"Una teoria della libertà. Scritti politici e federalisti" di Carlo Cattaneo (Einaudi, a cura di Walter Barberis)
Mi sono innamorato di Carlo Cattaneo sin da ragazzino. Ok, c'erano Mazzini, Garibaldi e tutto il resto ma c'era anche mio nonno che odiava i Savoia, i fascisti e amava la Svizzera Mi ha trasmesso, fra mille altre cose, l'amore per il federalismo e per Melville. In tanti hanno dimenticato Carlo Cattaneo e io invece me lo porto dentro ogni giorno.
In questi giorni bui, complicati, controversi sono tornato a leggerlo e a meditare sulle sue parole.
Vi lascio la parte finale dell'introduzione di Walter Barberis:
"Una spirale di pensieri si riassumeva in quel vortice di pagine: echeggiava il modello inglese di governo, maggiormente flessibile nella considerazione e nel maneggio della pluralità di soggetti tipica della esperienza politica occidentale; emergeva il problema costituzionale che metteva in alternativa un regime amministrativo centralistico e uno più attento alle istanze delle diverse unità politiche territoriali e delle molteplici articolazioni sociali. Tutti quegli scritti evidenziavano la tesi che l'Europa civilizzata si era manifestata con la nascita della libertà cittadina e dell'economia moderna: e che il problema del governo era strettamente legato al modo della produzione e della ridistribuzione della riccezza, da cui dipendevano i rapporti sociali e l'affermazione del principio di libertà individuale e collettiva. Questo aveva insegnato la storia d'Europa al vaglio delle menti più brillanti a cui Cattaneo faceva implicito riferimento. Erano argomenti che obbligavano al confronto con Adam Smith e Jean-Jacques Rousseau: delineavano una scienza sociale che doveva scegliere fra complessi meccanismi di regolazione del benessere pubblico e uno stato di natura avvertito come più consono alla felicità dell'uomo. La storia aveva questo compito e questo senso: illuminare il cammino del presente con i suoi momenti esemplari, ponendosi contemporaneamente come il campo della lotta degli uomini per la libertà. Erano le categorie fondamentali che avevano toccato la sensibilità di Cattaneo e mosso la sua intelligenza dei problemi politici contemporanei. Con il caldo sostegno delle non dimenticate lezioni di Gian Domenico Romagnosi, tutte quelle incursioni nelle problematiche del governo delle società umane alla luce della storia europea e italiana erano il territorio d'elezione della riflessioni cattaneana.
Non si fa fatica, dunque, a capire come e perché Cattaneo ricucisse una linea interpretativa che metteva al centro la città, quella medievale, italiana, amministrata e organizzata come libero Comune, federata e resistente di fronte alle armi di Federico Barbarossa, fertiele di innovazioni economiche che si estendevano sui contadi, luogo di scambi commerciali, di scoperte tecnologiche e di sperimentazioni artistiche. Né si fa fatica a capire perché da quelle considerazioni sulla anima urbana dei processi di incivilmento scaturissse una avversione per tutti i processi che avevano fatto perno sulla territorialità dello Stato, sulla terra come fonte di rendita, sulla aristocrazia e sulla feudalità come modelli di organizzazione sociale ed economica. Come e perché Cattaneo guardasse al Piemonte come al frutto concentrato di tutte quelle forme negative dell'esperienza storica italiana ed europea: e lo considerasse dunque intrinsecamente illiberale, culturalmente ed economicamente arretrato, nonostante le parvenze liberali e le tendenze modernizzanti di un Cavour. La giusta sequenza di una storia virtuosa italiana era rappresentata da città, borghesie, spirito di libertà e autonomia, scienza: era il filo conduttore della storia lomberada, esemplare positivo nell'alveo più grande della storia italiana. Nonostante si rendesse ben conto dei rischi di un municipalismo egoista e indifferente al destino delle altre città; per quanto vedesse i limiti possibili di questa esaltazione del nucleo cittadino ai danni di un più esteso contesto statuale, Cattaneo ritenne che da Pontida in poi, fino all'esperienza degli Stati Uniti, la soluzione federale fosse la migliore sotto il profilo costituzionele e di governo, l'unica che potesse contemperare libertà e autonomia locale nel rispetto di un più vasto interesse generale. Cosí Cattaneo si cimentò nella dimostrazione di come "la città sia l'unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua. Senza questo filo ideale - argomentava - la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell'assidua composizione e scomposizione degli Stati; la ragione non può veder lume in una rapida alternativa di potenza e debolezza, di virtù e corrutela, di senno e imbecillità, d'eleganza e barbarie, d'opulenza e desolazione; e l'animo ricade contristato e oppresso dal sentimento d'una tetra fatalità".
