli manca la moglie e non poter sentire più l’odore della terra dopo il passaggio della pioggia. Petricore è il nome dell’odore che si sente durante e dopo la pioggia che interrompe un periodo secco. E lui è come se già sapesse che non ci sarà nessuna pioggia.
Aveva ragione Albert Camus, la pena di morte la devi vedere per dare un nome a quel nodo in gola, alla palpabile speranza che improvvisamente arrivi la telefonata per bloccare l’esecuzione e salvi il prigioniero, lo riporti in vita e con lui torniamo a riprendere fiato anche noi che pensiamo di dormire e sognare ma adesso potremmo risvegliarci e convincerci che ci siamo sbagliati. In ogni spettatore che ha seguito i 75 minuti dello spettacolo magistralmente narrato il desiderio che la condanna non sia eseguita è palpabile si capisce anche dalle risate liberatorie che irrompono durante i dialoghi dei protagonisti. I due agenti penitenziari e il loro condannato che custodiscono e materialmente saranno chiamati a giustiziare. Dialoghi che scandagliano luoghi comuni, pregiudizi, paure per quello che non riusciamo a controllare e capire o molto più semplicemente non conosciamo affatto di questi nostri tempi in cui spesso non ci rappresentano e immaginiamo, anche ingenuamente, quanto e come alla violenza e al degrado si dovrebbe rispondere ancora più duramente.
Negli Stati Uniti le statistiche dimostrano come la durezza del sistema penale non metta al riparo una popolazione di 330 milioni dalla violenza e quanto gli oltre due milioni di detenuti siano un problema per l’intero sistema sociale ed economico perché a loro volta generano sacche di povertà e violenza.
In Iran le esecuzioni capitali dall’inizio dell’anno sono arrivate a 655 persone uccise in nome della religione e delle leggi che contrastano la povertà nel paese con i cappi al collo e le pene corporali.
Petricore ci propone un ipotetico scenario italiano dove da 70 anni è stata abolita la pena capitale e la condanna a morte non potrebbe in alcun modo essere reintrodotta, perché le nostre leggi sono state scritte a prova di furori e linciaggi, di qualsiasi colore e segno, di qualsivoglia processo mediatico ( non a caso i nostri padri costituenti nell’ordinamento costituzionale inserirono con l’art.27 “ Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”.
Noi abbiamo un’altra pena di morte nascosta nel senso che non se ne parla. La pena fino alla morte ovvero l’ergastolo ostativo coloro che, nonostante il dettato costituzionale, sono condannati al fine pena mai e moriranno in carcere perché il sistema penale ha creato sotto leggi che non prevedono nessuna possibilità di accedere ai benefici dell’espiazione della pena se si è condannati per reati associativi di criminalità organizzata. Abbiamo condannati all’ergastolo che hanno scontato anche 40/50 anni di carcere a cui viene chiesta la collaborazione per poter tornare liberi. Anche se la persona del reato è diversa da quella della pena dopo una vita in carcere, la condizione non cambia. Moriranno in carcere di malattie o a fine vita.
Questo racconto teatrale è un vero e proprio percorso di riflessione e di messa in discussione di certezze granitiche. La giovane compagnia ha mostrato una capacità di creare non solo dibattito ma soprattutto di chiederci cosa avrebbe fatto ognuno di noi davanti alla scelta di obbedire al principio di una legge che chiede di dare la morte in nome dello Stato di un’ideologia di una religione o di un’etnia.
Sono delegati altri a fare il lavoro sporco ma alla fine quando agli spettatori si chiede di uscire e il corpo del condannato è immobile al centro del palcoscenico, non vi è dubbio che si è tutti coinvolti e nessuno potrà sentirsi assolto.
Al teatro Cometa OFF di Testaccio si è concluso lo spettacolo Di Licia Amendola e Simone Guarany andato in scena dal 22 al 27 ottobre. Successo di pubblico e auspichiamo che si possa replicare.
KENTUCKY (USA): LA CORTE SUPREMA DI STATO CONFERMA LA SOSPENSIONE DELLE ESECUZIONI
La Corte Suprema del Kentucky ha respinto la richiesta dell'Ufficio del Procuratore Generale del Kentucky di consentire allo Stato di riprendere le esecuzioni, secondo un parere pubblicato il 24 ottobre.
La sentenza unanime arriva dopo che l’Amministrazione Penitenziaria ha rivisto le sue regole per le procedure di iniezione letale a marzo e il Procuratore Generale Russell Coleman ha successivamente presentato una mozione per revocare l'ingiunzione del 2010 che ha bloccato le esecuzioni.
L'Ufficio del Procuratore generale ha chiesto alla Corte distrettuale di Franklin - la corte che l'aveva inizialmente emessa - di ritirare l'ingiunzione, ma la corte ha rifiutato di prendere una decisione. Pur riconoscendo che le parti della procedura per le esecuzioni che avevano originariamente portato all'ingiunzione non sono più in vigore, la Corte distrettuale ha sostenuto che non è dimostrato che la richiesta di scioglimento dell'ingiunzione sia rilevante per un “caso o una controversia attuale”.
(Fonte: Courier Journal, 24/10/2024)
I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA
PODCAST: DIALOGHI ABOLIZIONISTI
Ogni settimana un nuovo intervento di riflessione sulla prospettiva del superamento del carcere
Master in Criminologia critica e sicurezza sociale dell’Università di Padova e Bologna
Il podcast si trova sulla piattaforma SPREAKER
Per ascoltare clicca sul link sotto riportato
https://www.spreaker.com/
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