NESSUNO TOCCHI CAINO - DAL PAKISTAN UNA LEZIONE DI CIVILTA’: MORATORIA DELLE ESECUZIONI E DIRITTO ALLA ASPETTATIVA DI VITA

NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS

Anno 21 - n. 15 - 10-04-2021

Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : DAL PAKISTAN UNA LEZIONE DI CIVILTA’: MORATORIA DELLE ESECUZIONI E DIRITTO ALLA ASPETTATIVA DI VITA
2.  NEWS FLASH: LA STORIA DI ANTONIO, APPESO AL FILO DELLA VITA E DELLA SPERANZA CHE ANCHE LA CONSULTA HA TESO
3.  NEWS FLASH: INDONESIA: CONDANNATI ALLA FUCILAZIONE 13 MEMBRI DI UNA BANDA DI TRAFFICANTI DI DROGA
4.  NEWS FLASH: ONU: APPROVATA RISOLUZIONE SULLA SITUAZIONE DEI DIRITTI UMANI IN IRAN
5.  NEWS FLASH: MAROCCO: CONFERMATA CONDANNA A MORTE PER LO STUPRO E OMICIDIO DI UN RAGAZZINO
6.  I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :


"DAL PAKISTAN UNA LEZIONE DI CIVILTA’: MORATORIA DELLE ESECUZIONI E DIRITTO ALLA ASPETTATIVA DI VITA" di Sergio D’Elia

Nei Paesi musulmani, è tradizione che tutte le esecuzioni siano sospese durante il mese di Ramadan. Nel 2020, in Pakistan, la tregua religiosa di un mese è durata tutto l’anno. Nessuno è stato impiccato, e la moratoria è sconfinata nei primi mesi di quest’anno.
L’ultima esecuzione in Pakistan è avvenuta il 16 dicembre 2019, quando Taj Muhammad è stato impiccato per aver aiutato i Talebani nel massacro del dicembre 2014 in una scuola a conduzione militare di Peshawar, in cui rimasero uccise 150 persone, tra cui 134 bambini.
Gli anni successivi alla strage sono stati anni terribili. Il governo ha subito revocato la moratoria in atto da sei anni. La guerra senza quartiere al terrorismo ha fatto strame di diritto e giustizia nei tribunali e ha condotto nel braccio della morte o alla forca centinaia di presunti Talebani. Nel 2015, l’anno successivo alla strage, il “rito” della impiccagione si è ripetuto 326 volte. Quasi ogni giorno, prima dell’alba, un condannato aveva consumato l’ultimo pasto, aveva fatto le sue abluzioni, aveva avuto il tempo di pregare, poi era stato portato al patibolo dove i boia avevano coperto il suo volto con un cappuccio nero e gli avevano legato mani e piedi prima di impiccarlo. La foga giustizialista è scemata quasi subito: dopo il 2015, di anno in anno, le esecuzioni sono diminuite drasticamente fino a scomparire del tutto nel 2020.
La Corte Suprema del Pakistan è sempre stata un argine alla pratica della pena capitale nel Paese: ha posto limiti giuridici, creato precedenti, commutato migliaia di sentenze capitali. Uno studio condotto dal Justice Project Pakistan ha rivelato che, tra il 2010 e il 2018, la Corte Suprema ha annullato la pena di morte nel 78% dei casi. Il 97% delle condanne è stato commutato in ergastolo o in altre pene detentive nel 2018. La linea della più alta corte del Paese ha fatto scuola nei tribunali di grado inferiore. Nel 2019, erano state emesse 632 condanne a morte. Il numero è sceso a 177 nel 2020. Anche la popolazione del braccio della morte tra i più affollati del mondo è diminuita dai 4.225 detenuti del 2019 ai 3.831, tra cui 29 donne, registrati alla fine del 2020.
Negli ultimi cinque anni, il tribunale supremo del Paese ha fatto evolvere la giurisprudenza con una serie di sentenze che hanno contenuto la pratica della pena di morte.
Nel marzo 2019, l’allora Presidente della Corte Asif Saeed Khosa, noto per il tocco poetico che accompagnava i suoi giudizi e per aver assolto Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia, ha scritto una sentenza di 31 pagine per affermare che la regola “falsus in uno, falsus in omnibus - falso in una cosa, falso in tutto” sarebbe diventata parte integrante della giurisprudenza nei processi penali: effettiva, seguita e applicata nella lettera e nello spirito da tutti i tribunali del Paese. Secondo la regola latina, un testimone che rende una falsa testimonianza in un caso non è credibile in nessun altro caso perché “la presunzione che il testimone dichiarerà la verità cessa non appena appare manifestamente che è capace di spergiuro”. L’attendibilità di un testimone non può essere parziale o frazionata. Alla luce di questa sentenza, un gran numero di casi di pena di morte è stato ribaltato in appello. Fosse, una tale regola, in vigore attualmente in Italia, un imputato non avrebbe il terrore di finire in un’aula di tribunale. Fosse applicata anche retroattivamente, la storia giudiziaria del nostro Paese andrebbe riscritta.
La Corte Suprema non si è fermata a quel che accade nei tribunali, ha rivolto la sua attenzione anche alla esecuzione delle pene. Nel luglio scorso, ha annullato la condanna a morte di due fratelli – Sikandar Hayat e Jamshed Ali – che avevano passato 27 anni della loro vita in carcere. Accogliendo l’istanza di revisione presentata dai prigionieri nel braccio della morte, la Corte ha affermato che i condannati, dopo più di 25 anni di carcere in attesa di esecuzione, avevano maturato il “diritto all’aspettativa di vita”. Secondo la sentenza, il “diritto all’aspettativa di vita” è un diritto che va riconosciuto al condannato a morte che, nel fare ricorso a tutti i rimedi giudiziari legalmente previsti volti a evitare l’esecuzione, sia rimasto in carcere per un periodo uguale o superiore a quello prescritto per l’ergastolo. In Pakistan l’ergastolo equivale a una pena che può durare al massimo 25 anni. Dopo tale termine, anche per un condannato a morte può maturare il diritto a vivere in libertà la parte di vita che gli rimane.
Dal Pakistan, che decide una moratoria delle esecuzioni per i condannati a morte e, dopo massimo 25 anni, dona la libertà ai condannati a vita, giunge una lezione di civiltà a un Paese che prevede ancora e pratica senza sosta pene che vanno oltre ogni aspettativa di vita, svolge processi di irragionevole durata, fissa misure di sicurezza perpetue, infligge regimi crudeli di detenzione che durano fino alla morte. Dopo solo sei anni dalla “strage degli innocenti” nella scuola di Peshawar, il Pakistan ha deciso di voltare pagina. Dopo quasi trent’anni dalla strage di Capaci, l’Italia continua invece a usare leggi e codici di emergenza, articoli come il 4 bis, il 41 bis e il 416 bis che negano il diritto umano minimo, quello “pakistano”, il diritto a sperare di vivere quel che resta della tua vita dopo un quarto di secolo di non vita.

