NESSUNO TOCCHI CAINO - STATI UNITI, DUE MODI DIVERSI DI PASCOLARE LE PECORE CATTIVE FINITE NEL BRACCIO DELLA MORTE

 

NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM

Associazione Radicale Nonviolenta
Transnazionale Transpartitica

Anno 25 - n. 8 - 22-02-2025

LA STORIA DELLA SETTIMANA

STATI UNITI, DUE MODI DIVERSI DI PASCOLARE LE PECORE CATTIVE FINITE NEL BRACCIO DELLA MORTE

NEWS FLASH

1. QUELLA ILLUSIONE AUTORITARIA DI RIEDUCARE ATTRAVERSO LA CARCERAZIONE
2. IRAN: 6 UOMINI GIUSTIZIATI A ISFAHAN PER DROGA
3. USA: ‘DIRETTORE, SONO PRONTO’, DOCUMENTARIO SULLA PENA DI MORTE VISTA ANCHE DAL PUNTO DI VISTA DEL FIGLIO DI UNA VITTIMA
4. ARABIA SAUDITA: DUE GIUSTIZIATI PER TRAFFICO DI HASHISH E OMICIDIO

I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA

VENEZIA: 28 FEBBRAIO VISITA AL CARCERE E PRESENTAZIONE DE ‘LA FINE DELLA PENA’




STATI UNITI, DUE MODI DIVERSI DI PASCOLARE LE PECORE CATTIVE FINITE NEL BRACCIO DELLA MORTE
Valerio Fioravanti

In ambito protestante, quelli che noi chiamiamo sacerdoti, o preti, si chiamano “pastori”. Nelle intenzioni di Lutero questo voleva rimarcare, in polemica con il cattolicesimo, che la chiesa è una emanazione degli uomini, non di Dio. Non esistono persone che hanno ricevuto una particolare chiamata “sacra”, da Dio in persona, ma sono, più terrenamente, persone esperte della lettura delle Scritture, e che in nome di questa cultura sono in possesso dei rudimenti per essere “buoni pastori dei loro greggi”.
A volte le pecore si perdono, e conosciamo tutti la parabola del buon pastore che lascia il gregge principale per andare a cercare quella smarrita. Due storie di pastori protestanti negli Stati Uniti, apparse sui media a distanza di 24 ore, ci raccontano che a volte si smarriscono le pecore, e a volte, forse, i pastori.
In Texas, Steven Nelson, 37 anni, bianco, è stato giustiziato con un’iniezione letale il 5 febbraio 2025. Nel 2011, rapinando una chiesa, uccise un giovane pastore, e ferì gravemente l’anziana “perpetua”. Si trattava di una chiesa di culto Battista, anche se, immagino, la variante del culto risultasse del tutto indifferente al tossicodipendente Nelson, che cercava solo delle vittime facili. Dopo l’esecuzione un giornalista è andato ad ascoltare il sermone della domenica del pastore “senior” della stessa chiesa, Dennis Wiles, e visto che non aveva speso una parola per il giustiziato, ha pensato di intervistarlo su questo silenzio. “Come chiesa, quello che abbiamo fatto negli ultimi 14 anni è stato adempiere alla nostra responsabilità pastorale, e abbiamo pastorato la famiglia di Clint e la famiglia di Judy. La mia responsabilità, a mio parere, è quella di continuare a guidare questa chiesa e pascere quelle due famiglie”. Le due famiglie delle vittime.
