NESSUNO TOCCHI CAINO - LO ZIMBABWE ABOLISCE LA PENA DI MORTE E SCONFIGGE L’ULTIMO RETAGGIO DEL SUO PASSATO COLONIALE

 

NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM

Associazione Radicale Nonviolenta
Transnazionale Transpartitica

Anno 25 - n. 2 - 11-01-2025

LA STORIA DELLA SETTIMANA

LO ZIMBABWE ABOLISCE LA PENA DI MORTE E SCONFIGGE L’ULTIMO RETAGGIO DEL SUO PASSATO COLONIALE

NEWS FLASH

1. NELLA GRANDE UMANITÀ DEGLI OPERATORI, LA DISUMANITÀ DEL CARCERE QUOTIDIANAMENTE VISSUTA COME NORMALITÀ
2. IRAN: 34 DONNE GIUSTIZIATE NEL 2024
3. RDC: IN PROGRAMMA 170 ESECUZIONI
4. USA: CONFERMATA IN APPELLO LA VALIDITÀ DEGLI ACCORDI CON GLI IMPUTATI DELL'11 SETTEMBRE




LO ZIMBABWE ABOLISCE LA PENA DI MORTE E SCONFIGGE L’ULTIMO RETAGGIO DEL SUO PASSATO COLONIALE
Sergio D’Elia

Ancora una volta la buona novella giunge dalla terra dove l’antica vicenda di Caino e Abele ha conosciuto nei tempi più recenti momenti di terribilità sia nei delitti sia nelle pene. E giunge alla fine dell’anno, nel giorno di San Silvestro, il papa che secondo un’antica leggenda salvò Roma da un terribile drago che sul Palatino mangiava i cristiani. Silvestro gli serrò la gola con un filo di lana e il mostro smise di mordere.
La bella notizia è che il Presidente dello Zimbabwe Emmerson Mnangagwa ha firmato la legge che elimina per sempre la pena di morte e salva i 63 prigionieri in attesa di finire nelle fauci del drago assassino. Un atto salvifico che segna anche simbolicamente la parabola felice di una vita.
Durante la guerra degli anni ‘60 contro il dominio coloniale, Mnangagwa fu arrestato, torturato e condannato a morte per aver fatto esplodere un treno. Insieme a lui furono arrestati e poi impiccati alcuni suoi compagni di lotta. Per un cavillo giuridico la sua sentenza capitale fu invece commutata in dieci anni di reclusione. Li ha scontati tutti in varie prigioni del Paese dove ha continuato i suoi studi per corrispondenza. Dopo il rilascio, è stato deportato in Zambia dove ha completato la sua laurea in giurisprudenza.
Alla fine del 2017, il Presidente Robert Mugabe è stato deposto dopo 37 anni al governo dello Zimbabwe e sostituito proprio da Emmerson Mnangagwa. Il cambio è stato significativo anche per la politica sulla pena di morte. Verso la fine del suo mandato, Mugabe aveva intenzione di riprendere le esecuzioni. Annunci erano stati fatti per reclutare un boia, visto che il ruolo era rimasto vacante dal giorno dell’ultima esecuzione, il 22 luglio 2005, quando una donna, Mandlenkosi “Never” Masina Mandha, è stata impiccata dopo essere stata condannata per omicidio.
