NESSUNO TOCCHI CAINO - QUANDO CAINO PUÒ SALVARSI: PROSPETTIVE DELL’ABOLIZIONISMO ISLAMICO


 

NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM

Associazione Radicale Nonviolenta
Transnazionale Transpartitica

Anno 25 - n. 32 - 13-09-2025

LA STORIA DELLA SETTIMANA

QUANDO CAINO PUÒ SALVARSI: PROSPETTIVE DELL’ABOLIZIONISMO ISLAMICO

NEWS FLASH

1. NOI, DETENUTI, CHE OGNI GIORNO TRASFORMIAMO L’OSTACOLO IN LOTTA, LA PENA IN PENSIERO, IL DOLORE IN DIGNITÀ
2. KUWAIT: SETTE PRIGIONIERI GIUSTIZIATI, UNO SALVO GRAZIE AL PERDONO DEI FAMILIARI DELLA VITTIMA
3. AFGHANISTAN: TALEBANI SPARANO A UN CONDANNATO POI IMPICCANO IL CORPO IN PUBBLICO
4. IRAN: SUPERATE LE 1000 ESECUZIONI DA INIZIO 2025




QUANDO CAINO PUÒ SALVARSI: PROSPETTIVE DELL’ABOLIZIONISMO ISLAMICO
Domenico Bilotti

Dopo quattordici anni la preghiera della cristiana keniota Dorothy Kweyu ha realizzato il più laico dei “miracoli”: il figlio Stephen Munyakho non è più nel braccio dei condannati a morte. L’uomo avrebbe ucciso con un’arma da taglio il collega di lavoro Makrad Saleh per una questione d’affari. La famiglia aveva suggerito l’ipotesi della legittima difesa, ma potevano sussistere gli estremi per un “omicidio nonostante (oltre) l’intenzione”, commesso, cioè, senza volere cagionare l’evento fatale. La famiglia dell’ucciso, invece, aveva perorato l’istituto della rivalsa (“occhio per occhio, dente per dente”), con esecuzione dell’assassino – e tale istituto era stato riconosciuto in appello, nonostante la più mite condanna in primo grado per omicidio colposo. Il procedimento si è oggi concluso con l’ordine di liberazione di Stephen dalla prigione saudita dove attendeva la sentenza. Il tribunale gli ha potuto commutare la pena dopo che la sua famiglia , per compensare la perdita, ha corrisposto a quella della vittima il diyat, il “prezzo del sangue”. Una bella notizia, perché apre uno scenario controtendenziale rispetto al macabro consolidamento delle pene capitali. L’invocata esecuzione per decapitazione è, del resto, una delle forme di comminatoria più umilianti per i familiari del condannato, vista l’idea sacrale e affettiva dell’integrità della salma, particolarmente avvertita, non uniche, dalle minoranze cristiane.
Le contraddizioni sollevate dagli orientamenti estensivi non sono comunque poche. Si fa notare che la restituzione patrimoniale rispetto all’omicidio di una donna, estintiva della condanna a morte, costa al presunto assassino circa la metà di quanto dovuto per una vittima di sesso maschile. Il rischio è poi che le corti territoriali applichino criteri monetari elevati, così da rendere l’estinzione per contrappasso patrimoniale un privilegio per i soli (pochissimi) che possono permetterselo. Sia il Corano sia i detti del Profeta utilizzano termini tipici di un’organizzazione economica legata a esigenze pratiche e criteri di misurazione non sovrapponibili all’attuale configurazione dei rapporti civili: merci, oggetti o bestiame (“cento cammelli” dice il sacro testo) dell’economia carovaniera. E tuttavia quelle scritture indicano un senso di equità, equilibrio, incontro indulgente tra il contenimento del desiderio vendicativo e la prestazione di una tutela adeguata, ol tre che auspicabilmente monitoria e pedagogica.
Il giurista egiziano al-Qastallani fu tra i più zelanti custodi della tradizione, e proprio per questo il suo pensiero, riguardato oggi, appare più inclusivistico che fondamentalista. Appassionato di misticismo, metteva in guardia dagli eccessi esoterici. Convinto della necessità che una comunità ben ordinata dovesse avere istituti di riparazione patrimoniale, riteneva però che il risarcimento concretizzasse un vincolo di proporzionalità rispetto alla condotta e al danno, oltre che alle effettive possibilità dell’agente. Siamo abituati a pensare al mondo arabo in termini essenzialmente teocratici, ma quel sistema ha una cultura evolutiva superiore al recente accentramento politico-giuridico delle sue istituzioni.
In tempi molto più vicini, ‘A’id al-Qarni ha lavorato sulla corretta interpretazione del lemma jihad. Coi detenuti delle organizzazioni miliziane ha rivendicato il significato interiore e spirituale dello sforzo individuale per la redenzione e la conversione. Ne ha derivato una influente teoria penalistica, pur raramente accolta dai legislatori, per cui la differenza religiosa non dovrebbe essere regolamentata dalle leggi in materia criminale, bensì rimessa a consuetudini basate sul consenso e sulle relazioni orizzontali. Il suo pensiero, di formazione saudita,
diviene giovevole per le minoranze islamiche e cristiane, alle prese con vessazioni istituzionali (in tema di diritto matrimoniale, contratto, cittadinanza, proprietà) e ostracismi di natura etnico-sociale.
L’ordinamento saudita è privo di parlamento, sicché tali minoranze hanno difficoltà a trovare un canale di rappresentanza nella sfera politica. L’abbandono del boia e la riforma giudiziaria, tuttavia, non sono impossibili. L’Arabia Saudita non vincola il giudice nemmeno al precedente giudiziale e per la sua posizione conta consistenti migrazioni di comunità (ad esempio, i cristiani filippini e gli hindù provenienti non solo dall’India). Casi come quello che abbiamo esposto lasciano prevedere sviluppi. Una nuova generazione di giudici e norme potrebbe riavvicinare alla letteratura coranica abolizionista e al superamento dei poteri straordinari in materia di polizia. Le consuetudini del boia non sono né diritto naturale né diritto codificato. Per la logica giuridica e i diritti di tutti, voltare pagina sarebbe finalmente non “amal” (speranza incondizionata) o “radshà” (accoglimento di una supplica), ma “fursa” (occasione fiduciosa, proficua opportunità).



NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

NOI, DETENUTI, CHE OGNI GIORNO TRASFORMIAMO L’OSTACOLO IN LOTTA, LA PENA IN PENSIERO, IL DOLORE IN DIGNITÀ
Fabio Falbo, Lo Scrivano di Rebibbia

Quando ho letto il Diario di Cella n. 17 scritto da Gianni Alemanno, ho provato una commozione profonda. Non perché mi abbia raccontato, ma perché l’ha fatto con verità, con rispetto, con coraggio, in un sistema che spesso ci riduce a numeri, a etichette, a reati. Gianni ha scelto di raccontare l’uomo, la storia, il cammino, e l’ha fatto dopo aver conosciuto mia moglie Maria, i miei figli Francesco, Denise, Marco Aurelio, mia sorella Isabella e sentito parlare di mio padre Francesco, che a 92 anni continua a vivere con un solo desiderio: rivedermi libero. Li ha incontrati nell’area verde di Rebibbia, durante i colloqui, ha guardato negli occhi la mia famiglia, quella che ha resistito con me in tutti questi anni, fuori dalle mura, giorno dopo giorno.
Nel suo diario, Gianni ha riportato alcune parole che gli ho scritto nella dedica di un mio libro. L’ho chiamato “compagno di pensiero e di resistenza”, perché è così che lo sento. E ho scritto: “Anche chi è innocente può curare una ferita che non ha causato, e trasformare il dolore in consapevolezza”. Queste parole non sono solo mie, sono il frutto di anni di riflessione, di studio, di lotta. Anche se non condividiamo la stessa cella, condividiamo gli altri spazi del carcere, e quello che ci contraddistingue è la battaglia comune che ci fa sentire persone. In carcere noi non siamo il nostro reato. Questa frase, che ho ripetuto a Gianni fin dal primo giorno, è diventata il seme da cui è nato questo diario di cella con Stefano. Perché dietro ogni condanna c’è una persona, una storia, una possibilità. E se il sistema penitenziario non riesce a vederlo, allora dobbiamo gridarlo noi.
La filosofia mi ha salvato e aiutato a sopportare questo dolore. In particolare, Marco Aurelio, imperatore e pensatore stoico, mi ha insegnato che la libertà non è un luogo, ma uno stato dell’anima. “La felicità della tua vita dipende dalla qualità dei tuoi pensieri.” Questa frase mi accompagna ogni giorno. In cella, tra le carte, tra le istanze che scrivo per i miei compagni di sventura, tra le notti in cui il silenzio pesa come pietra, ho scelto di non essere schiavo del rancore, ma artigiano della consapevolezza. Bisogna vivere come se ogni giorno fosse l’ultimo, ma agire come se ogni gesto può cambiare questo carcere collassato. E così ho fatto, ho studiato, mi sono laureato, ho aiutato centinaia di persone detenute a ottenere benefici, ho scritto, ho pensato, ho lottato, non per ottenere qualcosa, ma per non perdere me stesso.
Gianni ha avuto il coraggio di raccontare tutto questo, perché sopra ogni colore politico ci sono i diritti umani. Il duo “Alemanno/Falbo” significa camminare a testa alta tra rischi e insidie presenti in una qualunque istituzione totale, significa un incontro di saperi sulla persona e sulla società per far affiorare l’inatteso e il non detto. Questa resistenza silenziosa che ogni giorno portiamo avanti tra le mura di Rebibbia significa dare voce a chi voce non ha, facendo capire che il problema del carcere non è un problema delle persone carcerate, ma della società libera.