Anche dopo il garbato sollecito del giornalista, non una parola per il criminale. Né di pietà, né niente. Come se la pecora smarrita, smarritissima, non rientrasse nemmeno di sfuggita nel disegno divino.
In Tennessee, nel braccio della morte, un’altra chiesa protestante, in questo caso Evangelica, ha autorizzato uno dei detenuti, Kevin Burns, a essere ordinato pastore.
Burns, figlio a sua volta di un pastore, a 19 anni era rimasto coinvolto come “palo” in una rapina costata la vita a due giovani. Riscoperta la Bibbia in carcere, a un certo punto, era diventato “vice” del pastore Kevin Riggs, che dalla locale chiesa Evangelica andava la domenica a officiare messa per i condannati a morte.
Riggs nel 2016 parlò con i suoi superiori dell’idea di ordinare Burns. Dopo attenta riflessione, si dichiararono d’accordo, ma non volevano che fosse un gesto spettacolare, di propaganda, o di pietà. Volevano che Burns seguisse lo stesso processo di ordinazione di ogni altro candidato “libero”.
Non gli è stato chiesto di laurearsi in seminario, questo non era possibile, ma dopo avergli fornito i libri necessari, e con il Pastore Riggs che gli ha fatto da tutor, quando è stato il momento di sottoporlo all’esame di abilitazione non gli sono stati fatti sconti. Superato il vaglio sulle sue conoscenze teologiche, sulla sua fede, sulla sua vocazione di ministro, sulla teologia, sulle Scritture, e su questioni sociali, il condannato Burns nel 2018 ha potuto celebrare un servizio di ordinazione nel braccio della morte, con i suoi genitori e sua sorella presenti insieme a Riggs e altri. L’amministrazione del carcere di Riverbend, ha detto, ha fatto l’impossibile per organizzare la funzione. Tutti hanno cantato inni e pregato. Riggs ha tenuto un discorso di ordinazione, poi Burns ha predicato e ha distribuito la comunione che per i Protestanti non avviene attraverso l’ostia, ma bevendo vino da un calice comune, e staccando un pezzo di pane da una pagnotta.
Da allora, negli ultimi 7 anni, è Burns che celebra messa nel braccio della morte, ed è lui che accompagna gli altri condannati nelle ore prima dell’esecuzione, sempre sperando che non tocchi a lui essere il prossimo. Riggs e altri volontari della chiesa madre spesso partecipano al rito domenicale e, viceversa, a Burns viene chiesto periodicamente di essere lui a tenere il sermone per i fedeli “esterni”. Può farlo utilizzando il diritto a telefonate settimanali di 30 minuti. Burns predica per telefono, e il suo mentore Riggs scherza con il giornalista che lo intervista, e racconta che alla sua congregazione piace quando è Burns a predicare: sanno che sarà limitato a 30 minuti, non come Riggs, che a volte parla un po’ più a lungo.
Storie di pastori, delle loro pecore nere, e delle forme misteriose che può prendere, o non prendere, la grazia.



NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

QUELLA ILLUSIONE AUTORITARIA DI RIEDUCARE ATTRAVERSO LA CARCERAZIONE
Diego Mazzola

Continuo a sognare a occhi aperti che un bel giorno vedremo crollare il Sistema Penale sotto la valanga dei suoi fallimenti e contraddizioni e che siano rasi al suolo tutti gli istituti carcerari penali di questo mondo. Già Aldo Moro credette al superamento del Sistema Penale, che da sempre si è basato sulla sofferenza procurata a chi viene recluso. In pratica, stiamo parlando di tortura, perché il carcere è tortura. Attenzione, dunque, quando si usano termini come “penitenziario”, “esecuzione della pena”, perché “pena” è solo ciò che ci muove quando vediamo il dolore negli occhi di animali e di persone sofferenti: il resto, se procurato, è solo tortura.
Ovunque nel mondo la pratica della tortura è stata ridotta – molto lentamente – nel tempo e infinite sono state, e sono ancora, le vittime di quella barbarie. L’associazione, alla quale da anni sono iscritto, non dice: Caino sia toccato in modo democratico o non sia ucciso o sia fatto soffrire in modo discreto e accettabile. Dice: Nessuno tocchi Caino!
Ciò che è messo in discussione è lo stesso diritto di far soffrire gli altri, anche quelli che ci sembra ne abbiano motivo.
Filippo Turati, alla Camera dei deputati, il 18 marzo del 1904, in un discorso memorabile che poi fu pubblicato in un opuscolo dal titolo “Il cimitero dei vivi”, affermava: «Noi crediamo di aver abolito la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura, la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano dal carnefice».
La Storia ci insegna quanto sia costato, e costi, l’aver lasciato che del “fare giustizia” si occupi la categoria dei magistrati, una volta gli Inquisitori, oggi gli Inquirenti. Si sa dell’orrore dei tribunali e dei luoghi di detenzione, della “naturale” capacità di errore nel giudizio, di catene e di suicidi, di quella che Foucault prima e Alain Brossat poi hanno definito la “società carceraria”.
Se vogliamo che un giorno le cose cambino, sarebbe logico invitare i cittadini, partendo dai ragazzi in età scolare, a riflettere sul perché la società sceglie di diventare un modello di crudeltà e di vendetta. Consapevoli noi tutti della pericolosità di alcuni nostri concittadini e di noi stessi, se provocati o coinvolti, sarebbe una matura scelta politica se decidessimo di non accettare che – nei confronti di essi come di noi stessi – sia usata la violenza per il reinserimento nella società. Sappiamo quanto sia importante tenere separate dalle altre le persone altamente pericolose.
Ma dovrebbe essere solo per il tempo necessario alla loro presa di coscienza. Non è sulla sofferenza dei reclusi che si basa la prospettiva del reinserimento e della sicurezza sociale.
Occorre far leva sul senso della dignità personale, quella che viene costantemente negata dalla carcerazione. È bene sempre ricordare Thomas Mathiesen che ha trascorso la sua vita a ripetere che «la ‘prigionizzazione’ è l’opposto stesso della riabilitazione, ed è l’ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento».
Perché ignorare Papa Francesco che implora l’amnistia nel mezzo della celebrazione del Giubileo? Forse perché si teme sia ridiscussa la natura stessa del Sistema Penale e la repressione come metodo nel rapporto tra il Potere e il cittadino? Ciò che dovrebbe sconvolgere tutti è proprio quella “Teoria della prevenzione generale”, su cui si fonda il Sistema Penale e su cui si articola il “modello retributivo”, ovvero l’idea di impedire, punendo l’autore di un reato, che altri intraprendano azioni criminose. Nella stupidità di quest’idea è andato a finire il cosiddetto “senso delle cose”.
Pensare che si possa processare e minacciare l’ergastolo per una studentessa che ha ucciso due sue creature seppellendole nel giardino di casa, significa credere che la malattia mentale sia volontaria e consapevole.
Il problema del carcere e l’idea di punire sono tutt’uno con la violenza, come pratica personale, sociale e politica. Questo è il punto: il carcere è il luogo in cui viene legittimato il metodo della violenza politica ed esercitata la vendetta sociale. Tocca a noi di indicare la via e le ragioni del confronto nonviolento e “farne bandiera”. Tacere non è ammesso nel confronto in corso tra Stato di Diritto e Ragion di Stato, tra democrazia e tentazione autoritaria.
Gli abolizionisti non sopportano che la violenza sia praticata come metodo (ri)educativo e regolamento dei conti e dei rapporti sociali. Chi pensasse di essere in grado di giudicare e ritenere di essere nel giusto nel far soffrire un proprio simile per ciò che si crede sia degno di punizione, faccia lo sforzo di capire che non esiste sofferenza che, inflitta ad altri, possa essere rivendicata come espressione di un libero pensiero o affermazione di coscienza individuale, tantomeno come ragione e diritto di uno Stato democratico.



IRAN: 6 UOMINI GIUSTIZIATI A ISFAHAN PER DROGA
Secondo un rapporto ricevuto da Hengaw, all'alba del 17 febbraio 2025 nella prigione centrale di Isfahan (prigione di Dastgerd) sono stati giustiziati sei detenuti.
Sono stati identificati come; Ezzat Hosseini Doraki (Duraki), 49 anni, di Fooladshahr; Ali Es-haqi (Eshaghi), 39 anni, di Zarrinshahr; Mohammad Shamseddin Arbab, 40 anni, di Kashan; Majid Baluca di Kerman; Heydar Babaei, 40 anni, di Dorud nella provincia di Lorestan; e Burhan Wasim-Zehi, 32 anni, di Fayzabad, Afghanistan.
Hengaw ha appreso che questi prigionieri erano stati recentemente trasferiti in isolamento dal reparto 4 della prigione centrale di Isfahan, e hanno avuto le ultime visite con le loro famiglie il giorno prima dell'esecuzione.
Secondo le fonti di Hengaw, i sei prigionieri erano stati arrestati quattro anni fa in casi separati con accuse legate alla droga.
Al momento della stesura di questo rapporto, queste esecuzioni non sono state annunciate dai media statali.
(Fonte: Hengaw)