Mnangagwa, viceversa, è stato chiaro nella sua opposizione all’uso della forca. Lo aveva ribadito anche a noi di Nessuno tocchi Caino quando lo abbiamo incontrato nel corso di una missione volta a portare lo Zimbabwe a votare a favore della Risoluzione ONU sulla moratoria delle esecuzioni capitali.
“La pena di morte è la negazione ultima dei diritti umani e un omicidio a sangue freddo e aberrante di un essere umano da parte dello Stato in nome della giustizia,” ha detto.
Da ministro della giustizia Mnangagwa non aveva firmato nessun decreto di esecuzione. Da presidente della repubblica ha graziato decine di condannati a morte.
L’ultima volta lo ha fatto il 18 aprile scorso, quando lo Zimbabwe ha celebrato 44 anni di indipendenza dal governo della minoranza bianca, terminato nel 1980 dopo una sanguinosa guerra nella boscaglia. Il nome del paese è stato cambiato da Rhodesia in Zimbabwe. Il presidente Mnangagwa lo ha festeggiato con una amnistia, la seconda in meno di un anno.
Detenuti originariamente condannati a morte e che hanno avuto la loro condanna commutata in ergastolo in precedenti atti di clemenza e che sono stati in prigione per almeno 20 anni, sono stati liberati. Tutte le prigioniere che avevano scontato almeno un terzo della loro pena, sono state liberate. Tutti i detenuti minorenni che hanno scontato lo stesso periodo di pena, sono stati liberati. Tutti quelli di età pari o superiore a 60 anni che hanno scontato un decimo della loro pena, sono stati liberati. Mnangagwa ha anche graziato i ciechi e gli altri disabili che hanno scontato un terzo della loro pena.
Culturalmente e storicamente, prima dell’era coloniale, non esisteva nel Paese l’usanza di uccidere qualcuno perché aveva ucciso qualcuno. La pena di morte fu introdotta dagli inglesi negli anni ‘80 dell’Ottocento, prima da Cecil Rhodes e dalla British South Africa Company e poi confermata nel 1923 dalla colonia britannica autonoma. Prima di allora le persone non venivano generalmente condannate a morte. La risposta ai crimini più gravi si ispirava alla cultura tradizionale Ubuntu, una parola che si riferisce a un modo di pensare, di sentire e di agire molto intensi e che può essere tradotta come “umanità attraverso gli altri” o “benevolenza verso il prossimo”.
Finalmente, la cultura tradizionale Ubuntu, che si concentra sulla pace e la riparazione, ha sconfitto la pratica della violenza e della forca esportata dall’Europa un secolo e mezzo fa. Con l’abolizione della pena di morte lo Zimbabwe cancella l’ultimo retaggio del suo passato coloniale, e può dire di essersi davvero liberato della Rhodesia, “quella terra di pirateria e di saccheggio” come la definì Mark Twain, che dal suo primo padrone, Cecil Rhodes, aveva tratto il nome.



NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

NELLA GRANDE UMANITÀ DEGLI OPERATORI, LA DISUMANITÀ DEL CARCERE QUOTIDIANAMENTE VISSUTA COME NORMALITÀ
Cesare Burdese

Prossimo il 2025, insieme a Nessuno tocchi Caino, ho visitato il carcere di Bergamo, limitatamente alla zona colloqui, alla sezione isolamento e alla sezione ex articolo 32 maschili. La condizione detentiva turba, al punto che qualcuno in visita ha pianto.
Ne illustrerò un aspetto che è anche quello del carcere in generale: nella grande umanità degli operatori, la strutturale disumanità dei luoghi quotidianamente vissuta come normalità.
Quel carcere, in funzione e immutato dal 1978, causa terrorismo e nuova criminalità organizzata, fu progettato per garantire la massima sicurezza; monolitico, monotono, fortemente frazionato e compartimentato, privo di verde, presenta soluzioni architettoniche che mortificano i bisogni e invalidano i sensi.
Le presenze, doppie rispetto i 319 posti disponibili, annullano la dignità e pregiudicano le attività trattamentali.
In gruppo, sono entrato nell’area detentiva da un nudo locale, dove giocattoli gettati a terra alla rinfusa mi hanno procurato sconforto e desolazione. Diretti alla zona colloqui ci siamo imbattuti in personaggi dei cartoni animati dipinti su un muro esterno della palestra, che ho visto come un pietoso ma ingannevole tentativo di abbellire il carcere per i bambini casuali visitatori. Giunti alla sala colloqui, dopo aver camminato allo scoperto, stretti tra l’alto muro di cinta e il fronte di anonimi edifici, siamo entrati in un atrio, completamente privo di arredi e illuminato artificialmente; lì mi hanno colpito le scure porte metalliche di accesso. Le sale hanno tavolini e sedie dozzinali, le finestre sono protette da inferriate che pregiudicano le visuali e costringono a tenere accesa la luce anche di giorno, le pareti sono disadorne. La loro configurazione e la prescrizione normativa dell’obbligo del controllo visivo da parte degli agenti, nonostante da quasi un anno una s entenza della Corte Costituzionale l’abbia ritenuto illegittimo, precludono privacy e intimità durante i colloqui. Gli agenti di guardia permangono isolati in appositi stalli vetrati prospicienti le sale che, rumorose e claustrofobiche, non dispongono di aree esterne. Uno spazio per i colloqui all’aperto esiste, utilizzabile solo su prenotazione e in alternativa allo stare al chiuso.
Torno con la memoria alle indicazioni della commissione ministeriale, della quale ho fatto parte nel 2013, per migliorare le sale d’attesa e dei colloqui, con attenzione alla presenza di bambini piccoli, a oggi in gran parte disattese.
Percorrendo un lungo corridoio claustrofobico raggiungiamo la rotonda delle sezioni detentive maschili, illuminata artificialmente e dominata dall’ingombrante bancone circolare in muratura degli agenti che presidiano le sezioni circostanti. Un luogo dove non si intravede una particolare attenzione per il benessere psico-fisico dei lavoratori, come richiesto dalla norma nei luoghi di lavoro.
La “sezione isolamento” consiste in un lungo corridoio illuminato con luce artificiale, sul quale contrapposte si affacciano una cinquantina di misere celle, martoriate e fatiscenti. Esse, dove la coabitazione è problematica per le loro ridotte dimensioni e la privacy è una chimera, non godono di sufficiente luce naturale per via della inferriata e della rete metallica sulla finestra e sono sprovviste di arredi adeguati. Il servizio igienico privo di doccia, dove la funzionalità impiantistica è precaria, funge anche da cucina. Le celle rimangono aperte almeno otto ore al giorno, consentendo ai detenuti di deambulare nel corridoio di sezione e di riunirsi in una saletta squallida, carente nell’arredo e male illuminata, definita pomposamente saletta della socialità.
I detenuti possono permanere all’aperto poche ore al giorno, in angusti e decrepiti cortiletti cubicolari, senza servizio igienico, cementati e sovrastati da inferiate che evocano un canile; la sporcizia domina ovunque. La presenza di persone detenute con forte disagio mentale, determina eventi critici, come è successo durante la visita, esasperando le condizioni abitative descritte.
La sezione ex articolo 32 ospita coloro che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele ma anche, causa il sovraffollamento, detenuti che non dovrebbero esserci. Stipati all’inverosimile nelle celle, i detenuti vi rimangono rinchiusi per 20 ore consecutive, potendo usufruire di 4 ore giornaliere per permanere all’aperto in cortili totalmente cementati. Complessivamente la configurazione architettonica della sezione è analoga a quella della precedente e le criticità funzionali sono le stesse.
Al termine della visita, uscendo dal carcere abbiamo incrociato un gruppo di parenti che con i loro bambini andavano ai colloqui. Di fronte a quei bambini, mi sono sentito in difficoltà, ancora scosso dalla disumanità che i protagonisti vivono come normalità.



