"Ruvide bestie" di Rae DelBianco (Neri Pozza, traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi)


Gli uomini pensano di conoscere il deserto così come sono convinti di conoscere la violenza. Ma si sbagliano sempre, su entrambi i fronti”. (pag. 180)

Ho letto e sto leggendo tantissimo durante questa stagione di Covid e reclusione forzata. Col cinema dove lavoro chiuso e un futuro fosco. Soprattutto riletture a dire la verità. Poi lunedì scorso sono tornato nella mia libreria di riferimento e ho riempito lo zaino di novità. Avevo un gran bisogno di riprendere aria. Di rivedere le facce dei miei librai preferiti. E la prima novità che ho letto mentre la vita, lentamente, sembra riprendere ossigeno è stato un romanzo bellissimo. Esattamente ciò di cui avevo bisogno per ripartire. O forse per tenere a bada la depressione che in questi ultimi tempi è uscita da quel torpore dove sembrava essere scivolata avvolgendomi e divorandomi da dentro.

Sto parlando di “Ruvide bestie”, romanzo d'esordio della statunitense Rae DelBianco (Neri Pozza, traduzione dall'inglese di Francesca Cosi e Alessandra Repossi). Un romanzo dal sapore antico, ruvido, spavaldo furioso. Un'esplosione ferina e mistica al ritmo di debiti e bestie uccise, di ferite e antibiotici, di fratelli e sorelle gemelli legati da un destino ancestrale di solitudine/fatiche/sacrifici, di una ragazza (l'indimenticabile protagonista del romanzo) che sembra l'incarnazione di una divinità del deserto. Si respirano le atmosfere di Cormac McCarthy ed è impossibile non pensare al giudice Holden di Meridiano di sangue e a quella banda di cacciatori di scalpi, alle disperate esplosioni di sangue delle pagine di Jim Thompson, a uno strano miscuglio lisergico lungo giorni girato da John Ford/Sam Peckinpah/Kelly Reichardt che vivo dentro alla mia testa, agli affreschi noir di Don Winslow sui cartelli della droga, alle peripezie del protagonista de Il Falco di Hernan Diaz ma ciò che colpisce in questo romanzo è che pagina dopo pagina tutti i maestri, i modelli di riferimento, le risonanze finiscono per dissolversi per lasciar spazio nel cuore, nello stomaco, in pancia al sapore acre e ruvido di questa nuova voce che emerge limpida e luminosa dai venti del deserto, da conflitti a fuoco resi magistralmente senza cedimenti ai facili stilemi delle serie tv, da un volto cosparso di cenere di chi si dedica al rito dell'uccisione, da scene di caccia straordinarie, da tutta quella lunga sequenza ambientata nel deserto che mette i brividi e una grande voglia di mollare tutto e violare le prigioni della mente e  tutti quei costrutti che ci rendono prigionieri di consuetudini. Perché poi alla fine Rae DelBianco con “Ruvide bestie” ha saputo realizzare uno splendido affresco metafisico sull'istinto di sopravvivenza, su quei rapporti impensabili e inspiegabili che grondano di vita, lacrime, sofferenza, mistero, morte, fisicità debordante. E spesso le parole e le opere letterarie sono di una fisicità e carnalità pari a quella dei corpi. Se non superiore. “Ruvide bestie” è un romanzo che vive della Morte/Fine come presenza costanza della quotidianità umana e su cosa significa affrontarla, accarezzarla, ammirarla, abbandonarla, comprenderla, soccomberle, accettarla. Che s'interroga, profumandosi di polvere da sparo, su che significa ritornare alla vita e farci i conti con tutto il suo carico di disperazione e lacerazione. Che poi in fin dei conti la vita è solo una definizione per opposizione, come scrive l'autrice. E questo forse ci potrebbe bastare. Quantomeno per ricordarci di essere vivi.

L'istinto di sopravvivenza. Combattere per vivere. Il concetto di “vita” è una costruzione mentale. È una condizione che abbiamo mai conosciuto, perciò non abbiamo niente con cui paragonarla, non abbiamo mai sperimentato altro. Di per sé non significa nulla, ma se introduci la minaccia della morte, all'improvviso riesci a definirla per opposizione. E vedi davanti a te la vita e la non-vita. Solo in quei momenti sei pienamente consapevole di essere vivo”. (pag. 248)


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