"Gioventù" di Tove Ditlevsen (Fazi, traduzione di Alessandro Storti) + Taylor Swift e Lana Del Rey

 

"Nel mio primo lavoro sono durata solo un giorno". 

Questo è il fenomenale incipit di "Gioventù" (Fazi, traduzione di Alessandro Storti), secondo emozionante capitolo della trilogia di Copenaghen della scrittrice danese Tove Ditlevsen pubblicato nel 1967, dopo il bellissimo "Infanzia" di cui mi sono innamorato. Davvero una grande "scoperta" questa autrice e adesso, dopo che in questo libro l'autrice diventa indipendente dalla famiglia e comincia ad affermarsi come poetessa, sono molto curioso di leggere il terzo e ultimo capitolo "Dipendenza".

Qualche estratto:

"Mi torna in mente lo spettro della mia infanzia, l' "operaio affidabile". Non ho niente contro l'operaio, è la parola "affidabile" a sbarrare la strada verso ogni sogno luminooso sul futuro. È grigia come un cielo di pioggia che non lascia trapelare nessun allegro raggio di sole." (pag. 17)

"Dopo che se n'è andato, mi guardo intorno, mentre sto in mezzo alla mia famiglia, a questi volti che mi circondano fin dall'infanzia, e li trovo stanchi, invecchiati, come se gli anni che io ho impiegato a diventare adulta li avessero totalmente consumati. Perfino le mie cugine, che non hanno poi tanti anni più di me, hanno un'aria affaticata, logorata. Mio padre è molto taciturno e serio, come ogni volta che porta il vestito della domenica. È come se la fodera fosse fatta di pensieri cupi e pesanti, che lui indossa insieme a quel completo." (pag. 28)

"Mi dispiace per la morte di zia Rosalia, ma non tanto quanto mi sarebbe dispiaciuto se fosse avvenuta quand'ero bambina. Quella notte, dormo con la finestra aperta, nonostante il baccano dei Bing e Bang, e non l'ora di liberare la casa da questo puzzo micidiale e soffocante. La morte non è il pietoso sonno che credevo un tempo. È brutale, rivoltante e maleodorante. Mi stringo tra le mie stesse braccia e gioisco della mia giovinezza e salute. A parte questo, i miei anni verdi non sono altro che una carenza, un impedimento, del quale non sarà ma troppo preso per sbarazzarmi." (pp. 11-112) 

 


 

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