Nessuno tocchi Caino - QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO DEI PROCESSI A GUANTANAMO. SE TI DICHIARI COLPEVOLE DI 3.000 OMICIDI NON TI CONDANNO A MORTE. INTANTO, PER MOLTO MENO FINISCI NEL BRACCIO DELLA MORTE
Nessuno tocchi Caino news
NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM
Associazione Radicale Nonviolenta |
Anno 24 - n. 43 - 16-11-2024 |
LA STORIA DELLA SETTIMANA
QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO DEI PROCESSI A GUANTANAMO. SE TI DICHIARI COLPEVOLE DI 3.000 OMICIDI NON TI CONDANNO A MORTE. INTANTO, PER MOLTO MENO FINISCI NEL BRACCIO DELLA MORTE
NEWS FLASH
1. L’INSENSATA ILLUSIONE DI POTER CONSEGUIRE UN NOBILE OBIETTIVO ATTRAVERSO L’USO DELLA VIOLENZA
2. AFGHANISTAN: GIUSTIZIATO IN PUBBLICO PER OMICIDIO
3. CINA: TRE GIUSTIZIATI PER STUPRO DI RAGAZZINE
4. IRAN: IL DISSIDENTE KIANOOSH SANJARI SI È TOLTO LA VITA A TEHERAN, AVEVA CHIESTO LA LIBERAZIONE DI 4 DETENUTI POLITICI
QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO DEI PROCESSI A GUANTANAMO. SE TI DICHIARI COLPEVOLE DI 3.000 OMICIDI NON TI CONDANNO A MORTE. INTANTO, PER MOLTO MENO FINISCI NEL BRACCIO DELLA MORTE
NEWS FLASH
1. L’INSENSATA ILLUSIONE DI POTER CONSEGUIRE UN NOBILE OBIETTIVO ATTRAVERSO L’USO DELLA VIOLENZA
2. AFGHANISTAN: GIUSTIZIATO IN PUBBLICO PER OMICIDIO
3. CINA: TRE GIUSTIZIATI PER STUPRO DI RAGAZZINE
4. IRAN: IL DISSIDENTE KIANOOSH SANJARI SI È TOLTO LA VITA A TEHERAN, AVEVA CHIESTO LA LIBERAZIONE DI 4 DETENUTI POLITICI
QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO DEI PROCESSI A GUANTANAMO. SE TI DICHIARI COLPEVOLE DI 3.000 OMICIDI NON TI CONDANNO A MORTE. INTANTO, PER MOLTO MENO FINISCI NEL BRACCIO DELLA MORTE
Valerio Fioravanti
Ne avevamo scritto ad agosto: a Guantanamo i processi sono in stallo. Da un lato il tentativo di rispettare almeno alcune delle regole fondamentali dello stato di diritto, dall’altro il desiderio dei politici (che si sono alternati negli ultimi 20 anni) di portare a casa un successo propagandistico senza andare troppo per il sottile.
A fine luglio la Pubblica Accusa, dopo un anno di trattative “a porte chiuse” aveva reso noto di aver raggiunto un accordo con i 3 uomini accusati di essere i mandanti “logistici” degli attentati dell’11 Settembre: loro si sarebbero “dichiarati colpevoli”, e in cambio non sarebbero stati condannati a morte. Ovviamente la Pubblica Accusa di una corte militare è militare anch’essa, e quindi risponde “gerarchicamente” al Ministero della Difesa. Era quindi del tutto evidente che le trattative fossero state concertate con i vertici politici, la cosiddetta “amministrazione Biden”. La quale, però, troppo vicina alla campagna elettorale, non ha retto alle polemiche scatenate dai politici repubblicani, e già due giorni dopo aveva sostenuto di non aver dato il proprio placet finale all’accordo. Il ministro della difesa (che viene chiamato Segretario) Lloyd Austin l’11 settembre, nel giorno dell’anniversario, aveva formalizzato, o meglio, credeva di aver formali zzato, la revoca dell’accordo. Il 7 novembre (come previsto dagli osservatori più imparziali) il giudice militare che presiede il processo ha stabilito che l’accordo non può essere revocato, e rimane valido. E il 9 novembre, ad elezioni ormai perse, Austin ha dichiarato che la Difesa farà ricorso.