A Gianni va la mia gratitudine più profonda per aver dato valore alla mia storia, per aver riconosciuto il mio impegno, per aver scelto di usare la sua voce per amplificare la mia. E a chi legge queste righe, chiedo solo questo: Non dimenticateci. Non voltatevi dall’altra parte. Lottate con noi perché nei noi ci siete anche voi, lettori, che siete dalla parte dei diritti. Perché ogni storia raccontata è un muro che cade e ogni alleanza vera, come la nostra, è un seme di cambiamento. Un grazie va reso anche a Nessuno tocchi Caino coi laboratori “Spes contra Spem” se le nostre voci rimbombano in tutte quelle coscienze che vogliono riformare la legge e il sistema penale. Noi raccogliamo tutte le informazioni utili per approfondire le conoscenze, per poi elaborare proposte di riforma della esecuzione penale in modo da evitare ii ripetersi di future ingiustizie.
Noi non parliamo della nostra esperienza agli altri, vogliamo solo ricordare quel che succede alle persone detenute in uno Stato che viene definito di diritto, ben consapevole dei trattamenti inumani e degradanti che infligge e che di certo non sono fenomeni eccezionali e sporadici, perché si verificano con estrema frequenza a causa di vere e proprie “mancanze sistemiche”. Coloro che più di ogni altro sono chiamati ad assicurare i diritti alle persone detenute sembrano perdere di vista i propri doveri e si concentrano, invece, alimentandole, sulle tensioni tra sicurezza pubblica e funzione rieducativa della pena. Come scriveva Marco Aurelio: “Ciò che ostacola il cammino diventa il cammino”. E noi, ogni giorno, trasformiamo l’ostacolo in lotta, la pena in pensiero, il dolore in dignità.



KUWAIT: SETTE PRIGIONIERI GIUSTIZIATI, UNO SALVO GRAZIE AL PERDONO DEI FAMILIARI DELLA VITTIMA
Il Ministero degli Interni del Kuwait l’11 settembre 2025 ha giustiziato sette detenuti nella Prigione Centrale, mentre un ottavo prigioniero ha evitato l’esecuzione avendo ottenuto il perdono dei familiari della vittima, ha riportato il quotidiano Al-Seyassah.
Tra le persone giustiziate figurano tre cittadini kuwaitiani che erano stati riconosciuti colpevoli di omicidio, due cittadini del Bangladesh anche loro responsabili di omicidio e due iraniani colpevoli di traffico di droga.
Le persone giustiziate – precisa il giornale - includono i responsabili degli omicidi dei cittadini kuwaitiani Abdul Aziz Al-Zaatari e Ahmed Al-Jalal.
Fonti della sicurezza hanno reso noto che l'ottavo detenuto ha ricevuto il perdono dalle famiglie delle vittime poche ore prima di salire sul patibolo, il che ha portato alla sospensione della sua esecuzione, in attesa del completamento delle necessarie procedure legali sulla base dei nuovi sviluppi.
L’esecuzione di uno dei sette giustiziati – identificato solo come A.A. – ha avuto luogo nonostante utenti dei social media e influencer abbiano cercato di raccogliere 2 milioni di dinari kuwaitiani come “prezzo del sangue”, sperando di ottenere un accordo con la famiglia della vittima.
(Fonti: Arab Times, 11/09/2025; Kuwait Inside, 11/09/2025)