USA: ‘DIRETTORE, SONO PRONTO’, DOCUMENTARIO SULLA PENA DI MORTE VISTA ANCHE DAL PUNTO DI VISTA DEL FIGLIO DI UNA VITTIMA
Per quasi 20 anni, Aaron Castro era certo di ciò che doveva accadere. John Ramirez doveva morire.
L'esecuzione di Ramirez era l'unico modo per assicurargli la giustizia che meritava. Ed era l'unico modo in cui Castro, il figlio della vittima di Ramirez, poteva far smettere di sanguinare il suo cuore, placare la costante rabbia che ribolliva dentro di lui e ottenere ciò che gli era sfuggito per due decenni: la “chiusura”.
Il desiderio di Castro di vedere quest'uomo morire è nato la notte del 14 luglio 2004, quando si è svegliato con una cacofonia di sirene della polizia e lampeggianti fuori casa sua. Uscendo di soppiatto, vide il corpo di un uomo riverso in una pozza di sangue vicino al minimarket che la sua famiglia gestiva a Corpus Christi, in Texas. Riuscì a capire che l'uomo morto era suo padre, Pablo Castro, 45 anni, solo perché riconobbe il suo cappello che giaceva a pochi metri di distanza, nella sporcizia. Ramirez, che all'epoca aveva 19 anni ed era fatto di droghe e alcol, aveva tentato di rapinare il negozio. Quando Pablo Castro ha opposto resistenza, si è scagliato contro di lui in un impeto di violenza. L'adolescente assassino è poi fuggito con un bottino di poco più di un dollaro. È fuggito in Messico, dove è rimasto in fuga per 4 anni, fino a quando è stato arrestato, scortato in Texas, processato e mandato nel braccio della morte. Aaron Castro aveva 14 anni quando suo padre è stato ucciso. Per anni la nota dominante della sua vita è stata la rabbia: "Per la maggior parte del tempo ero arrabbiato", ha dichiarato al Guardian. "Mio padre era un uomo che si faceva gli affari suoi, lavorava sodo, amava la famiglia e stare con i suoi figli. Cercava solo di sopravvivere. Ramirez ce l'ha portato via e per questo doveva essere giustiziato". Castro ha spesso immaginato come avrebbe reagito alla notizia che Ramirez era stato messo a morte: "Boom. Giustizia. La chiusura. La nube oscura si sarebbe diradata". Così sarebbe stato, ne era assolutamente sicuro. Non è andata proprio così. Catturata dalla telecamera in un nuovo straordinario documentario, “I Am Ready, Warden”, la storia ha un esito emotivo diverso. In 36 minuti avvincenti, il film accompagna lo spettatore in una corsa all'impazzata che, nonostante la lunghezza contenuta del film, arriva a toccare le contraddizioni più dolorose della pena di morte.
Candidato nella categoria “miglior documentario breve” agli Oscar del mese prossimo, I Am Ready, Warden segue gli ultimi giorni e le ultime ore di Ramirez mentre affronta l'esecuzione nel penitenziario di Huntsville in Texas. Scegliendo di esplorare un caso in cui la colpevolezza non è mai stata in dubbio, la giovane regista californiana Smriti Mundhra ha voluto fare un film sulla pena capitale negli Stati Uniti con una differenza. Mentre molti documentari si concentrano sulla questione dell'innocenza, Smriti Mundhra ha voluto affrontare altre scottanti questioni etiche, come la possibilità di perdono o la prospettiva di redenzione: "Volevo esaminare la pena di morte dal punto di vista di una persona che aveva effettivamente commesso un crimine", ha detto. "Negli anni successivi, nel periodo trascorso nel braccio della morte, come cambia una persona? È la stessa persona che ha commesso il crimine?" Mundhra è stata attratta dal reportage di Keri Blakinger, una giornalista inve stigativa del Los Angeles Times che all'epoca scriveva con forza sulla pena di morte per il Marshall Project. Blakinger stava seguendo la sfida legale di Ramirez, che da quando era stato condannato a