Il contrammiraglio Aaron Rugh, procuratore capo, ha inviato una lettera alle famiglie delle vittime per informarle della decisione. Tra le famiglie delle vittime, 250, coordinate da Elizabeth Miller, figlia di uno dei vigili del fuoco morti a New York durante i soccorsi, sono favorevoli all’accordo. Le altre presumibilmente no. Ma non è questo il punto, i processi non sono dei sondaggi d’opinione. La questione è più sottile: Il Dipartimento della Difesa ha il potere di nominare i giudici militari e anche la pubblica accusa militare, ma non è detto che questo dia al Segretario (ministro) il potere legale di annullare un provvedimento preso dal personale una volta che questo è stato nominato. Potrebbe eventualmente licenziarlo, ma questo non impatterebbe retroattivamente con le decisioni già prese.
Un altro aspetto si staglia sullo sfondo: la Corte Suprema degli Stati Uniti ha più volte confermato la costituzionalità della pena di morte a condizione che sia riservata ai casi “peggiori tra i peggiori”. Nell’eventualità non venissero condannati a morte i responsabili di 3.000 omicidi, diventa interessante la questione legale di come altri possano invece venir condannati a morte per reati che per forza di cose saranno molto meno gravi. Per il resto, il patteggiamento proposto a Khalid Sheikh Mohammed, Walid bin Attash e Mustafa al-Hawsawi nasce dall’estrema difficoltà per la pubblica accusa di presentare in aula prove “valide”, nel senso che contro gli imputati ci sono informazioni “riservate” ottenute da servizi segreti statunitensi e di alleati, e le poche ammissioni fatte dagli imputati sono state ottenute sotto tortura, e sia Cia che Fbi si rifiutano di fornire informazioni su chi ha condotto tali interrogatori, rendendo così impossibile quella pratica tip ica dei processi che è il “controinterrogatorio del testimone”.
Gli accordi, e il tentativo di Austin di annullarli sono solo gli ultimi episodi in un processo che da quasi venti anni non riesce a superare le fasi preliminari. Mentre alcuni sono irremovibili sul fatto che i processi debbano continuare fino alle condanne a morte, gli esperti dicono che non è chiaro se ciò potrà mai accadere. Prevedono che se questo caso arriverà mai a condanna, non “reggerà” davanti alla Corte d'Appello federale di Washington. Già, perché il Patriot Act che nel 2001 istituì le corti di Guantanamo, corti ibride segnate dalla contraddizione di voler usare dei militari per processare dei civili, nel tentativo di arginare questa contraddizione fece due “concessioni”: gli imputati potevano essere difesi da avvocati non militari, e la supervisione legale veniva affidata alla principale corte federale, quella del “Distretto di Columbia”. La Corte Federale, dicono gli esperti, probabilmente riaprirebbe molte delle questioni. A questo servirebbero le co nfessioni “patteggiate”: a ridurre di molto il contenzioso legale. Ma sta arrivando Trump, e qui la capacità di previsione di tutti gli esperti si arrende.
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L’INSENSATA ILLUSIONE DI POTER CONSEGUIRE UN NOBILE OBIETTIVO ATTRAVERSO L’USO DELLA VIOLENZA
Cesare Battisti*
Dopo una serie di incontri con Mauro Cavicchioli, responsabile delle CEC (Comunità Educanti con i Carcerati) in seno all’Associazione Giovanni XXIII, voglio manifestare la mia intenzione di rendermi utile e con questa Associazione avviare un percorso di collaborazione e reinserimento di ex reclusi affidati alla sua Casa Famiglia.
Mauro mi ha indotto a rivedere alcuni miei punti di vista riduttivi sul carcere. Mi riferisco, un esempio, alla tendenza a ricercare per ogni dissesto, anche personale, responsabilità distanti, cause universali, ripieghi che finiscono quasi sempre per servire l’immobilismo. Questo approccio mi faceva sentire impotente di fronte all’attualità del dramma in cui versa la popolazione detenuta.
Certe mie opinioni obsolete, atteggiamenti discutibili sono decaduti di fronte al convincimento che sia non solo possibile ma anche necessario riconoscere ora che “Soccorrere chi ha sbagliato è liberante per tanti ed è la via per costruire una società alternativa, nuova, giusta.”
Verrebbe da chiedersi: perché io? Quale contributo potrebbe dare un condannato all’ergastolo come me per il conforto di tante persone sofferenti? Quale il mio ruolo insieme a coloro che si impegnano ogni giorno a rimettere sulla giusta via tanti fuorviati?