IRAN: 34 DONNE GIUSTIZIATE NEL 2024
Delle 997 persone giustiziate in Iran nel 2024, 34 erano donne. In nessun altro Paese viene giustiziato nemmeno un decimo di questo numero di donne.
Secondo i dati compilati dal Comitato delle donne del Consiglio nazionale della resistenza iraniana, dal 2007 in Iran sono state giustiziate almeno 263 donne.
Le 34 donne giustiziate nell’anno appena terminato segnano un forte aumento rispetto alla “media” annuale. Da quando Ebrahim Raisi è entrato in carica nel 2021, il numero di esecuzioni, comprese quelle di donne, è aumentato costantemente. Dopo la morte di Raisi, avvenuta il 19 maggio 2023, e l'ascesa di Masoud Pezeshkian nell'agosto 2023, questa tendenza all'aumento si è ulteriormente accelerata.
Durante il mandato di Pezeshkian, sono state giustiziate in media 4,6 donne al mese. L'8 ottobre 2024, Pezeshkian ha apertamente difeso le esecuzioni.
Secondo i documenti divulgati dal Consiglio Nazionale della Resistenza iraniana, oltre 5.000 prigionieri in Iran sono attualmente nel braccio della morte.
La magistratura del regime ha condannato a morte nove prigionieri politici con l'accusa di “appartenenza all'Organizzazione Mojahedin del Popolo dell'Iran”.
Dal febbraio 2024, i prigionieri politici del carcere di Ghezel-Hesar a Karaj hanno lanciato una campagna chiamata “No alle esecuzioni del martedì” per protestare contro il crescente numero di esecuzioni in Iran. “Per far sentire la nostra voce, faremo uno sciopero della fame ogni martedì. Abbiamo scelto il martedì perché spesso è l'ultimo giorno di vita per i nostri compagni di detenzione che vengono trasferiti in isolamento nei giorni precedenti”.
Attraverso la campagna “No alle esecuzioni del martedì”, questi prigionieri hanno cercato di attirare una maggiore attenzione nazionale e internazionale sulla grave violazione del diritto alla vita e sulle diffuse esecuzioni in Iran.
Sono in sciopero della fame da 48 settimane e 28 prigioni hanno aderito al movimento. I reparti femminili del carcere di Evin e del carcere di Lakan a Rasht hanno svolto un ruolo di primo piano in questa campagna. Donne e uomini coraggiosi cantano in solidarietà: “Uniti, determinati fino all'abolizione della pena di morte. Resisteremo fino alla fine”.
Il 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani, è stato annunciato che oltre 3.000 ex leader mondiali, capi di Stato, ministri, ambasciatori, parlamentari di vari Paesi, funzionari delle Nazioni Unite, esperti di diritti umani, premi Nobel e ONG hanno firmato una dichiarazione che chiede la fine delle esecuzioni in Iran. Questo annuncio ha coinciso con la 46esima settimana della campagna “No alle esecuzioni il martedì”.
Inoltre, 581 sindaci francesi hanno espresso profonda preoccupazione per l'allarmante aumento delle esecuzioni durante il mandato di Masoud Pezeshkian, un tasso significativamente più alto rispetto agli anni precedenti, e hanno chiesto l'immediata sospensione delle esecuzioni in Iran.
Per 46 anni, il regime iraniano ha sostenuto la propria esistenza attraverso la distruzione sistematica dei diritti umani, utilizzando esecuzioni e massacri come strumenti di repressione.
La comunità internazionale deve isolare il regime clericale e ritenere i suoi leader responsabili di 46 anni di crimini contro l'umanità, genocidio e crimini di guerra.
La Resistenza iraniana chiede che le relazioni diplomatiche e commerciali con il regime siano condizionate alla cessazione delle esecuzioni e delle torture e alla fine dell'impunità per i leader del regime.
Il regime deve permettere a una delegazione investigativa internazionale di visitare le carceri iraniane e di incontrare i prigionieri, in particolare quelli politici.
(Fonte: WNCRI)



