Guido Vitiello sul perchè sostenere NESSUNO TOCCHI CAINO

 Su Il Foglio Guido Vitiello spiega benissimo perchè mi sento a casa in Nessuno tocchi Caino e perchè è importante sostenerlo in un mondo di forcaioli, falsi garantisti, liberaloidi per l'argenteria di famiglia:

 

NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM

Associazione Radicale Nonviolenta
Transnazionale Transpartitica

Anno 25 - n. 17 - 26-04-2025

LA STORIA DELLA SETTIMANA

HA ABOLITO IL CARCERE, MA NESSUNO SE N’È ACCORTO. ALMENO UN ANNO DI RIDUZIONE DI PENA AI CARCERATI CHE PAPA FRANCESCO HA CHIESTO FINO ALL’ULTIMO RESPIRO

NEWS FLASH

1. SUPERARE L’IDEA OTTOCENTESCA DELLA PENA, LA RADICE DELL’ALBERO DELLE MELE MARCE
2. DL SICUREZZA: AUDIZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO, RITA BERNARDINI ANNUNCIA SCIOPERO DELLA FAME
3. IRAN: IL DETENUTO POLITICO CURDO HAMID HOSSEINNEJAD HAYDARANLU IMPICCATO IN SEGRETO
4. TEXAS (USA): GIUSTIZIATO MOISES MENDOZA




HA ABOLITO IL CARCERE, MA NESSUNO SE N’È ACCORTO. ALMENO UN ANNO DI RIDUZIONE DI PENA AI CARCERATI CHE PAPA FRANCESCO HA CHIESTO FINO ALL’ULTIMO RESPIRO
Sergio D’Elia

Papa Francesco è stato non solo un capo spirituale ma anche il Capo di Stato più attento allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani, soprattutto nei confronti degli ultimi. I migranti che ha accolto e protetto nel loro viaggio della speranza. Come il viaggio approdato nell’isola di Lesbo, alle porte dell’Europa, sbarrate. “Ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa”, gli scrisse poco prima di andarsene Marco Pannella dalla sua stanza all’ultimo piano, “vicino al cielo”. “Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano”. E i carcerati, che Papa Francesco, in comunione con Marco, ha difeso e visitato fino all’ultimo respiro in quell’opera cristiana di misericordia corporale, “visitare i carcerati”, a cui noi di Nessuno tocchi Caino laicamente e incessantemente cerchiamo di d are corpo.
Nel 2015 abbiamo conferito a Papa Francesco il nostro Premio L’Abolizionista dell’Anno per il suo impegno contro la pena di morte e non solo. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà – aveva affermato e invocato – sono chiamati a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, ma anche dell’ergastolo, che è “una pena di morte nascosta”. E contro la tortura, non solo quella che come primo atto del suo Pontificato classificò come reato che introdusse nei codici vaticani. Ma anche quella “forma di tortura che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza”. Dove “la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio”.
Dopo il Premio L’Abolizionista dell’Anno”, ci spiace non aver fatto in tempo a consegnare a Papa Francesco anche la tessera ad honorem di Nessuno tocchi Caino che nel 2025 gli abbiamo dedicato “per la sua universale opera di misericordia del Visitare i carcerati, per la sua straordinaria capacità di aprire le porte e i cuori alla speranza”. La conserveremo con cura e amore, quella tessera, nella nostra teca dei ricordi più preziosi e vivi.
È indimenticabile e di esempio per le future generazioni il messaggio radicalmente cristiano incarnato da Francesco: non giudicare, chi è senza peccato scagli la prima pietra. La sua opera di identificazione coi poveri cristi messi in croce nelle carceri di tutto il mondo. Chi l’ha mai fatto? Avete mai sentito un capo politico dire “Ogni volta che vengo in carcere la prima domanda che mi faccio è: perché loro e non io”? Papa Francesco lo ha sempre detto, l’ultima volta all’apertura della Porta Santa nel carcere di Rebibbia. Un atto straordinario quello di aprire la Porta Santa in un luogo chiuso, il carcere e, in tal modo, seduta stante, “liberare” i carcerati. Un atto simbolico, di apertura, con il quale il Papa ha chiuso il carcere. Dopo la tortura, la pena di morte, l’ergastolo e il 41 bis, Papa Francesco – anche se nessuno se n’è accorto – ha abolito il carcere, un istituto anacronistico, ormai fuori dal tempo e fuori dal mondo che del significato lette rale della parola, che dall’aramaico “carcar” trae origine, ha svelato tutta la sua essenza, quella di sotterrare, tumulare.
“È un bel gesto quello di spalancare, aprire le porte”, aveva detto Francesco a Rebibbia. “Ma più importante è aprire i cuori alla speranza”. La speranza, Spes contra spem, un altro punto di incontro di Papa Francesco con Marco Pannella, con il suo modo di pensare, di sentire e di agire nella vita e nella lotta politica. L’essere speranza contro ogni speranza è “il vento dello spirito che muove il mondo”, aveva convenuto Marco, nella sua ultima lettera prima di andarsene, indirizzata proprio a Papa Francesco.
Ora più che mai dobbiamo su questo fronte fare della sua mancanza una presenza come cerchiamo di fare anche per Marco Pannella. Oggi più che mai, in nome di Papa Francesco, con il sostegno anche dell’azione nonviolenta dello sciopero della fame intrapreso da Rita Bernardini, Nessuno tocchi Caino chiede al Parlamento un atto di clemenza che riconosca a tutti i detenuti un anno di riduzione della pena. Decida il Parlamento, che sia un anno di indulto o un anno di liberazione anticipata speciale. Ma decida, e se non vuole darlo ai carcerati lo conceda a Papa
Francesco che lo ha invocato fino all’ultimo, finchè ha avuto un alito di voce, prima di “ritornare alla casa del Signore”.
A ben vedere, un anno di riduzione della pena in quest’anno giubilare, sarebbe un anno di grazia e di redenzione per tutti.
Non solo per i detenuti, i dannati della terra, ma anche per i detenenti, condannati a condizioni di lavoro infami, e per lo Stato italiano, dannato dalla Giustizia europea per i suoi reiterati trattamenti inumani e degradanti ai danni di persone private della libertà e sottoposte alla sua custodia.



NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

SUPERARE L’IDEA OTTOCENTESCA DELLA PENA, LA RADICE DELL’ALBERO DELLE MELE MARCE
Luigi Debernardi*

La società ci presenta principalmente un solo luogo per scontare la pena: il carcere, e questo indirizza a costruire tutte le discussioni su questo unico tema, creando un circolo vizioso composto dagli stessi problemi e dalle stesse “soluzioni”. Per compiere un passo avanti in termini di civiltà, e non avere un futuro già scritto, dobbiamo avere il coraggio di accogliere una visione diversa, scindendo ciò che funziona da ciò che non funziona nell’attuale sistema penale. La galera, utilizzata in chiave punitiva e non cautelare, è un istituto relativamente giovane che ha origine agli inizi dell’800. La Costituzione italiana ha previsto espressamente che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato; non proponendo però un’alternativa all’istituzione totale preesistente si è generata una divisione nell’opinione pubblica sul carcere in chiave rieducativo-punitiva.
In questo scontro, negli ultimi anni ha preso piede la retorica delle “mele marce” che ha portato gli attori politici a prendere posizione dietro l’ottocentesca divisione tra agente e detenuto, guardia e ladro, buono e cattivo. In questo caso, mentre le forze politiche si sono nettamente schierate da una parte o dall’altra, il mondo istituzionale ha dimostrato di sentire l’istintuale bisogno di tutelare il corpo (di polizia penitenziaria) a priori da qualsiasi tipo di contestazione nei confronti del sistema, facendola passare, intenzionalmente o non, agli occhi dei non addetti ai lavori come “un attacco a chi svolge il proprio lavoro onestamente”, e inculcando così il pensiero che, se parliamo di sistema, parliamo esclusivamente degli agenti.
Per quanto parlare di sistema implichi anche prendere in considerazione le persone che ne fanno parte, il punto cruciale è comprendere che parte dell’albero, in particolare le sue radici, sono rappresentate dall’attuale idea di pena. La dissonanza cognitiva, quindi, risiede nel pensare che individuando con il termine “mela marcia” la singola persona, automaticamente il resto dell’albero da cui cade codesta mela sia un rimando, solo ed esclusivo, a coloro che devono far rispettare le regole, ossia il corpo di polizia, dimenticandosi così delle radici da cui questo grande albero prende vita. Sicuramente l’albero e il frutto condividono la stessa natura, ossia quella umana (in quanto l’idea di pena è artifizio umano), ma non per questo il frutto deve essere esclusivamente della stessa sostanza dell’albero. In altre parole: il poliziotto che si macchia di gesti violenti non li compie perché appartenente a una categoria di persone ma perché figlio di una società che lo ha educato a un’idea di pena tutto fuorché rieducativa, applicata in un sistema che si compone di spazi tutt’altro che consoni alla riabilitazione della persona; la stessa idea di pena che attualmente si concretizza nella parte terminale del nostro sistema penale: il carcere. Solamente non inciampando in questo tipo di fallacia logica possiamo usare il termine “sistema” in modo lucido.
L’esperimento di Stanford ha dimostrato ampiamente il potere dell’ambiente sulle persone che lo vivono, parliamo di spazi studiati e concepiti pochi secoli fa che non fanno altro che insistere su un paradigma basato sull’isolamento che genera tensione. Decidere di allontanare dalla società una persona che ha commesso un reato, isolandola in un luogo senza un programma rieducativo mirato, nel migliore dei casi non porta a nulla. È fondamentale cambiare approccio e cercare soluzioni nuove potenziando quelle che già esistono, ad esempio indirizzando maggiori risorse economiche su progetti, che hanno dimostrato di poter creare un futuro per chi ha sbagliato, a scapito del carcere, utilizzando quest’ultimo realmente solo come extrema ratio.
Questo discorso prescinde da ragioni etiche, per quanto esse siano presenti anche nei principi costituzionali, e vuole basarsi su evidenze raccolte nel tempo. I tassi del 68% di recidiva confermano che il sistema non funziona. Inoltre, già dagli inizi del ’900, una gran
mole di ricerche hanno evidenziato l’inefficienza del sistema carcerario come strumento di riabilitazione e prevenzione del crimine.
La punizione può essere ritenuta necessaria per rispondere in primis alla tutela della vittima per il danno subito e permettere anche il quieto vivere all’interno di una comunità ma se vogliamo ottenere risultati concreti, per beneficiarne tutti, è necessario sradicare le sue radici ottocentesche, abbandonando una visione meramente punitiva, per adottare soluzioni che abbiano come obiettivo la riduzione dei tassi di recidiva, in attuazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione.
* attivista per i diritti dei detenuti