Ai naturali benefici che potrei trarne, incluso il mio reinserimento nella società, si affianca un vissuto fatto sì di errori ma anche di successive correzioni che mi ha consentito di mettere insieme un bagaglio di esperienze che adesso, se potessi, vorrei mettere a disposizione di altre persone che stanno vivendo le mie stesse difficoltà.
Parlando non a caso di esperienze personali e delle successive correzioni di rotta, non posso evitare di ricordare a coloro che mi stanno leggendo che il mio trascorso impegno politico, purtroppo anche criminale, è sempre stato centrato sulla questione carceraria, con particolare interesse all’alternativa al carcere, a un diverso recupero dei devianti spesso provenienti dalle fasce sociali le meno garantite.
Ho detto anche “criminale” e con questo sto parlando di me stesso, poiché criminali erano i mezzi impiegati all’epoca e perciò anche le persone che li usavano, nell’insensata illusione di poter attingere quello che poteva essere un nobile obiettivo attraverso l’uso della violenza.
Inutile tornare sulle circostanze per cui mi sottrassi all’epoca alla giustizia italiana, ciò che qui importa è che, nel limite delle mie possibilità, durante tutto questo tempo, mi sono impegnato in opere di volontariato e quando possibile nel contesto carcerario e nella sua estensione sul territorio. Ogni volta che me ne è stata data la possibilità, ho collaborato con associazioni civili o religiose impegnate in questo senso. Se mi permetto di ricordarlo, è solo per ribadire la mia attenzione al dramma delle persone private della libertà e per la difesa e lo sviluppo di un’educazione adeguata e alla portata di tutti.
Socrate era convinto che se l’essere umano conoscesse sé stesso, saprebbe distinguere tra giusto e ingiusto. Pensava alla conoscenza di sé come conoscenza del mondo e viceversa. È l’ignoranza che ci allontana dalla giustizia e ci fa diventare violenti.
Ben oltre un passato da attivista, la mia sensibilità nei confronti della popolazione detenuta, e di quella probabilmente soggetta a divenirlo, è data innanzitutto dalla mia esperienza di detenuto. In carcere, solo standoci giorni, notti, mesi e anni, si può capire fino in fondo la forza interiore ma anche la disperazione, il bisogno immane dei detenuti di una semplice parola di conforto, di una mano che si tenda a guidarci verso la speranza. Nessuno si salva da solo e la pena non può equivalere a carcere, occorre pensare ad altre forme di esecuzione penale e oggi, finalmente, la legge ce lo permette: se il carcere non risponde alle finalità educative deve essere cambiato in profondità.
Ma è necessario che il detenuto prenda coscienza dei propri errori, solo così scorgerà la via d’uscita, capirà che non tutto è perduto e là fuori c’è chi lo sostiene; e tra questi spero di poter esserci anch’io. I detenuti hanno imparato sulla propria pelle cos’è l’indifferenza e il cinismo, spesso li hanno conosciuti prima di finire in prigione nei quartieri sensibili, nelle periferie abbandonate. Ed è proprio vivendo da vicino le estreme difficoltà delle comunità più disagiate in giro per il mondo che ho imparato a guardarmi onestamente dentro. E solo dopo ho potuto guardare in un altro modo coloro ai quali avevo preteso dare lezioni di vita.
È stato interagendo con loro che ho potuto rivedere criticamente il mio passato negativo e poi farne tesoro per trasmettere in modo convincente, specialmente ai più giovani, come la via del crimine sia la più difficile, la più dolorosa, la più ingiusta, anche per i familiari innocenti che piangono la nostra assenza. Grazie per l’ascolto.
* detenuto nella Casa di Reclusione di Massa
AFGHANISTAN: GIUSTIZIATO IN PUBBLICO PER OMICIDIO
I Talebani hanno giustiziato in pubblico un uomo accusato di omicidio nella provincia di Paktia, nell'Afghanistan orientale, il 13 novembre 2024, praticando la sesta esecuzione pubblica dal loro ritorno al potere nel Paese.
La Corte Suprema talebana ha annunciato in una dichiarazione che l'uomo, identificato come Mohammad Ayaz, è stato giustiziato in uno stadio sportivo a Gardez, capoluogo provinciale. In base alla dichiarazione, l’uomo avrebbe ucciso una persona con una pistola ed era stato condannato alla pena della retribuzione, o Qisas.
Secondo la dichiarazione, l'esecuzione è avvenuta a seguito dell'approvazione da parte della triplice corte militare talebana (primo grado, appello e Tamiz) e all'ordine finale del Leader Supremo, Hibatullah Akhundzada.
