"A Zurigo, sulla luna. Dodici mesi in Paradeplatz" di Yari Bernasconi e Andrea Fazioli (Gabriele Capelli Editore)

 

dire le cose non è raccontarle e
spiegarle men che meno; è accettare
che esista il binario e pure il treno
e l'unico senso è che noi
 non ci saremo” (Fabio Donalisio)
 
Questi non sono giorni facili. Non ne ho quasi mai di veramente belli e positivi (e chi li ha?). Ma questi che sto vivendo fanno parte proprio dei giorni di merda, quelli che ti restano addosso per mesi, procurano ferite che prima di cicatrizzarsi ci vorrà del tempo. Alcune volte mi si spegne davvero il cervello e precipito così in basso che preferirei essere morto piuttosto che rimanere in quello stato e far preoccupare chi mi sta accanto, lei. Ho la fortuna di avere una compagna straordinaria, i libri, la scrittura e il lago. Non sono medicina mala parte migliore che sta dentro di me. Quella brace che per ora non si è ancora spenta.

Ieri sera mi sono fatto accarezzare da “A Zurigo, sulla luna. Dodici mesi in Paradeplatz” (GabrieleCapelli Editore) che è il racconto/scambio/carteggio/reportage letterario degli incontri mensili fra due letterati ticinesi, il poeta Yari Bernasconi e lo scrittore Andrea Fazioli, in Paradeplatz, la piazza finanziaria di Zurigo, uno dei centri economici piu' importanti e misteriosi del mondo intero. Un giorno al mese per dodici mesi, scambiandosi impressioni e aneddoti, leggendo poesie, meditando, osservando l'umanità variegata che li circonda, perdendosi in un reticolo di pensieri e strade, patendo il freddo, infilandosi nel sottosuolo dell'anima e della città, ascoltando, tacendo, dormendo, scrivendo. Pagine che mescolano toni poetici ad altri più descrittivi ma che restituiscono al lettore, in tutte le sue contraddizioni, il fascino di una delle piazze simbolo della Svizzera, la meraviglia dell'incontro, il mistero delle parole, la bellezza della poesia che ti mette a nudo ogni volta che ti siedi su una panchina e cominci a leggere.

Dunque i luoghi, stando a quello che mi mostra la tecnologia, continuano a esistere anche quando non ci siamo. Eppure ho la netta impressione che Paradeplatz, in mia assenza, osservandola da dietro chip e microchip, sia qualcosa di diverso. Per cominciare è più fredda e distante. Così come mi era sembrata qualche settimana fa, transitandoci per casa, per altri motivi, diretto da tutt'altra parte, senza taccuino e senza tempo per fermarmi. Quasi disturbato dall'idea di essere lì in quelle condizioni.” (pag. 51)

Mentre lo leggevo ho pensato alla mia panchina preferita qui a Lugano, in una zona centrale ma discosta, luminosa e fronte lago. Alle mie spalle una banca, un bar, Casa Torre di Rino Tami, la Migros, il traffico e davanti a me il lago, le barche, il San Salvatore mangiato in due, la cintura fredda del lungolago. Quando non lavoro e ho voglia di stare fuori di casa ci vado la mattina presto e me ne vado verso le 10.30-11. Mi porto sempre con me qualcosa da leggere, la borraccia con l'acqua e un blocchetto di appunti. Non è detto che scriva o legga. Mi basta anche solo rimanere a guardare il lago e rilassarmi, cercando di cogliere l'attimo in cui un nibbio calerà in picchiata sullo specchio d'acqua per afferrare un pesce o invidiando coloro che stanno in mezzo al lago a pescare o imparano a governare una barca a vela.

Non so quanto si possa considerare permalosa una piazza. Vero è che Paradeplatz, nel momento del bisogno, non si fa problemi a fartela pagare.” (pag. 67)

Circondato da un'umanità di ogni genere: la donna con le ciabatte bianchge che porta a spasso ai tre barboncini della padrona che poi la chiama al telefono per dirle di stirare quel tale vestito, i due tossici che sembrano usciti da un film di Kevin Smith che arrivano con le birre da mezzo litro e si mettono a parlare di calcio e politica prima di partire verso il parco e comprarsi la dose, i turisti che scattano foto all'orizzonte vestiti come se dovessero scalare l'Everest, le ragazze bellissime che si sistemano il trucco prima di andare in centro, gli spazzini che svuotano cestini o fumano la sigaretta nei pochi minuti di pausa discutendo con commessi e ausiliari del traffico, i pensionati che leggono i giornali gratuiti, i muratori del vicino cantiere che gridano e che quando passa una ragazza si zittiscono tutti per darsi un tono, un anziano tifoso del Lugano che mi chiede sempre “Come andrà quest'anno? Salvezza, te lo dico io, salvezza”, le mamme col volto tirato che cercano in tutti i modi di non far piangere il bambino nel passeggino, tantissimi cani che pisciano e cagano senza sosta, le anziane che rispondono alle domande complicatissime dei nipoti, le coppie che si baciano e si scattano selfie e lo vedi che hanno voglia di scopare, le donne di sessant'anni piene di tatuaggi e vestite come se lavorassero in un bordello, l'uomo che sta sempre al telefono e non capisco se abbia davvero i soldi o abbia solo voglia di farsi sentire, la donna fanatica della Settimana Enigmistica che si pulisce le orecchie con la punta della penna e tanti tanti altri che mi stanno offrendo alcuni spunti per un racconto.

E chissà tutti loro cosa penseranno di me, pallido, vestito di nero, con gli occhiali da sole, il cappellino nero.

Forse niente, forse avranno costruito una storia su di me, forse la mia presenza li infastidisce, forse sono diventato parte integrante del fondale, forse sono invisibile, non esisto.

E cosa penserà di noi il lago?

E perché sempre questo dannato preoccuparmi di cosa pensano gli altri di me? Questa sensazione di essere sempre osservato, studiato, frainteso, capito, amato, odiato, dimenticato, desiderato, deriso? Questa sfinitezza che provo sin da piccolo? Perché non posso semplicemente scomparire senza lasciare traccia? Perché non riesco a chiudere gli occhi senza ritrovare tutto quell'orrore che mi accompagna?

E perché non riesco a liberarmi di tutte le mie paure, pensieri negativi, ossessioni come quando me ne sto in acqua, trascinato dalla corrente? Cosa resterebbe di me? Forse niente. Forse solo una vita del cazzo e un conto in banca ridotto a zero.

Rimarranno tutti i miei libri.

Che pero' mi piacerebbe vederli bruciare su una spiaggia.

Paradeplatz è Paradeplatz. Ma è anche Paradeplatz. Seguendo Yari nel paese delle meraviglie, mi accorgo che le piazze sono almeno due: quella indaffarrata (scarpe lucide, borse di pelle, cravatte) e quella trasognata (agenti segreti, dame stilnoviste, brucaliffi). Perciò torniamo a Zurigo, mese dopo mese. E perciò scriviamo: per passare dal singolare al plurale. Così la prossima volta potremo darci appuntamento ai soliti posti.” (pag. 25)

 


 

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