morte aveva ritrovato la religione e stava facendo pressioni sulla Corte suprema degli Stati Uniti affinché gli fosse permesso di avere il suo pastore nella camera della morte, e che il pastore potesse toccarlo durante l'esecuzione. Per diversi mesi, Mundhra e Blakinger hanno seguito lo Stato del Texas mentre trascinava Ramirez lentamente - ma con insensibile crudeltà - verso la camera della morte. Hanno seguito il detenuto mentre esprimeva un profondo e apparentemente genuino rimorso, leggendo una lettera che aveva scritto come parte dei suoi studi di fede alla sua vittima, Pablo Castro: "Non ho mai voluto ucciderti, ma perché è successo, mi ha reso una persona migliore. Ha apportato dei grandi cambiamenti a ciò che sono, sai. Il film trasmette la profonda trasformazione di Ramire z, da adolescente spericolato e drogato che ha commesso un atto efferato ad adulto profondamente contrito che si lamenta delle decisioni prese da giovane. Forse non sorprende che lo Stato del Texas non mostri una tale capacità di ricalibrazione; si attiene rigidamente alla sua classificazione originaria di Ramirez come killer spietato che deve essere giustiziato.
Mundhra e la troupe sono presenti, con la telecamera accesa, durante il momento devastante in cui Ramirez, poche ore prima che la sua vita venga stroncata, dice addio al figlio che ha generato durante la fuga. Questa sembrerebbe una sequenza difficile da immortalare per qualsiasi film, ma una delle sorprese del documentario è che il suo colpo più grande si trova altrove: con Aaron Castro, il figlio della vittima, e la sua ricerca di "chiusura" che dura da due decenni. L'idea che l'uccisione di un assassino possa portare alla chiusura delle famiglie è una pietra miliare della pena capitale negli Stati Uniti. È fondamentale come giustificazione per un sistema che si dice sia riservato solo ai "peggiori tra i peggiori". Si sente invocare la "chiusura" ovunque si discutano casi importanti di pena di morte. Bill Barr, il procuratore generale del primo mandato di Donald Trump, l'ha citata a nome delle famiglie delle vittime quando ha dato il via all'orgia di esecuzioni federali che ha portato alla morte di 13 persone - l'ondata più intensa di uccisioni giudiziarie sotto qualsiasi presidente negli ultimi 120 anni. La scorsa settimana il nuovo procuratore generale di Trump, Pam Bondi, ha fatto di nuovo riferimento al concetto quando ha emesso una nota in cui prometteva di ripristinare la pena di morte federale. Ha steso un inno di quattro pagine agli omicidi di Stato, affermando che hanno ottenuto giustizia per le vittime "e chiusura per i loro cari".
Quando l'attentatore della maratona di Boston, Dzhokhar Tsarnaev, è stato condannato a morte nel 2015, il sindaco di Boston ha detto che sperava che ciò avrebbe fornito "una piccola parte di chiusura". Vent'anni prima, l'allora procuratore generale degli Stati Uniti, John Ashcroft, aveva accolto con favore l'esecuzione di Timothy McVeigh per l'attentato di Oklahoma City del 1995, affermando di sperare che avrebbe aiutato i sopravvissuti alla catastrofe a "soddisfare il loro bisogno di chiudere questo capitolo della loro vita".
(In quell’attentato due ex militari che avevano combattuto in Iraq, Timothy McVeigh e Terry Nichols, piazzarono un furgone carico di esplosivo sotto il “palazzo federale” di Oklahoma, che ospitava anche la sede locale del FBI, da loro inteso come simbolo del governo «usurpatore dei diritti dei cittadini americani». Le vittime furono 168, compresi 19 bambini che erano nell’asilo nido per le dipendenti, e circa 700 feriti. McVeight venne giustiziato nel 2001. L’esecuzione venne videotrasmessa in diverse città, per dare modo ai parenti delle vittime e ai feriti di “assistere”. Nichols venne condannato all’ergastolo senza condizionale in un processo federale, e a 161 ergastoli senza condizionale da scontare consecutivamente in un processo statale. Ndt)