La dichiarazione ha precisato che l'esecuzione è avvenuta in presenza di alte autorità talebane, tra cui Sirajuddin Haqqani, ministro degli interni del regime, Khalilur Rahman Haqqani, ministro per i rifugiati, e una grande folla di residenti.
La sera prima dell'esecuzione, l'ufficio del governatore talebano di Paktia ha invitato le autorità e i residenti a "partecipare a questo evento" tramite i social media.
Questa è stata la sesta esecuzione pubblica praticata dai Talebani dal loro ritorno al potere in Afghanistan nell'agosto 2021. Da allora, il regime ha giustiziato pubblicamente un uomo a Farah, due a Ghazni, uno a Laghman e un altro nella provincia di Jowzan.
Nonostante le promesse iniziali di un governo più moderato, i Talebani hanno iniziato a imporre severe punizioni pubbliche, tra cui esecuzioni, fustigazioni e lapidazioni, subito dopo aver ripreso il potere. Le punizioni sono simili a quelle imposte durante il loro precedente governo in Afghanistan alla fine degli anni '90.
Negli ultimi tre anni, i Talebani hanno frustato pubblicamente centinaia di persone, tra cui donne e persone LGBTQ+, per varie accuse in tutto il Paese, con una frequenza crescente nelle ultime settimane.
(Fonte: Kabul Now, 13/11/2024)
CINA: TRE GIUSTIZIATI PER STUPRO DI RAGAZZINE
Tre uomini sono stati giustiziati in Cina il 13 novembre 2024 per aver stuprato delle ragazzine, ha reso noto la Corte Suprema del Popolo.
L'esecuzione dei tre criminali – ha detto la Corte - dimostra la tolleranza zero della Cina nei confronti degli abusi sessuali su minori e si prevede che servirà da ulteriore deterrente per i reati sessuali su minori.
Uno dei tre uomini giustiziati, un insegnante di scuola elementare di cognome Guo, era stato dichiarato colpevole di aver violentato sei alunne più di 100 volte tra il 2013 e il 2019. Tutte le vittime avevano meno di 14 anni quando sono state abusate per la prima volta da Guo.
Il secondo uomo giustiziato, un lavoratore di cognome Shang, era stato ritenuto colpevole di aver abusato sessualmente di otto ragazzine tramite l'uso dell’inganno o con la forza, tra il 2011 e il 2020. Aveva avvicinato le sue vittime in vari luoghi pubblici, tra cui parchi, autobus e all’ingresso di asili. Era stato anche ritenuto colpevole di aver costretto diverse delle sue vittime a continuare relazioni sessuali, minacciando di divulgare immagini indecenti di loro, si legge nella dichiarazione.
Il terzo uomo giustiziato, un negoziante di cognome Gong, era stato ritenuto colpevole di aver costretto una bambina del suo villaggio ad atti sessuali per quasi cinque anni consecutivi, a partire dal 2015, quando la vittima aveva meno di 12 anni. Nel 2020, dopo molteplici casi di abusi sessuali da parte di Gong e altri criminali, la vittima si è tolta la vita all'età di 16 anni, secondo la dichiarazione.
La Corte Suprema cinese ha sottolineato che i Tribunali del Popolo emetteranno con fermezza sentenze per i crimini di abuso sessuale su minori che meritano la pena di morte. Ha osservato che la maggior parte degli autori di abusi sessuali su minori sono familiari, insegnanti o vicini di casa delle vittime, o che hanno incontrato le loro vittime online. Gli autori di reati sessuali su minori spesso prendono di mira i minori con una scarsa capacità di proteggersi e una inadeguata supervisione familiare, in particolare i bambini di zone rurali i cui genitori si sono allontanati per lavoro e i bambini con disabilità intellettive. Secondo il diritto penale cinese, chiunque abbia rapporti sessuali con una persona di età inferiore ai 14 anni sarà ritenuto colpevole di stupro e riceverà una punizione più severa.
(Fonte: Xinhua, 13/11/2024)
IRAN: IL DISSIDENTE KIANOOSH SANJARI SI È TOLTO LA VITA A TEHERAN, AVEVA CHIESTO LA LIBERAZIONE DI 4 DETENUTI POLITICI
Il giornalista e attivista iraniano Kianoosh Sanjari si è tolto la vita a Teheran il 13 novembre, dopo aver promesso il giorno precedente che si sarebbe ucciso se quattro prigionieri politici da lui nominati non fossero stati rilasciati.