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"LA STORIA DI ANTONIO, APPESO AL FILO DELLA VITA E DELLA SPERANZA CHE ANCHE LA CONSULTA HA TESO" di Veronica Manca

“Vorrei avere la possibilità di salutare mia madre, prima che muoia, per chiederle perdono”. Con queste parole, il 13 marzo, Antonio mi ha salutata alla fine del nostro colloquio. Sicuramente provato dalla lunga detenzione, oltre 28 anni di carcere ininterrotto, dalla nostalgia dei familiari, dalla solitudine e dal senso di abbandono.
In carcere tutto è congelato, immobile; tutto sa di vuoto e di assenza; tutto è terribilmente pesante. Ciò che invece non si arresta è la pandemia, che corre a velocità drammatiche, facendo implodere un’intera struttura carceraria. Dal 13 marzo a oggi, 7 aprile, giorno del suo compleanno, Antonio si trova ricoverato nel reparto infettivi, con un’embolia polmonare da Covid-19. Del resto, i suoi compagni nel carcere di Reggio Emilia non stanno vivendo momenti migliori. I dati sono agghiaccianti: sono risultati positivi 60 agenti e, sul totale di 400, anche 119 detenuti, 5 dei quali sono ricoverati in ospedale. La situazione è preoccupante anche in altre carceri: a Parma, dove ci sono 18 positivi detenuti al 41-bis; a Catanzaro, dove uno è morto; a Rebibbia, nella sezione femminile, dove oltre 50 detenute risultano positive.
La storia di Antonio è simile a quella di molti altri: un ergastolo ostativo raggiunto in giovane età; la piena consapevolezza dei propri errori; una carcerazione lunghissima e una rivisitazione del proprio passato, studi universitari e percorsi di giustizia riparativa a favore delle proprie vittime. Antonio non è più pericoloso nemmeno per il DAP tanto da ottenere la declassificazione dall’Alta sicurezza alla sezione dei comuni. Non avanza nessuna giustificazione né richiesta di benefici. Esprime solo il desiderio di riparare, anche con la propria vita, e di avere quell’ultima possibilità di riscatto verso la madre, la propria famiglia di origine. La sua storia è emblematica. Insieme a quella di tanti altri, potrebbe rappresentare un campione significativo per uno studio scientifico che superi quegli slogan, lombrosiani quanto tristemente efficaci, della “mafiosità” che parte dalla nascita e giunge fino alla morte.
Compito di noi difensori è anche quello di valorizzare la persona, l’umanità e la concretezza del vissuto, che hanno preso forma e direzione durante un percorso di carcerazione, a distanza di anni, se non decenni, dai fatti e dalle sentenze di condanna. Ed è ciò che ha sempre affermato, tra l’altro, anche la Corte costituzionale, dalla sentenza n. 149 del 2018, alla n. 253 del 2019, fino all’ultima, la n. 56 del 2021. “La personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”, afferma la Corte costituzionale nella sentenza del 2018. Non si tratta, quindi, di “abolire” la normativa antimafia, né di entrare nel merito di scelte legislative, bensì di consentire al giudice naturale di valutare la persona, attribuendo una dimensione civile alla pena e un volto umano anche a chi ha commesso gravi errori. Non vuol dire nemmeno che tutti i meccanismi indice di pericolosità sociale siano stati o verranno altrimenti abrogati. Questo passaggio è ben espresso dalla Consulta anche nella pronuncia n. 56 del 2021, con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto assoluto di accesso alla detenzione domiciliare per la persona ultrasettantenne, anche se dichiarata recidiva o delinquente abituale, professionale o per tendenza: il giudizio espresso durante il processo non può impedire, in assoluto, vita natural durante, una rivalutazione anche della pericolosità sociale del detenuto, a fronte dell’età avanzata, e della sofferenza addizionale della permanenza in carcere. È la stessa Corte costituzionale, lungo un percorso motivazionale equilibrato e rispettoso di tutte le istanze in gioco, a indicarci la via della speranza e della vita. Rimaniamo saldamente fermi su questa rotta, legati a quel filo della dignità umana che anche Antonio merita di ritrovare.