DL SICUREZZA: AUDIZIONE NESSUNO TOCCHI CAINO, RITA BERNARDINI ANNUNCIA SCIOPERO DELLA FAME
L’associazione Nessuno tocchi Caino è stata audita dalle Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali congiunte sulla conversione del decreto sicurezza. Sono intervenuti Sergio D’Elia, segretario dell'associazione, Rita Bernardini, presidente ed Elisabetta Zamparutti, tesoriere.
Sergio D’Elia, si legge in una nota dell'associazione, sull’introduzione del reato di resistenza passiva, volto a criminalizzare anche il dissenso espresso in forme nonviolente, ha dichiarato che “pensare che l’ordine e la sicurezza di un istituto penitenziario possano essere assicurati dalla minaccia di sanzioni (che peraltro già esistono) e dalla esclusione dai benefici (che peraltro è già prevista) è la solita illusoria convinzione del valore deterrente della pena”. D'Elia ha quindi mostrato una foto di Marco Pannella durante una delle sue azioni di disobbedienza civile e ha invitato a cancellare la norma affermando che “per mantenere ordine e sicurezza in carcere servono misure incentivanti e premiali della buona condotta come, ad esempio, l’aumento dei giorni di liberazione anticipata o il provvedimento di clemenza invocato fino all’ultimo giorno delle loro vite sia dal leader radicale che da Papa Francesco”.
Nel suo intervento Rita Bernardini che, a proposito della resistenza nonviolenta in carcere, ha ricordato i 20.000 detenuti in sciopero della fame a sostegno dell’approvazione dei decreti attuativi della riforma seguita agli Stati generali sul carcere, ha affermato che “il decreto sicurezza non si cala nella realtà del carcere quale è oggi, spesso privo di umanità e, a causa del sovraffollamento, di trattamenti degradanti della dignità umana”, e ha citato come esempio la visita fatta a Pasqua nel carcere femminile di Rebibbia dove ha trovato due giovani madri, portate dai domiciliari in carcere con i loro bambini senza che avessero compiuto alcuna infrazione, sol perché i loro piccoli avevano compiuto un anno. Anche a fronte di questa irragionevolezza ha annunciato, a partire dalla mezzanotte di oggi, uno sciopero della fame “per fare riflettere i parlamentari, sempre più espropriati dei loro diritti, affinché siano espunte le parti più manifestamente incostituzionali del provvedimento”.
Elisabetta Zamparutti ha ricordato come l’Italia faccia parte di organizzazioni internazionali che hanno criticato anch’esse il decreto a partire dal Commissario europeo per i diritti umani, Michael O’Flaherty, che già aveva chiesto di non approvare, senza radicali modifiche il testo del Ddl Sicurezza (ora riprodotto nel DL all’esame della Camera dei Deputati), perché in contrasto con la Convenzione europea per i diritti dell'uomo. Proprio in caso di scioperi della fame in carcere “lo Stato è tenuto a considerare e valutare le ragioni della protesta dei detenuti, oltre a garantire una risposta significativa alle loro lamentele e richieste”. Questo vale in particolare in Italia che è stata condannata dalla Corte Edu per le condizioni detentive ritenute anche nei rapporti del Cpt non conformi agli standard internazionali. Il che aggiunge motivi per i detenuti di contestare con mezzi pacifici lo stato in cui vivono.
(Fonte: Adnkronos, 23/04/2025)