La morte di Sanjari ha attirato l'attenzione sulla condizione dei detenuti e sul peggioramento della situazione dei diritti umani nel Paese.
Nelle prime ore del 13 novembre, Sanjari ha pubblicato un ultimatum su X, chiedendo il rilascio di quattro prigionieri politici: Fatemeh Sepehri, Nasrin Shakarami, Toomaj Salehi e Arsham Rezaei.
“Se entro le 19 di oggi... il loro rilascio non sarà annunciato sul sito web della magistratura, porrò fine alla mia vita per protestare contro la dittatura di Khamenei e i suoi complici”, ha scritto.
Una volta scaduto il termine, Sanjari ha condiviso un'immagine di sé in cima a un ponte di Teheran, con la didascalia: “Sono le 19:00 ponte Hafez”.
Ore dopo, la sua morte è stata confermata da fonti iraniane, tra cui l'attivista Hossein Ronaghi, che ha scritto su X: “Abbiamo fatto tutto il possibile, da ieri sera e oggi, ma Kianoosh è morto”.
Sanjari era un critico dichiarato dei governanti clericali iraniani e un sostenitore della democrazia e dei diritti umani. Tra il 1999 e il 2007 è stato ripetutamente arrestato e imprigionato dalle autorità iraniane per il suo attivismo.
Durante il periodo trascorso dietro le sbarre, Sanjari ha subito l'isolamento e ciò che ha descritto come tortura bianca, o abuso psicologico attraverso la privazione dei sensi che ha lasciato profonde cicatrici emotive.
Sanjari era fuggito dall'Iran nel 2007, ricevendo asilo in Norvegia con l'assistenza di Amnesty International.
All'estero ha collaborato con il gruppo per i diritti Abdorrahman Boroumand Foundation e con l'Iran Human Rights Documentation Center e successivamente è stato giornalista per Voice of America a Washington DC.
Tuttavia, il suo impegno per la famiglia lo ha riportato in Iran nel 2016, dove è stato rapidamente arrestato e condannato a 11 anni di carcere con accuse di natura politica.
Durante la sua detenzione, Sanjari è stato sottoposto a ripetuti abusi, tra cui il ricovero forzato in strutture psichiatriche e trattamenti di elettroshock. Una volta ha raccontato: “Di notte l'infermiera mi iniettava qualcosa che mi bloccava la mascella... Quando mi sono svegliato, le mie mani e i miei piedi erano incatenati al letto”.
La morte di Sanjari arriva nel contesto delle continue campagne delle autorità iraniane per soffocare il dissenso. Dalle proteste di Donne, Vita, Libertà, accese dalla morte di Mahsa Amini nel settembre 2022, l'Iran ha giustiziato almeno nove manifestanti coinvolti nei disordini e condannato a morte altre decine di persone.
Le persone che Sanjari ha sostenuto nel suo messaggio finale sono dissidenti chiave in Iran.
Fatemeh Sepehri, prigioniera politica e critica della Repubblica islamica, è stata imprigionata nonostante la sua malattia cardiaca. Nasrin Shakarami, madre della manifestante uccisa Nika Shakarami, è stata recentemente arrestata senza accuse precise. Toomaj Salehi, un rapper noto per le sue canzoni di protesta, ha ricevuto la pena di morte prima che la sentenza fosse commutata in carcere. Arsham Rezaei, un altro attivista politico, rimane detenuto nel carcere di Evin.
La morte di Sanjari fa eco al suicidio di Mohammad Moradi, 38 anni, a Lione, in Francia, che si è annegato nel dicembre 2022 per attirare l'attenzione internazionale sulla repressione dei diritti umani in Iran. Prima di morire, Moradi aveva registrato un video in cui chiedeva un sostegno globale: “Vogliamo cambiare il nostro Paese in un Paese democratico con pari diritti per donne e uomini”.
Le organizzazioni per i diritti umani criticano da tempo il sistema giudiziario iraniano per la sua mancanza di trasparenza e per il ricorso a confessioni forzate.
A livello nazionale, la strategia della Repubblica islamica di mettere a tacere il dissenso attraverso intimidazioni e pene severe ha alimentato la rabbia e la resistenza.
Le ultime parole di Sanjari sono state un rimprovero agli iraniani e alla comunità internazionale: “Forse sarà un campanello d'allarme! Viva l'Iran”.
(Fonte: Iranintl)
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