"I racconti" di John Cheever (Feltrinelli, traduzioni di Adelaide Cioni, Laura Grimaldi, Leonardo Giovanni Luccone, Franco Lucentini, Marco Papi, Sergio Claudio Perroni)

 

 

Non fu colpo di fulmine con John Cheever la prima volta che lo lessi. Ok, Il nuotatore mi piacque tantissimo ma per il resto dei suoi racconti (anche romanzi) non fu quell'innamoramento totale che mi prese leggendo Hemingway, Salinger, Carver, Dubus, Cechov e altri. Si tratta più di un amore cresciuto lentamente. Nemmeno ricercato. Per poi arrivare a non poterne fare a meno. Nei mesi di lockdown e in queste settimane di lavoro a singhiozzo e di attesa di ripresa ho ripreso in mano il volume edito da Feltrinelli che raccoglie i racconti di Cheever e lentamente ho cominciato a leggerli e rileggerli. Uno, due, tre, quattro, cinque al giorno. A seconda dell'umore, del tempo, della voglia. Ne sono uscito rapito, travolto e anche molto scosso. Sono racconti che ti lasciano dentro talvolta un'angoscia che impedisce di respirare. Ti senti graffiare nei tuoi punti deboli. Ti senti messo a nudo. Ti senti di aver guardato nel profondo delle tue relazioni sentimentali, familiari, lavorative. Difficile scegliere il racconto migliore ma se costretto direi L'angelo del ponte (insieme a Gli Hartley) perché mentre lo leggevo sono riemerse tutte le mie paure, le mie nevrosi, le mie paranoie, i miei tic, le mie vertigini, le mie ansie, i miei errori. Quando ho terminato di leggerlo (non era la prima volta che lo leggevo) avevo le lacrime agli occhi.

Lascio, vigliaccamente, la parte finale de L'angelo del ponte:

"E cantando mi ha fatto arrivare dall'altro lato di un ponte che a un tratto mi è parso una costruzione straordinariamente sensata, solida e addirittura bellissima, progettata da uomini intelligenti per semplificare i miei viaggi, e le acque dell'Hudson sotto di noi erano incantevoli e tranquille. Mi è tornato tutto: il coraggio cieco, l'esaltazione vitalistica, una serenità estatica. La ragazza ha terminato la canzone quando siamo arrivati al casello sulla riva est, lì mi ha ringraziato, mi ha salutato ed è scesa dall'auto. Mi sono offerto di accompagnarla ovunque volesse, ma lei ha scosso la testa e si è allontanta, e io ho proseguito verso la città, in un mondo che mi era stato restituito e che mi sembrava meraviglioso e bello. Quando sono tornato a casa ho pensato di chiamare mio fratello e di raccontargli quello che mi era successo, nell'eventualità che esistesse anche un angelo degli ascensori, ma l'arpa - quel singolo dettaglio - rischiava di farmi apparire ridicolo o pazzo, e non ho chiamato. Vorrei potermi dire convinto che ci sarà sempre un'interessante misericordiosa a soccorrermi nei momenti difficili, ma non sono il tipo da sfidare la sorte, quindi mi tengo alla larga dal ponte George Washington, anche se il Triborough e il Tappan Zee, li attraverso senza problemi. Mio fratello continua ad aver paura degli ascensori, e mia madre, anche se è diventata piuttosto rigida nei movimenti, continua a volteggiare e volteggiare e volteggiare nel ghiaccio." (pp. 591-592)


(Desire Lines)

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