AFGHANISTAN: TALEBANI SPARANO A UN CONDANNATO POI IMPICCANO IL CORPO IN PUBBLICO
I Talebani hanno giustiziato a colpi d'arma da fuoco un uomo e poi hanno impiccato il suo corpo in pubblico il 22 agosto 2025 a Herat, hanno riferito testimoni ad Amu TV.
L’uomo è stato impiccato a un vecchio carro armato nella trafficata zona di Kandahar Gate della città, dove una grande folla si è radunata per assistere all'evento.
Video circolati sui social media mostrano i Talebani che prendono a calci il corpo alla testa e al volto mentre i passanti riprendono la scena. Nel filmato, un miliziano talebano ha identificato l'uomo come membro di un gruppo armato di opposizione e lo ha accusato di aver ucciso due Tgalebani, tra cui Mawlawi Hassan Akhund, comandante del 10° distretto di sicurezza talebano a Herat.
Il gruppo di opposizione "Nahzat Azadi-Bakhsh Islami Mardom Afghanistan" – che ha rivendicato la responsabilità degli attacchi nell'Afghanistan occidentale – aveva dichiarato all'inizio di questa settimana di essere responsabile dell'attacco in cui è morto Akhund. Attaccato al cadavere è stato anche trovato un foglio di carta con la scritta "Morte al gruppo Nahzat Azadi-Bakhsh Afghanistan".
Il comando di polizia talebano di Herat ha successivamente rilasciato una dichiarazione contraddittoria su X, affermando che l'uomo era solo sospettato di furto. La dichiarazione afferma che era stato identificato dai residenti, arrestato durante un'operazione dei Talebani ed "eliminato".
Gli attivisti per i diritti umani hanno condannato l'atto come un omicidio illegale. "Privare qualcuno del diritto alla vita senza un processo equo è una palese violazione dei diritti umani", ha dichiarato Hadi Farzam, attivista per i diritti umani. "Appendere il corpo in pubblico dopo l'uccisione è un affronto diretto alla dignità umana".
Un membro del movimento femminile Window of Hope ha dichiarato ad Amu che i processi talebani negano agli imputati il diritto ad avere un avvocato o una difesa. "L'uso delle esecuzioni e delle punizioni corporali da parte dei Talebani si sta intensificando e privare qualcuno del diritto alla vita contraddice sia la giustizia che i principi islamici", ha affermato.
Non è il primo caso del genere. Negli ultimi anni, i Talebani hanno effettuato numerose esecuzioni pubbliche. L'anno scorso, quattro uomini accusati di rapimento sono stati uccisi con colpi d’arma da fuoco e poi impiccati a Herat, mentre in precedenza quest'anno altre quattro persone sono state giustiziate nelle province di Farah, Nimroz e Badghis.
(Fonti: Amu Tv, 03/09/2025)



IRAN: SUPERATE LE 1000 ESECUZIONI DA INIZIO 2025
Con le 14 esecuzioni registrate il 7 settembre, l’Iran ha superato le 1000 impiccagioni dall’inizio del 2025, arrivando a 1008.
Solo nella prima settimana di settembre sono già 45, e sono state ben 171 nel mese di agosto.
Per quanto l’Iran sia da molti anni la nazione che, in rapporto alla popolazione, compie più esecuzioni, i numeri attuali sono un forte incremento anche rispetto a questa “tradizione”.
Nel 2024 le esecuzioni registrate dalle Ong (e da Nessuno tocchi Caino) erano state 996, 878 nel 2023, e 646 nel 2022.
Alla fine del 2025 mancano ancora 115 giorni, se l’Iran rispetterà questa cadenza di uccisioni, al 31 dicembre i morti per esecuzione potrebbero essere 1472, un aumento del 50% rispetto all’anno precedente.
Gli osservatori collegano questo aumento della repressione con gli esiti negativi delle guerre “per procura” che l’Iran muove ad Israele, che negli ultimi mesi hanno visto la caduta del regime filoiraniano della Siria, le grandi difficoltà dei filoiraniani di Hezbollah in Libano, e di Hamas nella Striscia di Gaza, e degli Houti nello Yemen. Gli analisti indipendenti ritengono che la popolazione iraniana, che già negli anni più recenti ha animato diverse sollevazioni popolari, alcune delle quali di ampia portata (l’ultima in ordine di tempo è stata quella di Donna-Vita-Libertà) potrebbero essere incoraggiati dalle evidenti difficoltà internazionali del regime, ed avviare una nuova stagione di manifestazioni antigovernative. Questo spiegherebbe la repressione particolarmente cruenta in atto nelle prigioni iraniane.
(Fonte: Nessuno tocchi Caino)



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