"In fondo alla notte" di Hugues Pagan (Meridiano Zero, traduzione di Maria Valeria Caredda)

 

E ora, all'una di notte, la donna della mia vita era tornata. Fresca e pimpante come il primo giorno, vale a dire non molto. Quando ci si prova tardi, è solo noia. Manca l'innocenza, l'ingenuità, la linfa che crea i condannati prefabbricati, le vittime automatiche. Morire non serve: bisogna scappare in tempo. E a ogni buon contento non si poteva dire che che lei fosse tornata in tempo. Le parole più banali, più neutre, stentavano a venire fuori. Che senso aveva lasciarsi trasportare, coinvolgere? Erano state annientate le paure, le speranze, le dolci attese, quel che c'è di più bello. Lei fissò il fondo del bicchiere, le palpebre abbassate come uno schermo piatto, il grigio e il vuoto ai suoi piedi. Analizzò con lo sguardo la collezione di cassette, le pile di dischi e i libri accatastati sugli scaffali, il caos sopra il tavolo dove a fatica affiorava la mia macchina da scrivere delle grandi occasioni, un guantone da boxe e la Bibbia di Gerusalemme. Presi una Player's dalla borsetta, la esaminò e poi l'accese con un grazioso accendino, non più grosso di una matita per occhi. Non aveva cambito marca di sigarette. Nemmeno io, se è per quello. Forse teniamo più ai nostri veleni che a tutto ilr esto. Era visibilmente fresca di parrucchiaere e il trucco si reggeva indomito giù fino al collo. Da lontano, rendeva bene. Da vicino era come una di quelle macchine con la carrozzeria mangiata dalla ruggine, ogni giorno di più, fino a quando non cade a pezzi e si sgretola...” (pp. 14-15)

Adoro Hugues Pagan, per me è uno dei migliori scrittori noir viventi (non c'è niente di paragonabile in Italia), e durante il primo lockdown ho riletto alcuni suoi romanzi. In questi giorni ho invece letto per la prima volta “In fondo alla notte”(Meridiano Zero, 2007, traduzione di Maria Valeria Caredda) pubblicato originariamente nel 1986 col titolo di Les eaux mortes e sarebbe stato meglio mantenerlo come titolo anche nella versione italiana. Dico subito che per me non è il miglior Pagan per colpa di alcuni passaggi a vuoto e una trama un po' troppo stiracchiata ma poi alla fine come al solito Hugues mi ha risucchiato con le sue atmosfere di perdizione (e di rimandi al noir letterario e cinematografico d'antan) dense di fica, tradimento, soldi, dolore, alcool, sigarette, Algeria, acque morte, nebbia, corruzione, violenza, vendetta, musica  (leggerlo significa anche scoprire un sacco di bella musica da spezzarsi il cuore) e tanta tanta morte e magari anche la possibilità di cambiare vita ma solo dopo tanto tantissimo dolore. Perché poi se quando scrivi o leggi un noir non sei disposto a rovistare nel tuo immenso bagaglio di dolore e ferite e non sei disposto ogni volta a farti del male, ad aprirti ferite, a respirare tutta la merda della società, a fare i conti con te stesso, a scivolare negli abissi della tua coscienza, nella menzogna, nell'ombra, nella fuga, nella solitudine allora non stai scrivendo o leggendo un noir: stai soltanto fingendo. E Pagan non finge mai.

Annui e levai il vassoio. Lei fece posto e mi tenne tra le braccia. Mi dovetti assopire un momento. Quando riaprii gli occhi, si era tolta la camicia da notte e mi stringeva contro il seno, come una piccola madre dei popoli. Mi guardava. Pioveva sul tempio. Aveva un'espressione remota, dura e penetrante. Già vista su altri vivi, per le strade e nei porti, si torna sempre là, le strade, i porti e la pioggia, gli usci socchiusi e i neon cruenti e spettrali, i marciapiedi senza fondo, le raffiche di steel guitare sparate su un fianco, a spazzare via tutto, i canali di scolo e le stanze disseminate di detriti e di vetri in frantumi, di lamenti e di spade, di chiazze di sangue e fango, di lampi elettronici – no future – e di facce livide... difficile trovare la luce. Cortei di Cadlillac e giovani visi esangui, abiti per diecimila franchi e ascessi purulenti su braccia dalle vene indurite, dalle ossa di alluminio, dai tendini di vetro... Un giorno o l'altro, si deve scegliere da che parte stare e non muoversi più. Io avevo scelto la mia. Ma confesso che la cosa non mi era di alcun conforto.” (pag. 159) 

 

(Just in Time (Live in Paris)

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