INDONESIA: CONDANNATI ALLA FUCILAZIONE 13 MEMBRI DI UNA BANDA DI TRAFFICANTI DI DROGA

Un tribunale indonesiano il 6 aprile 2021 ha condannato a morte 13 membri di una banda di trafficanti di droga, inclusa una coppia di iraniani e un pakistano, hanno comunicato le autorità giudiziarie locali.
I 13 imputati - tre cittadini iraniani, un pakistano e nove indonesiani - sono stati condannati alla fucilazione in relazione al traffico di circa 400 kg di metanfetamine, hanno detto le autorità.
A causa delle restrizioni dovute al Covid-19, la sentenza è stata pronunciata tramite videolink da un tribunale della città di Sukabumi a Giava Occidentale, dove i membri della banda sono stati arrestati lo scorso giugno.
L'iraniano Hossein Salari Rashid ha guidato le attività di contrabbando, ha detto Bambang Yunianto, capo dell'ufficio della procura di Sukabumi.
“Ci sono quattro stranieri nel gruppo, compreso il capo della banda (Rashid). È stata condannata anche sua moglie", ha detto Yunianto.
Questa sentenza costituisce un record per numero di trafficanti di droga condannati a morte in una sola volta in Indonesia, ha reso noto Amnesty International.
Giungono così a 30 le persone condannate a morte nel Paese da inizio anno, tra cui diversi stranieri, ha aggiunto AI. Per la maggior parte si tratta di casi di traffico di droga.
(Fonti: Afp, 07/04/2021)