RDC: IN PROGRAMMA 170 ESECUZIONI
Oltre 170 detenuti nel braccio della morte sono stati trasferiti da Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, a una prigione di massima sicurezza nel nord del Paese, dove saranno giustiziati, hanno dichiarato le autorità congolesi.
Settanta dei condannati sono stati trasportati il 5 gennaio, ha affermato il ministro della Giustizia congolese Constant Mutamba, aggiungendosi agli altri 102 prigionieri che sono già stati inviati alla prigione di Angenga nella provincia settentrionale di Mongala.
Gli uomini sono stati condannati per rapina a mano armata e sono conosciuti localmente come "Kulunas" o "banditi urbani". Hanno un'età compresa tra i 18 e i 35 anni, ha affermato Mutamba. Non ha detto quando avranno luogo le esecuzioni.
Alcuni hanno accolto con favore la misura come mezzo per ripristinare l'ordine e la sicurezza nelle città, mentre altri sono preoccupati per i rischi di abusi e violazioni dei diritti umani.
"Accogliamo con favore questa decisione del ministro perché aiuterà a porre fine alla criminalità urbana. Dalle 20:00 in poi, non puoi muoverti liberamente perché hai paura di imbatterti in un Kuluna", ha affermato Fiston Kakule, un residente della città orientale di Goma.
Espoir Muhinuka, un attivista per i diritti umani, ha messo in guardia dalla possibilità di esecuzioni extragiudiziali e ha chiesto un rigoroso rispetto delle procedure giudiziarie e delle garanzie fondamentali. Teme che la pressione politica possa portare a condanne ingiuste ed esecuzioni arbitrarie.
“Il presidente Félix Tshisekedi deve immediatamente e pubblicamente fermare ogni piano in atto per mettere a morte queste persone, sia nella prigione di Angenga che altrove. Inoltre, il parlamento dovrebbe approvare una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell’abolizione completa della pena di morte”, ha dichiarato Sarah Jackson, vicedirettrice di Amnesty International per l’Africa orientale e del sud.
Sempre nella Repubblica Democratica del Congo, un tribunale militare il 31 dicembre 2024 ha condannato a morte 13 soldati con accuse di omicidio, saccheggio e codardia, in quello che le autorità militari affermano essere un tentativo di migliorare la disciplina dell'esercito dopo le perdite territoriali dovute alla fuga di soldati.
I soldati sono stati condannati nella città di Lubero, nella provincia orientale del Nord Kivu della Repubblica Democratica del Congo, dove le forze congolesi combattono da quasi tre anni il gruppo armato M23, sostenuto dal Ruanda, oltre ad altre milizie.
I combattimenti sono divampati nel territorio di Lubero e i casi di soldati che hanno abbandonato le loro posizioni hanno aiutato il nemico ad avanzare, ha affermato il portavoce locale dell'esercito Mak Hazukay.
"Alcuni dei soldati che dovevano combattere il nemico al fronte hanno mostrato una sorta di indisciplina", ha affermato. "Abbiamo dovuto organizzare questo processo educativo per sistemare le cose".
In totale, 24 soldati sono stati processati. Oltre ai 13 condannati a morte, quattro imputati hanno ricevuto condanne da 2 a 10 anni di carcere, sei sono stati assolti e il caso di uno è stato rinviato per ulteriori indagini.
Le udienze avevano lo scopo di "aiutare a ripristinare la fiducia tra l'esercito e la popolazione", ha detto a Reuters il procuratore militare Kabala Kabundi.
Tutti i condannati si sono dichiarati non colpevoli e hanno cinque giorni per presentare appello, ha aggiunto Kabundi.
(Fonti: AP, 06/01/2025; Reuters, 01/01/2025)