IRAN: IL DETENUTO POLITICO CURDO HAMID HOSSEINNEJAD HAYDARANLU IMPICCATO IN SEGRETO
I media statali iraniani il 21 aprile 2025 hanno riferito dell'esecuzione del detenuto politico curdo Hamid Hosseinnejad Haydaranlu (Hamid Hosseinnezhad Heydaranlou), avvenuta senza che la sua famiglia o il suo avvocato ne fossero informati.
Secondo fonti ufficiali, Behzad Sarkhanlu, vice procuratore di Urmia, ha informato la famiglia di Hamid che questi era stato trasferito dalla prigione centrale di Urmia a Teheran e giustiziato. L'esecuzione di Hamid è stata eseguita in segreto, senza che la sua famiglia o il suo avvocato ne fossero informati.
Condannando con la massima fermezza l'esecuzione di Hamid Hosseinnejad Heydaranlu, Iran Human Rights chiede maggiori sforzi internazionali per fermare la macchina delle esecuzioni della Repubblica Islamica.
Il direttore di IHR, Mahmood Amiry-Moghaddam, ha dichiarato: “Hamid Hosseinnejad Heydranlu è stato condannato a morte dal Tribunale rivoluzionario senza che fossero rispettate le norme minime di un processo equo. La sua esecuzione è considerata un'esecuzione extragiudiziale e i leader della Repubblica islamica devono essere ritenuti responsabili di questo crimine”.
IHR ha messo in guardia sul rischio imminente di esecuzioni di prigionieri politici durante le festività pasquali e ha invitato la comunità internazionale e i paesi che intrattengono relazioni diplomatiche con la Repubblica islamica ad agire per fermare e ribaltare queste sentenze.
Nelle prime tre settimane di aprile 2025, almeno 65 persone sono state giustiziate nelle prigioni iraniane.
Heydaranlu, un prigioniero politico curdo di 40 anni, era stato condannato a morte con l'accusa di baghy (ribellione armata) sulla base di confessioni estorte con la tortura. Senza prove, è stato ritenuto un appartenente al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), e coinvolto nell'uccisione di otto membri delle forze di sicurezza.
A seguito della notizia ufficiale, una fonte vicina alla famiglia di Hamid ha riferito a IHR che l'esecuzione è stata compiuta a Teheran venerdì 18 aprile. “La notizia della sua esecuzione a Teheran ha impiegato del tempo per arrivare a Urmia. Probabilmente è stato giustiziato a Teheran. Ma il suo caso era ancora pendente presso la Sezione 39 della Corte Suprema, il che significa che non erano stati informati dell'esecuzione”.
Quando la famiglia di Hamid ha chiesto la consegna del corpo, le è stato risposto che “non hanno inviato il corpo per la consegna”. Secondo la fonte, “il corpo non sarà mai restituito e probabilmente sarà loro vietato anche di celebrare una cerimonia funebre”.
Un membro della famiglia di Heydranlou ha riferito lunedì sera (21 aprile) a Iran Human Rights che, secondo il procuratore di Urmia, l'esecuzione era stata effettivamente eseguita venerdì (18 aprile) e che “Teheran ha informato Urmia in ritardo, e molto probabilmente è avvenuta a Teheran, forse nella prigione di Evin. Tuttavia, il caso è stato appena rinviato oggi per riesame alla Sezione 39 della Corte Suprema, il che significa che nemmeno il tribunale era a conoscenza dell'esecuzione della sentenza”.
L'ultima visita di Hamid con la sua famiglia è avvenuta giovedì 17 aprile, mentre era ammanettato.
Il suo ultimo contatto con la famiglia è stato venerdì pomeriggio, quando ha fatto una breve telefonata in farsi per dire solo “Sono vivo, seguite il caso”.
Osman Mosayen, l'avvocato del detenuto politico, ha dichiarato: “Abbiamo presentato una richiesta di revisione del processo per fermare la sua esecuzione. Poiché Hamid è analfabeta, non ha potuto presentare personalmente la richiesta di clemenza. Dopo la visita, è stato riportato in isolamento”.
L'avvocato ha aggiunto: “Nel 2017, otto guardie di frontiera sono state uccise in un villaggio nella provincia dell'Azerbaigian occidentale. Nel 2022, Hamid Hosseinnejad Heydaranlu è stato arrestato nella sua casa nel suo villaggio con l'accusa di contrabbando di merci. Inizialmente è stato accusato di contrabbando, ma in seguito è stato accusato di coinvolgimento in quell'attacco terroristico.
Hamid ha trascorso 12 mesi nelle celle di isolamento del centro di detenzione del Ministero dell'Intelligence a Urmia, senza poter contattare un avvocato, telefonare o vedere la sua famiglia. Hamid è completamente analfabeta. I documenti dell'interrogatorio sono interamente scritti a mano dall'interrogatore e lui si è limitato a firmarli.
Durante la sua prima comparizione davanti all'investigatore, ha negato esplicitamente le accuse, dicendo: “Non ho commesso questo atto; quel giorno ero all'estero”.
Lo scontro armato sarebbe avvenuto intorno alle 3 del mattino, ma lui ha dichiarato che alle 11 dello stesso giorno aveva già attraversato il confine con la sua famiglia - composta dalla madre anziana, dalla moglie e dai due figli - ed era entrato in Turchia con passaporti validi.
Hamid Hosseinnejad Heydaranlu aveva 40 anni ed era originario della regione di Chaldoran, a Urmia, dove è stato arrestato dalle forze di frontiera insieme a diversi cittadini afghani il 13 aprile 2023.
(Fonte: IHR, 18/04/2025)