Queste parole sono facili da pronunciare. Non esiste una risposta semplice, perché l'argomento è stato poco studiato. Uno degli unici studi in merito riguarda l'attentato di Oklahoma City. Jody Madeira, docente presso la scuola di legge Maurer dell'Università dell’Indiana Bloomington, ha seguito 33 famiglie delle 168 vittime dell'attentato. La sua ricerca ha prodotto il libro Killing McVeigh: The Death Penalty and the Myth of Closure (Uccidere McVeigh: la pena di morte e il mito della chiusura). Madeira si è confrontata con le famiglie fino al momento in cui McVeigh è stato legato a una barella, con la testa stretta dalle cinghie e lo sguardo fisso in una telecamera. L'immagine del pluriomicida, che guardava impassibile mentre gli venivano somministrate le droghe letali, è stata trasmessa su uno schermo per le famiglie delle vittime. L'esito è stato complicato, variegato e non è stato affatto racchiuso nel semplice pronunciamento di "chiusura" che Ashcroft aveva previsto. M adeira ricorda una donna in lutto che rimase scioccata nel ritrovarsi a riflettere sull'umanità di McVeigh al momento della sua morte: "Finì per sentire che la procedura, oltre a porre fine alla sua vita, lo umanizzava", ha detto Madeira. "E ricordo che disse che le sembrava di cadere in lui, sia nel senso della conoscenza, sia nel senso di cadere nei suoi occhi o nel suo sguardo".
Alcune delle famiglie si sentirono sollevate dal fatto che McVeigh fosse stato messo a tacere e non potesse più disturbarle con apparizioni in TV. Altri hanno provato una profonda delusione: "Direi che tutti coloro che si aspettavano una grande catarsi sono rimasti delusi", ha detto Madeira. "Si sono resi conto che un capitolo si era chiuso - quello della giustizia - ma che la morte non poteva chiudere tutti i capitoli perché non avrebbe mai riportato indietro il loro caro". La conclusione generale di Madeira è che la chiusura, così come viene abitualmente pubblicizzata dai sostenitori della pena di morte, "è una bugia. Dice alle famiglie in lutto che devono aspettare l'esecuzione per guarire, e questa è la cosa più traumatica e dannosa che si possa dire loro, perché la guarigione o il perdono devono venire dall'interno".
Aaron Castro era inizialmente esitante a partecipare a un film incentrato sull'assassino di suo padre. Era scettico sulle intenzioni dei registi e sul fatto che avrebbero trattato la storia di suo padre con sensibilità e rispetto. "Nell'era dei social media, le persone vogliono solo una storia triste da guardare per poter superare qualsiasi cosa stiano affrontando: non volevo farne parte", ha detto. Ma ciò che non si vede nel film è fondamentale quanto ciò che si vede. Al di fuori della macchina da presa, Mundhra ha trascorso settimane e mesi a guadagnarsi la fiducia di Castro attraverso innumerevoli telefonate: "Abbiamo avuto ore e ore e ore di conversazioni prima di arrivare alle riprese, prima che mi facesse visita", ha detto Castro. "Mi ha mostrato un livello di attenzione autentico, e questo è il motivo per cui ho scelto di aprirmi con lei".
Mundhra è d'accordo. “È stato solo negli ultimi giorni prima dell'esecuzione, dopo molti mesi di costruzione della fiducia tra me e Aaron, che ha accettato di partecipare”.