USA: CONFERMATA IN APPELLO LA VALIDITÀ DEGLI ACCORDI CON GLI IMPUTATI DELL'11 SETTEMBRE
Una Corte d’appello militare il 30 dicembre 2024 ha deciso che gli imputati dell'11 settembre possono patteggiare per evitare la condanna a morte.
La Corte ha così confermato la sentenza di un tribunale di grado inferiore che aveva respinto il tentativo del Segretario alla Difesa Lloyd Austin di annullare i patteggiamenti di tre uomini accusati degli attacchi terroristici dell'11 settembre.
La sentenza confermata è quella emessa dal giudice colonnello Matthew N. McCall nel novembre 2024, secondo cui i patteggiamenti raggiunti nel luglio 2024 sono validi. Il colonnello McCall aveva dichiarato all'epoca che avrebbe proceduto con le udienze di patteggiamento.
La Corte, composta da tre membri, ha scritto che “concorda con il giudice militare che il Segretario non aveva l'autorità di revocare gli accordi preliminari esistenti, poiché questi ultimi avevano iniziato ad eseguire gli accordi stessi”.
Questa sentenza consente ai patteggiamenti di andare avanti e a Khalid Sheikh Mohammed, Walid bin Attash e Mustafa al-Hawsawi di dichiararsi colpevoli del loro coinvolgimento negli attentati, ed evitare la pena di morte.
L'udienza per il patteggiamento, inizialmente prevista per il 6 gennaio, è stata rinviata al 10 gennaio, anche se i procuratori potrebbero chiedere ulteriore tempo per conferire con gli avvocati del Dipartimento di Giustizia sull'eventuale possibilità di impugnare l'accordo di patteggiamento in una corte d'appello federale, che nel caso dei processi a Guantanamo è quella di Washington D.C..
I legali di Mohammed e dei suoi coimputati avevano precedentemente raggiunto un accordo con i procuratori militari dopo quasi due anni di trattative e avevano annunciato pubblicamente il loro accordo nel luglio 2024. Pochi giorni dopo l'annuncio, il Segretario Austin ha revocato sia gli accordi che l'autorità del generale di brigata in pensione Susan Escallier, che ricopriva il ruolo di supervisore delle “commissioni militari”, ossia quelle strutture giuridiche, simili ad una corte marziale ma con alcune caratteristiche anche di una corte federale.
Il Segretario Austin aveva citato la gravità degli attentati dell'11 settembre e aveva affermato che, in quanto Segretario della Difesa, era lui l'unico a dover decidere su eventuali accordi di patteggiamento che eviterebbero ai tre uomini di affrontare un processo capitale. Ovviamente, hanno notato alcuni osservatori, Austin sapeva benissimo che delle trattative erano in corso, ed è intervenuto a seguito di forti polemiche sollevate dai media vicini a Trump quando la campagna elettorale era nelle fasi cruciali.
Nel 2008, Mohammed, bin Attash e al-Hawsawi, oltre ad altre due persone, sono stati accusati di essere coinvolti negli attacchi dell'11 settembre.
Le accuse sono state poi ritirate nel 2010, quando l'amministrazione Obama ha cercato di tenere i processi a New York. La giustizia militare ha ripresentato le accuse contro tutti e cinque gli uomini nel 2011, dopo che l'amministrazione Obama non è riuscita a chiudere il centro di detenzione di Guantánamo Bay e a trasferire i casi in “normali” tribunali sul territorio degli Stati Uniti.
Il processo militare per Mohammed e i suoi coimputati è stato ritardato per molti anni per il contenzioso sul fatto che gli imputati sono stati torturati mentre erano sotto la custodia della CIA. Gli avvocati della difesa hanno sostenuto che le prove ottenute da questi interrogatori non dovrebbero essere ammesse al processo.
I giudici militari hanno dato ragione alla difesa, anche perché, oltre alla questione “morale”, la pubblica accusa non vuole che coloro che hanno condotto gli interrogatori vengano chiamati a testimoniare in aula, e quindi identificati pubblicamente. Il processo a Mohammed e ai suoi coimputati era previsto per gennaio 2021, ma le dimissioni di due dei giudici incaricati di presiederli, e la pandemia COVID-19 hanno ritardato nuovamente la data del processo.
(Fonte: DPIC, 30/12/2024)



I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA




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