"L'identità" di Milan Kundera (Adelphi, traduzione di Ena Marchi)

 

Prima di queste poche righe ci sono tutta una serie di appunti, riflessioni, spunti nati dalla rilettura de “L'identità” di Milan Kundera (Adelphi, traduzione di Ena Marchi) che non ho alcuna voglia di condividere o pubblicare perchè un romanzo talmente bello (e a 42 anni ho compreso tanti tanti passaggi che allora mi erano risultati forse un po' distanti e allora non avevo mai una avuto una relazione, non avevo fatto l'amore, non avevo scopato, non avevo tradito, non ero stato tradito, non avevo desiderato donne irraggiungibili e di altri...) come questo non necessita di altre parole se non l'invito a leggerlo. 

Prendetevi del tempo, leggetelo con calma, non fatevi prendere dalla fretta. 

Avevo 19-20 anni quando ho letto per l aprima volta questo romanzo. Me lo consigliò una ragazza che è stata fondamentale nella mia vita e che amava alla follia l'autore boemo trapiantato in Francia. La ragazza che mi ha dato il coraggio di inviare alle case editrici i miei primi scritti. Che mi invitò a casa sua, nella sua stanza e che mi lasciò parlare e che mi permise di ascoltarla senza mai aprire bocca. Un'amica vera. Una ragazza e intelligente bellissima che è diventata una donna ancora più bella, intelligente, sensuale, pungente, feroce, libera. Che ascoltava i Nirvana, i Kyuss, i Nine Inch Nails, che mi fece vedere La vita sognata degli angeli. Che non aveva alcun problema a seguire Non è la Rai, Amici e Uomini e donne. Senza di lei non avrei conosciuto altre persone che hanno segnato la mia vita. Non mi sarei sfogato. Non avrei trovato la bellezza. Sono anni e anni che non ci incontriamo, che parliamo, che ci confidiamo. Tutta colpa mia. La vita va così. Ci siamo rivisti un paio d'anni fa a Lecco e quando ci siamo abbracciati ho trovato quelle stesse ossa e quel seno durissimo di un tempo. Le labbra rosse e gli occhi vivi, penetranti. Una donna capace di far girare la testa a gran parte degli uomini che incontrava. Una che ti ammalia con lo sguardo. Una piccola dea inafferrabile. 

E ho pensato a lei anche per la camicia da notte rossa che compare in questo romanzo.

Non potrò che ringraziarla. per il resto della mia vita.

Un estratto che mi ha fatto pensare molto a lei e che chissà oggi quanto scalpore potrebbe creare:

Stanca dopo quella brutta nottata, Chantal uscì dall'albergo e si diresse verso il mare. Per strada incontrò dei turisti da week-end che procedevano a gruppi, tutti composti secondo lo stesso schema: l'uomo spingeva un passeggino con dentro un bimbo, la donna gli camminava accanto. L'uomo aveva un'aria pacioccona, sollecita, sorridente e lievemente imbarazzata, e sembrava pronto in qualsiasi momento a chinarsi verso il piccolo, a soffiargli il naso, a calmarlo se piangeva. Il viso della donna aveva un'espressione annoiata, distante, sussiegosa, a volta addirittura (inspiegabilmente cattiva). Quello schema, Chantal lo vide ripropodotto in diverse varianti: talvolta l'uomo camminava accanto alla donna spingendo il passeggino e al tempo stesso portando sulla schiena un bambino infilato in una specie di zaino; oppure l'uomo camminava accanto alla donna spingendo il passeggino, con un bambino sulle spalle e un altro in un marsupio sulla pancia; o ancora, l'uomo camminava accanto alla donna, senza passeggino, ma tenendo un bambino per mano e portandone altri tre, rispettivamente sulle spalle, sulla pancia e sulla schiena. Per finire, vide una donna, senza uomo che spingeva il passeggino con un'energia ben superiore a quella degli uomini, tanto che, per evitarla, Chantal fu costretta a saltare giù dal marciapiede all'ultimo momento. Gli uomini, pensa Chantal, si sono “papaizzati”. Non sono più dei padri, ma solamente dei papà, ossia dei padri cui manca l'autorità di un padre. E immagina se stessa nell'atto di sedurre un papà che spinge il passeggino con dentro un bimbo e ne porta un altro sulla schiena e un altro ancora sulla pancia: approfittando di un momento in cui la moglie si è fermata davanti alla vetrina di un negozio, lei sussurra una proposta all'orecchio del marito. Come reagirebbe? L'uomo trasformato in un albero di bambini sarebbe ancora capace di voltarsi a guardare una sconosciuta? I bambini che porta appesi sulla schiena e sulla pancia non si metterebbero a urlare, infastiditi da quel movimento inopportuno? Questa idea le pare buffa e la mette di buon uomre? Vivo in un mondo, pensa, nel quale gli uomini non si volteranno mai più a guardarmi.” (pp. 20-21)

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