TEXAS (USA): GIUSTIZIATO MOISES MENDOZA
Moises Sandoval Mendoza, 41 anni, ispanico, il 23 aprile 2025 ha ricevuto un'iniezione letale nel penitenziario statale di Huntsville, in Texas, ed è stato dichiarato morto alle 18:40 (le 1:40 di giovedì mattina in Italia).
Era stato condannato a morte per l'omicidio di Rachelle O'Neil Tolleson, 20 anni, avvenuto il 18 marzo 2004.
Dopo che un assistente spirituale ha pregato per lui per circa due minuti, Mendoza ha chiesto ripetutamente scusa ai due genitori della vittima e agli altri parenti presenti, chiamandoli per nome.
Ha poi parlato brevemente in spagnolo, rivolgendosi alla moglie, alla sorella e a due amici che guardavano attraverso una finestra da un'altra sala per i testimoni.
Quando è iniziata l'iniezione, si sono sentiti due forti rantoli, poi ha iniziato a russare. Dopo circa 10 russamenti, tutti i movimenti sono cessati e 19 minuti dopo è stato dichiarato morto.
Le autorità hanno riferito che nei giorni precedenti l'omicidio Mendoza aveva partecipato a una festa a casa della Tolleson a Farmersville, vicino a Dallas. Il giorno in cui è stato trovato il corpo, Mendoza ha raccontato l'omicidio a un amico. L'amico ha chiamato la polizia e Mendoza è stato arrestato.
Mendoza ha confessato alla polizia, ma non è riuscito a fornire agli investigatori un movente per l'omicidio, secondo quanto riferito dalle autorità. Ha detto agli investigatori di aver strangolato la Tolleson, di averla aggredita sessualmente e di aver trascinato il suo corpo in un campo, dove l'ha strangolata di nuovo e poi pugnalata alla gola.
In seguito ha spostato il corpo in un luogo più remoto e l'ha bruciato.
Mendoza è stato il terzo detenuto giustiziato quest'anno in Texas, il 593° da quando il Texas ha ripreso le esecuzioni nel 1982, il 13° detenuto giustiziato quest'anno negli Stati Uniti e il 1.620° in totale da quando la nazione ha ripreso le esecuzioni il 17 gennaio 1977.
(Fonte: AP, 23/04/2025)



I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA




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