ONU: APPROVATA RISOLUZIONE SULLA SITUAZIONE DEI DIRITTI UMANI IN IRAN
Il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite il 23 marzo 2021 ha votato per estendere per un altro anno il mandato del Prof. Javaid Rehman, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla Situazione dei Diritti Umani in Iran.
La risoluzione sulla situazione dei diritti umani in Iran è stata adottata con 21 voti favorevoli, 14 astensioni e 12 voti contrari. La risoluzione esorta il regime iraniano a cooperare con il Relatore Speciale (UNSR) e consentirgli di visitare il paese e avere accesso alle informazioni per adempiere al suo mandato.
Il 9 marzo 2021 Rehman aveva pubblicato un rapporto sulla situazione delle donne e delle ragazze iraniane, in cui chiedeva al regime di introdurre riforme urgenti.
Nel suo rapporto al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, composto da 47 membri, il 9 marzo, il signor Rehman ha scritto: "Le donne e le ragazze continuano a essere trattate come cittadini di seconda classe in Iran", facendo riferimento alla violenza domestica e alle migliaia di matrimoni “combinati” a cui ogni anno vengono indotte ragazze di età compresa tra i 10 ei 14 anni, e alla continua discriminazione radicata nella legge e nella pratica.
“Una delle questioni più preoccupanti in Iran oggi, quando si tratta dei diritti delle donne e delle ragazze, è la questione dei matrimoni precoci. Il governo e più in generale i leader del paese devono subito aumentare l'età del matrimonio, e introdurre ulteriori politiche e programmi per ridurre questa pratica. Secondo i dati ufficiali del governo, nella prima metà dell'attuale anno solare, oltre 16.000 ragazze di età compresa tra 10 e 14 anni si sono sposate".
Rehman ha ricordato che in Iran l’età legale per contrarre matrimonio per una ragazza è 13 anni, ma le ragazze possono sposarsi anche prima se hanno il consenso del padre e di un giudice.
“L'attuale età legale per il matrimonio è semplicemente inaccettabile. È chiaro che il matrimonio precoce è dannoso per lo sviluppo e il benessere delle ragazze, anche in termini di istruzione, occupazione e per vivere libere dalla violenza. Mentre prendo atto dei precedenti tentativi di emendare la legge, ora è necessario esercitare pressioni per aumentare l'età del matrimonio, in linea con gli obblighi dell'Iran ai sensi della Convenzione sui Diritti dell'Infanzia ", ha detto Rehman.
Il rapporto ha anche sollevato serie preoccupazioni per la violenza domestica contro le donne.
"Le protezioni esistenti contro la violenza non sono sufficienti per salvaguardare in modo completo donne e bambini ... Chiedo ulteriori miglioramenti al disegno di legge in materia che è in via di approvazione, affinché siano estesi i servizi di supporto per donne e bambini che subiscono violenza domestica", ha detto Rehman.
Il suo rapporto descrive in dettaglio come la discriminazione di genere permea quasi tutte le aree della legge e della pratica, trattando le donne iraniane come cittadini di seconda classe. Ha fornito al governo raccomandazioni per migliorare queste questioni, inclusa la ratifica della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW). L'Iran è uno dei pochi Stati a non aver firmato la Convenzione.
“Nella legge e nella pratica iraniane esiste una discriminazione palese che deve cambiare. In diversi ambiti della loro vita, inclusi matrimonio, divorzio, lavoro e cultura, le donne iraniane sono soggette a restrizioni o necessitano del permesso dei loro mariti o tutori paterni, privandole di autonomia e dignità umana. Questi costrutti sono completamente inaccettabili e devono essere riformati ora", ha detto.
(Fonte: women.ncr)


MAROCCO: CONFERMATA CONDANNA A MORTE PER LO STUPRO E OMICIDIO DI UN RAGAZZINO

La Corte d'Appello di Tangeri, in Marocco, ha confermato il 7 aprile 2021 la condanna a morte di un uomo di 24 anni per il rapimento, stupro e omicidio di Adnane Bouchouf, un ragazzino di 11 anni, commessi nel settembre 2020.
La Corte ha anche confermato le condanne detentive di altri tre imputati, i coinquilini del principale colpevole. I tre uomini hanno ricevuto quattro mesi di carcere ciascuno per non aver denunciato il crimine.
L'autore del crimine aveva presentato appello nonostante le prove dimostrassero le sue responsabilità nello stupro e omicidio della vittima.
Il caso risale al settembre 2020, quando l'imputato rapì Adnane Bouchouf e lo costrinse a entrare in casa sua, dove lo violentò.
Adnane Bouchouf scomparve il 7 settembre. La sua famiglia, i vicini e i servizi di sicurezza tentarono di trovarlo diffondendo volantini e condividendo le sue foto online.
I cittadini marocchini reagirono alla sua scomparsa mobilitandosi, condividendo invano le sue foto su tutti i social network.
Avendo notato l’attenzione generale sul caso, l'imputato si sarebbe precipitato da un barbiere del quartiere per cambiare aspetto.
Tuttavia, il filmato di una telecamera di sicurezza mostrava un giovane che parlava con Adnane Bouchouf prima di allontanarsi con lui.
L'imputato ha negato di aver violentato il ragazzino, affermando che Adnane fosse caduto dalle scale, il che avrebbe portato alla sua morte.
La Corte d’Appello ha tuttavia stabilito che l'imputato abbia violentato e ucciso Adnane Bouchouf.
I servizi di sicurezza trovarono il suo corpo sepolto in un giardino nei pressi dell’abitazione della vittima.
Il crimine ha suscitato molto scalpore in Marocco, portando diverse ONG locali a chiedere una severa punizione per il principale responsabile.
(Fonti: Morocco world news, 07/04/2021)

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