Intorno a "Mill Town - La resa dei conti" di Kerri Arsenault (Edizioni Black Coffee, traduzione di Umberto Manuini)

 

 
Le cittadine come la nostra sono sempre state custodi di tempi andati, tempi migliori, dove il passato concede sollievo come una favola che si conosca a memoria: lo si capisce dall'architettura, dalle nostre tradizioni, dalla velocità a cui viaggiano i pettegolezzi o le buone notizie. Ma ogni volta che torno a casa scopro una nuova versione dell'America rurale che sta prendendo piede e non è per niente felice. In questa versione non vedo mai i cortili pieni di bambini che risolvono le loro dispute e corrono a casa al tramonto. È piuttosto una versione in cui i vecchi non possono andare in pensione perché devono continuare a lavorare, perché non possono vendere la casa, perché il paesaggio è stato violentrato. Che cosa è andato storto? C'é un legame con l'inquinamento che secondo me ci stava facendo ammalare, o è qualcos'altro? Oppure questa nuova America è solo il prodotto della troppa scelta che la mia generazione ha avuto, come ha detto Brenda, o della mancanza di scelta patita dai nostri genitori?” (pag. 91) 
 
Sono cresciuto guardando la fabbrica dove lavorava mia madre. In un paese che ha come vera e propria piazza principale una fabbrica chimicotessile con quasi 400 dipendenti in paese e molti altri altrove. La Limonta. La famiglia che l'ha fondata viveva nella stessa corte della mia famiglia materna e il bell'appartamento dove sono cresciuto e dove vive ancora oggi mio padre è di loro proprietà. Ma il mio paese è un paese industriale con tantissime piccole e grandi azienda e tantissimi piccoli e grandi capannoni. L'Officina. Le piccole e grandi tessiture. E poi la cava della multinazionale svizzera Holcim sul confine del paese. Sono cresciuto fra camion che sfrecciavano sulla strada, bidoni e mio padre che tornava a casa che puzzava di prodotti chimici. I prodotti chimici gli hanno mangiato le mani. E il viso. E il tumore, per fortuna benigno, che gli ha preso il volto è stato sconfitto. I miei occhi sono pieni di ciminiere, capannoni, muletti, bidoni, telai. Sono nato e cresciuto in un paese industriale. Metalmeccacnico, chimico, tessile. Bagnato dal fiume Lambro, uno dei più inquinati d'Italia. Davanti a me la ferita aperta del Monte Cornizzolo, scavato, distrutto, risucchiato e in questi ultimi anni vittima di ritocchi per renderlo più accettabile. Sono un figlio di gente che ha conosciuto da sempre la fabbrica. Figlio di gente povera. Di una madre che comincia a lavorare sin da adolescente. Figlio di albergatori e piccoli tessitori. Gente di sinistra. Gente morta. Figlio di orfani. Di gente che non ha mai avuto un cazzo. Di ciabattini e camiciai. Di operai chimici e metalmeccanici. Prima di sposarsi mia madre dormiva in una casa che le case mobili che si vedono nei film americani sembrano un paradiso. Siamo gente senza storia. Senza parenti. E che se anche li hanno quei parenti non riescono a stare appresso alle generazioni, alle filiazioni. Siamo dispersi. Siamo figli di quello che facciamo. Della miseria. Dell'arricchimento. Della guerra. E sulle mie mani ho le vesciche di questa sofferenza. Sapete cosa butto nei cessi del cinema quando li pulisco? Clorogel. Cloro. Perché non costa un cazzo. L'imperativo di tutti è risparmiare. Tanto non frega un cazzo a nessuno. Ma non frega un cazzo a nessuno di quello che accade a nessuno. E io mi sento disperso. 
 
Avrei voluto scrivere del bellissimo libro di Kerri Arsenault "Mill Town - La resa dei conti" (Edizioni Black Coffee, traduzione di Umberto Manuini) ma se io riuscissi a parlare un inglese accettabile mi sarebbe piaciuto parlarne con lei. Perché mi piacerebbe parlare di mia madre morta di tumore al colon e di altre sue parenti morte dello stesso tipo di tumore. Tutti che dicono dna. E mi piacerebbe anche parlare della puzza che la fabbrica ciclicamente ci scarica addosso ma. Ma no, non dobbiamo preoccuparcene. Respiri l'odore di merda che ti viene in gola, che sta proprio in mezzo al paese e no, me lo dice anche mo padre, ti dice che non te ne devi preoccupare. E non ci dobbiamo preoccupare di niente. I controlli li fanno, stai tranquillo. E alla fine tutti che parlano di inquinamento dell'aria ma il tumore ti è venuto perché mangi male, perché fumi ma mai per i gas di scarico, l'Eternit, le falde inquinate, le sostanze sparate nell'atmosfera e respirate in fabbrica, i diserbanti, i concimi. Ma quando muore uno degli imprenditori del paese, lo stesso che possedeva lo stabile cadente dove abitava mia madre e che mai aveva pensato di ristrutturare, lo celebrano in chiesa come un santo. Perché le fabbriche portano lavoro, ricchezza e qui siamo tutti ricchi. Cazzo. In paese siamo tutti ricchi. Strade pulite. Ma quella fabbrica ce l'abbiamo in mezzo. E ne abbiamo tante altre. E tantissimi che sono cresciuti con me lavorano in fabbrica. In quella fabbrica ci ha lavorato anche mia cugina. E quando uscivi dalle medie tutti dicevano: Perchè non vai a lavorare alla Limonta o alla Sirtori o alla Puricelli o dai Rossini? Odio e amore, perché sono loro che hanno garantito la crescita economica del paese, il benessere di molte famiglie che con quegli stipendi hanno potuto permettere ai propri figli di studiare, andare all'università, in vacanza al mare.
 