"Fino alla notte prima dell'esecuzione di Ramirez, Castro si è aggrappato alla sua fede decennale nella chiusura. L'assassino di suo padre sarebbe morto e lui avrebbe potuto andare avanti. Ma poi il dubbio si è insinuato nella sua mente. Era un lunedì sera, il 3 ottobre 2022. Mancavano meno di 24 ore all'esecuzione. Durante l'attesa, un parente chiese a Castro come si sarebbe sentito quando Ramirez fosse stato finalmente ucciso. Lui aveva già risposto da solo: si sarebbe sentito felice che finalmente si fosse chiusa la vicenda. Ma questa volta, qualcosa fece fermare Castro e riflettere più intensamente. Come si sarebbe sentito davvero, davvero, davvero? In che modo la morte di un'altra persona, la perdita di un'altra vita, lo avrebbe aiutato?
La sera seguente, all'avvicinarsi dell'esecuzione prevista per le 18.00, Castro si è sistemato davanti al tavolo della sua cucina. Si è seduto ad ascoltare un programma radiofonico che veniva trasmesso dall'esterno della camera della morte. Mentre alcuni dei suoi parenti hanno assistito all'esecuzione come testimoni, Castro ha scelto di non andarci. "Ho deciso che non avevo bisogno di vedere. Mundhra aveva piazzato una cinepresa in cucina, proprio di fronte a lui. Ma la regista aveva costruito con cura la stanza per essere il meno invadente possibile. "Quando ci siamo avvicinati alle 6, ho deciso di nascondermi dalla sua linea di vista", ha ricordato. "Mi sono accovacciata in basso, in modo che non potesse vedermi. Volevo che avesse una parvenza di privacy e che non si sentisse obbligato a parlare o a razionalizzare qualcosa per me".
Infine, dalla radio è arrivata la notizia: "Se state ascoltando, John Ramirez è morto a Huntsville". Sarebbe ingiusto cercare di descrivere ciò che è accaduto dopo. Come ha notato Blakinger, questa è stata un'occasione in cui le parole sono state completamente superate dall'immagine in movimento: "Tutto ciò che ho trattato sulla pena di morte è stato filtrato attraverso la lente delle mie parole", ha detto. "E qui abbiamo le immagini crude della reazione fisica di Aaron durante l'esecuzione, cosa che come reporter che lavora con le parole non avrei mai potuto fare". Basti dire che Castro rimane avvolto nel silenzio per quello che sembra un eone, poi inizia a piangere: "Oggi è stata persa una vita, presa troppo presto, proprio come quando avevo 14 anni", dice. "Non ho intenzione di festeggiare. Non è un momento da festeggiare". Sono passati quasi tre anni dall'esecuzione. Castro ha detto che in questo lasso di tempo ha riflettuto sul motivo per cui ha avuto un cambiamento d'a nimo così drammatico al momento dell'esecuzione di Ramirez. In parte è stato lo shock di rendersi conto che le iniezioni letali erano state eseguite, dopo tanti stop e start giudiziari. "Lo shock per il fatto che fosse realmente accaduto è stato sconvolgente", ha detto. Ma soprattutto è stata la comprensione viscerale del fatto che l'uccisione di Ramirez, dopo tutto, non lo avrebbe guarito. "La nube oscura non si era dissolta, era ancora lì. Castro ha ancora i suoi alti e bassi. Ci sono giorni in cui odia Ramirez con la stessa passione di quella prima notte. Ma dal secondo in cui è stata annunciata l'esecuzione, è stato chiaro che vuole porre fine a quello che chiama il ciclo di odio e rabbia incarnato dalla pena di morte.
"Si ferma qui", ha detto.
E c'è un'altra cosa su cui è chiaro: togliere una vita non gli ha dato “chiusura”, una conclusione. Il suo desiderio che l'assassino di suo padre venisse ucciso è morto insieme a Ramirez. "Nessun essere umano dovrebbe essere incaricato di togliere la vita a un altro", ha detto. "Questo vale per entrambe le parti: l'assassino e il boia. Non so chi aiuti. Posso solo dire che non ha aiutato me".
I Am Ready, Warden può essere visto su Paramount+
(Fonte: The Guardian, 13/02/2025)