Risalendo la storia d'Italia dai primordi fino al Rinascimento, Cattaneo ricostruí le vicende che portarono la città col suo contado a essere la cellula elementare e virtuosa della storia nazionale. Egli ritrasse e illustrò gli artigiani e i mercanti che avevano animato la milizia cittadina come gli archetipi sociali e politici di una comunità capace di difendere se stessa, di amministrarsi con una legislazione civile, di darsi una ricchezza non condizionata da vincoli feudali e proporzionalmente distribuita fra uomini liberi. Attorno al perno di quella civiltà urbana anche le campagne trassero giovamento, godendo del diritto di libero passo e fruendo delle conquiste dell'idraulica, con una rete di canali che irrigava le colture. In quel contesto, Milano si guadagnò un ruolo di primo piano, esemplare rispetto alle città del Mezzogiorno italiano che, viceversa, rimasero succubi di un capriccioso alternarsi di dinastie; e con pochi centri urbani promotori di sviluppo e di culture civiche. Milano rimase simbolica della possibilità di autogoverno della città, della compatibilità e coesistenza di Stato e mercato, della autonomia e del concorso popolare alla vita delle istituzioni pubbliche. Costretti fra le maglie della sua lettura storiografica, la città medievale e il libero Comune diventavano le matrici di una teoria politica fondata sulla libera concorrenza, sulle libertà individuali e sulla partecipazione di ogni gruppo sociale alla vita comunitaria. All'alba di una nuova Italia, che di lí a poco avrebbe visto confondersi e stringersi la mano antichi nemici, settari repubblicani e monarchici conservatori, teorici dell'insurrezione e vecchi agenti della diplomazia, Cattaneo fissava in questi principi originali, eccentrici e isolati, i canoni dell'unica azione politica degna di essere perseguita: quella, per l'appunto, ispirata a un modello federalista.
Perso in molti, a ben vedere, nella partita che portò all'unità italiana. Certo non vinsero i democratici o i repubblicani. Ma perse inesorabilmente, senza echi avvertibili, senza sostenitori visibili, il federalismo di Cattaneo. Lui, il pensatore forse più originale dell'Ottocento italiano, fu confinato in Ticino dove si guadagnò nuovi estimatori e nuovi avversari. Come lampi nella quiete della sua esistenza periferica, gli anni a venire gli avrebbero riservato ancora qualche occasione di assumere un impegno pubblico, un ruolo di rappresentanza politica, una visibilità che certo avrebbe giovato alla sua causa. Ma, come sempre, egli si ritrasse, azzardò un passo ma non fedece il successivo, si trincerò dietro questioni di principio, si oppose, rinunciò. Nel 1860 fu eletto deputato; ma non varcò mai la soglia della Camera, per non giurare fedeltà alla monarchia e allo Statuto. Sempre nel '60 raggiunse Garibaldi a Napoli, ma nel volgere di poche ore già si sentiva ed era percepito come un elemento fuori posoto, il cantore di una isolatissima ipotesi federalista nel quartier generale dei combatenti per l'unità. Parlva di patto federale mentre Garibaldi invitava a raccogliersi sotto le bandiere di Vittorio Emanuele II per dare una spallata al processo di unificazione. La ripresa del "Politecnico" sarebbe stata la sua consueta via di ritirata dal fronte della pratica politica. Lí, nelle quattro prefazioni ai volumi semestrali del '60 e '61, Cattaneo avrebbe riversato nuovamente le sue opinioni circa "il diritto federale, ossia il diritto dei popoli", la arretratezza del Piemonte, le armi volontarie, le ferrovie. Nel 1864, avrebbe ancora scritto quattro significative lettere al "Diritto": a proposito della legge comunale e provinciale, quando pareva che il parlamento fosse per approvare l'estensione al regno d'Italia della legge piemontese sulle amministrazioni. Quindi, ancora una tentazione di impegno, nella ferrovia del Gottardo. E poi una nuova elezione a deputato, nel 1865: rifiutata. E una candidatura ulteriore, accettata, dopo la sconfitta italiana del '66: rieletto, si sarebbe recato a Firenze, ma ancora una volta senza superare la soglia del Parlamento, testimone di una idea di democrazia e tuttavia riluttante ad aderire formalmente a principi e a istituzioni contrari alle sue idee e alla sua morale. Isolato nella sua spesso incompresa intransigenza, Cattaneo si spegneva ai primi del 1869. Lasciava in eredità una mole cospicua di scritture e una dote di idee che avrebbero trovato commentatori illustri fra gli intellettuali del Novecento italiano; ma, ancora, scarsa fortuna politica." (pp. 27- 31)
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