"Il passato è sempre stato una forza propulsiva a Rumford e Mexico. Ne facevamo un idolo, lo veneravamo, lo invitavamo a cene galanti e gli conferivamo dei premi. Perché non avremmo dovuto? Credevamo, senza che niente ci smentisse, che i successi del passato avrebbero aperto la strada a un futuro altrettanto glorioso. Questa convinzione si mescolava però a un senso di nostalgia, e finivamo col guardare più indietro che avanti. A causa di questo approccio, non siamo mai stati in grado di liberarci del passato, che dunque è diventato una presenza così ingombrante da sabotare il futuro della nostra città, come un pianete che intrappoli un satellite incapace di sfuggire alla sua forza di gravità" (pag. 77)

A Kenny Arsenault avevo promesso una recensione.

Ma mi è uscito questa specie di lunga premessa, uno sfogo, un urlo pieno di tutti quei pensieri e sentimenti mi hanno riempito il cuore mentre lo stavo leggendo.

 
Ho risentito l'odore di trielina che aveva addosso mio padre.

E il suo olfatto andato in merda.

E io che la produzione l'ho fatta e tanti amici come me.

E la mia compagna che ha lavorato in fabbrica e per i turisti.

E io che lavoro riempiendo container di immondizia.

Che poi finisce nell'inceneritore.

Butto immondizia che spesso sono scarti del cibo che produco io stesso e che arriva dalla Cina. Mais. Popcorn. Carta che arriva dalle foreste. I sacchetti. E butto bottiglie di acqua, Coca Cola, Fanta, Rivella, Sprite, Tè bevute a metà. Patatine abbandonate sui sedili. Salse acquistate ma mai assaggiate. Brandelli di pizza. Cioccolato. Sushi. Vodka. Birre. Bibite energetiche. Prendo e butto. Torte per compleanni mangiate a metà. Butto. Ritireranno. Bruceranno. Lavoro perchè la gente sporca, getta, spreca. Se non lo facesse non avrei un lavoro col mio contratto a ore.

Il fiume ha generato la mia città, e la mente geniale di Chisholm l'ha plasmata. L'Androscoggin ci ha datto tutto ciò che potevamo desiderare – pesce, denaro, lavoro, partite di softball, balli scolastici. Ha portato l'acqua dove non ce n'era e ha funzionato da contenitore per tutto quello che non volevamo tenere. Fornirà energia alla cartiera fino al giorno in cui di alberi e umani non resterà traccia. Mentre guadagna velocità e determinazione, intrecciandosi a ogni cosa come filamenti di DNA, l'Androscoggin raccoglie tutto ciò che gli gettiamo in pancia, dalla diossina alla segatura, dal mercurio alle carcasse di auto, oltre alle nostre vite distrutte, i ricordi annotati da mio padre, i suoi sogni perduti. Non c'é un apice di drammaticità prima che il suo tortuoso cammino giunga al termine. Non esistono percorsi con esiti sicuri. Finalmente, senza fretta, cauto, quasi furtivo ma inesorabile, il fiume esce dai suoi confini con uno slancio esausto e scivola tra le braccia dell'oceano Atlantico.” (pp. 363-364) 

Eppure mi piace ancora essere circondato dai capannoni. Ne subisco il fascino. La fabbrica dove lavorava mia madre è stata abbattuta  per far posto a della anonime villette. Il quartiere si è impoverito, silenziato. C'è un bar e nient'altro che la domenica è pure chiuso. 

A Lecco mi piace tantissimo sbucare dal tunnel del Monte Barro e vedere all'orizzonte quel che rimane della città industriale affacciata sul lago.

E come la Arsenault anche io me ne sono andato via dal paese e dalle fabbriche.

Ma è impossibile non tornarci, anche solo con la mente.

Soprattutto quando hai un padre che ti parla quasi solo esclusivamente del lavoro che faceva, delle evoluzioni del suo settore, delle dinastie industriali per le quali ha lavorato e che lo hanno pagato tantissimo per le sue qualità.

Leggetelo questo libro.

Ne uscirete commossi.

Perché non è solo un saggio che parla di inquinamento e tumori ma anche una saga familiare, uno ritratto partecipe e commosso della classe lavoratrice e del sogno di riscatto e benessere di chi non ha mai avuto nulla. È la storia di una donna che ama il luogo dove è nata e cresciuta e sogna per lui un futuro diverso e migliore.

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