ARABIA SAUDITA: DUE GIUSTIZIATI PER TRAFFICO DI HASHISH E OMICIDIO
Le autorità saudite hanno giustiziato un cittadino somalo condannato per traffico di droga e un cittadino saudita riconosciuto colpevole di omicidio, ha annunciato il Ministero degli Interni il 16 febbraio 2025.
Il somalo, identificato come Mohamed Nur Hussein Ja'al, era stato arrestato per aver tentato di trafficare hashish in Arabia Saudita.
Un tribunale specializzato lo aveva dichiarato colpevole e condannato a morte con pena tazir, una sentenza discrezionale nella legge islamica per i reati gravi.
Dopo un appello, la Corte Suprema aveva confermato la sentenza e un decreto reale ha autorizzato l'esecuzione, che è stata praticata il 16 febbraio a Najran, nell'Arabia Saudita meridionale.
Hussein è stato decapitato, in conformità con le pratiche di esecuzione dell'Arabia Saudita.
La sua famiglia, in una dichiarazione a SMS Somalia TV, ha accusato le autorità di Riad di aver praticato un'esecuzione ingiusta, sostenendo che il figlio non abbia ricevuto un giusto processo.
La famiglia ha inoltre affermato che a Hussein è stato dato scarso accesso alla rappresentanza legale o alle opportunità di appello. L'Arabia Saudita applica uno dei sistemi legali più severi al mondo, con la pena capitale spesso praticata per reati legati alle droghe, omicidio e accuse di terrorismo.
Il Ministero degli Interni ha affermato che le esecuzioni rafforzano la posizione del governo contro il traffico di droga e i crimini violenti, sottolineando che i trasgressori sono soggetti a severe conseguenze legali.
Almeno 50 cittadini somali si trovano attualmente nel braccio della morte in Arabia Saudita, principalmente per reati legati alle droghe. Molti di loro, affermano i gruppi per i diritti umani, sono stati costretti o ingannati a trafficare sostanze illecite sotto minacce o false offerte di lavoro.
Il governo somalo e le missioni diplomatiche hanno chiesto clemenza per conto di questi prigionieri. Il consolato somalo a Jeddah afferma di essere stato impegnato in trattative dirette con i funzionari sauditi, cercando di commutare le condanne a morte in lunghe pene detentive.
Anche le famiglie di coloro che sono nel braccio della morte hanno chiesto un intervento governativo più forte per impedire ulteriori esecuzioni.
Il governo somalo ha una posizione complessa sulla pena di morte. Mentre la Somalia stessa applica la pena capitale, in particolare per omicidio, tradimento e crimini legati al terrorismo, il suo governo è intervenuto attivamente a favore dei cittadini che rischiano l'esecuzione all'estero. Tuttavia, i critici sostengono che gli sforzi diplomatici siano stati deboli nell'impedire l'esecuzione di somali in Paesi con codici legali rigidi come l'Arabia Saudita.
(Fonte: Hiiraan, 17/02/2025)



I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA

VENEZIA: 28 FEBBRAIO VISITA AL CARCERE E PRESENTAZIONE DE ‘LA FINE DELLA PENA’

LA FINE DELLA PENA
VISITARE I CARCERATI 2025
VENEZIA

28 febbraio 2025
Ore 11:00 visita al carcere della Giudecca
Ore 18:00 presentazione de “La fine della pena”
Isola della Giudecca 212
Fondamenta San Giacomo

In ricordo di Andrea Franco

Saluti di accoglienza
Mara Rumiz

Intervengono
Rita Bernardini I Anna Capovilla I Massimiliano Cristofoli Prat I Matteo D’Angelo I Sergio D’Elia I Gianluca Liut I Andrea Martella I Giulia Ribaudo I Sonia Sommacal I Alessandro Tessari I Paolo Ticozzi I Samuele Vianello I Elisabetta Zamparutti

Info 335 6153305





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