NESSUNO TOCCHI CAINO - APPELLO URGENTE DI NESSUNO TOCCHI CAINO PER SALVARE LE VITE DEI PRIGIONIERI POLITICI NEL BRACCIO DELLA MORTE IN IRAN

 

NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM

Associazione Radicale Nonviolenta
Transnazionale Transpartitica

Anno 25 - n. 16 - 19-04-2025

LA STORIA DELLA SETTIMANA

APPELLO URGENTE DI NESSUNO TOCCHI CAINO PER SALVARE LE VITE DEI PRIGIONIERI POLITICI NEL BRACCIO DELLA MORTE IN IRAN

NEWS FLASH

1. ACCANIMENTO DELLO STATO CONTRO MORABITO, IL 41BIS È PUNIZIONE ‘CRUDELE E INUSUALE’
2. CON I TALEBANI A KABUL SONO TORNATE LAPIDAZIONE E TORTURA
3. L’UNICA PENA OGGI È IL CARCERE, MA CON LA GIUSTIZIA NON C’ENTRA NULLA
4. A PASQUA NESSUNO TOCCHI CAINO IN VISITA A REBIBBIA FEMMINILE




APPELLO URGENTE DI NESSUNO TOCCHI CAINO PER SALVARE LE VITE DEI PRIGIONIERI POLITICI NEL BRACCIO DELLA MORTE IN IRAN
Alla cortese attenzione di

Volker Türk, Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite
Mai Sato, Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani in Iran
Antonio Tajani, Ministro degli Affari Esteri in Italia

Nessuno tocchi Caino, l'organizzazione internazionale che ha portato al successo la battaglia per la risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per una moratoria universale delle esecuzioni, vi chiede di operare in modo che siano fermate le imminenti esecuzioni di prigionieri politici nel braccio della morte in Iran.
Il 16 aprile 2025, cinque prigionieri politici condannati a morte – Vahid Bani Amerian, Seyed Mohammad Taghavi, Babak Alipour, Pouya Ghobadi e Shahrokh Daneshvarkar – dovevano essere trasferiti dal reparto 4 del carcere di Evin a Ghezel Hesar, una delle carceri dove viene eseguito il maggior numero di esecuzioni in Iran.
Il trasferimento dei condannati a morte è stato ordinato dal giudice penale Iman Afshari, secondo quanto dichiarato da Hedayatollah Farzadi, direttore del carcere di Evin. In risposta alle obiezioni dei prigionieri al trasferimento, Farzadi ha minacciato di trasferirli con la forza, avvalendosi delle guardie carcerarie.
In seguito agli ordini di Farzadi, dal 16 aprile le porte del reparto 4 di Evin sono state chiuse a chiave e i prigionieri sono stati isolati per impedire qualsiasi protesta.
Questi prigionieri sono stati condannati a morte nel dicembre 2024 dalla Sezione 26° del Tribunale Rivoluzionario di Teheran, presieduta da Iman Afshari, con l'accusa di "appartenenza all'Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano (OMPI/MEK)", "assemblea e collusione contro la sicurezza nazionale", "rivolta armata contro il regime", "formazione di un gruppo con l'intento di turbare la sicurezza nazionale" e "distruzione di proprietà pubblica con un'arma da lancio".
In precedenza, il 26 gennaio e il 3 aprile 2025, altri tre prigionieri politici – Behrouz Ehsani Eslamlou, Mehdi Hassani e Seyed Abolhassan Montazer – condannati a morte per accuse simili, sono stati improvvisamente trasferiti da Evin a Ghezel Hesar.
Nel frattempo, quattro prigionieri politici baluci, le cui condanne a morte sono divenute definitive, rischiano l'esecuzione. Il 9 aprile 2025, la richiesta di un nuovo processo per il prigioniero politico condannato a morte Abdolrahim Ghanbarzehi Gorgij è stata respinta. In precedenza, la Corte Suprema del regime aveva confermato le condanne a morte dei suoi tre coimputati – Eidou Shahbakhsh, Abdolghani Shahbakhsh e Soleiman Shahbakhsh, che aveva solo 12 anni al momento del presunto reato – e aveva respinto anche le loro richieste di nuovo processo.
L'Iran detiene il record mondiale di esecuzioni se si confronta il numero dei giustiziati con la popolazione iraniana. Lo scorso anno è stato raggiunto il terribile numero di quasi 1000 esecuzioni e quest'anno la situazione non sembra migliorare, con almeno 319 giustiziati dall'inizio dell'anno, secondo i nostri dati. I prigionieri politici nel braccio della morte iraniano, con il sostegno di centinaia di ONG internazionali e di personalità di spicco in tutto il mondo, chiedono la cessazione delle esecuzioni attraverso uno sciopero della fame non violento a cui danno corpo ogni martedì.
Siamo consapevoli che il potere del regime iraniano si basa sulla violenta repressione di qualsiasi dissenso, ma non possiamo essere complici di questo massacro.
Crediamo fermamente che la cessazione di queste imminenti esecuzioni e l'introduzione di una moratoria sulle esecuzioni capitali in Iran possano salvare vite umane e il nostro senso di umanità.
Pe questo, vi chiediamo di fare tutto quanto in vostro potere per fermare questo orrore.



NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

ACCANIMENTO DELLO STATO CONTRO MORABITO, IL 41BIS È PUNIZIONE ‘CRUDELE E INUSUALE’
Sergio D’Elia su l’Unità del 15 aprile 2025

In due settimane tre condanne della Corte Europea nei confronti dell’Italia. E non per reati minori, ma per quelli più gravi che esistano nel “codice penale” di risulta delle violazioni dei più basilari diritti umani che uno stato può compiere nei confronti di un suo cittadino. In quindici giorni, l’Italia è stata condannata tre volte. Una volta per la violazione dell’articolo 2 della Convenzione europea che tutela il diritto alla vita.
Altre due volte per la violazione dell’articolo 3 che vieta la tortura, le pene e i trattamenti inumani e degradanti.
In un anno, il 2024, per quanto riguarda le violazioni accertate e le sanzioni comminate, sono state quattro le sentenze di condanna nei confronti dell’Italia per la violazione del divieto di tortura (art. 3), venti le condanne per lesione del diritto a un processo equo (art. 6) e ben ventidue quelle comminate per violazione del diritto di proprietà (art. 1 prot. 1).
Se l’Italia fosse un cittadino comune e non uno stato sovrano, sarebbe un soggetto dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza e automaticamente esposto anche ai suoi effetti secondari, come l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Cagionare la morte di una persona, torturare o maltrattare un detenuto sono “fatti più rari tra i rari” che in molte parti del mondo prevedono le condanne più severe.
La pena di morte sulla forca nei paesi che non l’hanno ancora abolita, la pena fino alla morte in una sezione del 41 bis che ancora vige nel nostro paese.
Gianfranco Laterza aveva lavorato all’ILVA di Taranto dal 1980 al 2004. Era morto nel 2010 per un tumore ai polmoni molto probabilmente causato dalla sua prolungata esposizione sul posto di lavoro ad amianto e altre sostanze tossiche utilizzate nella produzione dell’acciaio. Sarebbe stato sufficiente, non dico entrare a respirare a pieni polmoni l’aria degli altiforni, ma vedere solo intorno allo stabilimento i cigli delle strade e i muri delle case colorate di rosa e le piante sofferenti che invocano acqua e aria pulite, per stabilire l’impatto del mostro industriale sull’ambiente e la vita umana. La giustizia italiana aveva archiviato il caso, quella europea l’ha riaperto, ha accolto il ricorso dei parenti della vittima e ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 della Convenzione, sotto l’aspetto procedurale.
Simone Niort è un ragazzo di 28 anni di Sassari in carcere da quasi dieci anni, passati quasi tutti in una cella “liscia” o di transito del carcere, isolato, senza svolgere attività educative, senza ricevere cure adeguate. Una storia travagliata quella di Simone, segnata da disturbi psichiatrici e dipendenza da sostanze fin dall’infanzia. Una storia comune ad altri mille ragazzi che vediamo nelle celle d’isolamento delle sezioni più isolate e sotterranee delle carceri, i bassifondi manicomiali del sistema carcerario italiano.
Simone, come gli altri, una volta in carcere, ha iniziato la sua pratica quotidiana di tagli sul corpo autoinflitti, delle parole urlate e senza senso, dei continui tentativi di farla finita. Accogliendo il ricorso degli avvocati Marco Palmieri, Antonella Mascia e Antonella Calcaterra, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accusato lo Stato italiano di non aver valutato la compatibilità dello stato di salute con la detenzione e ha riconosciuto la sua responsabilità per la violazione del diritto alla salute e alle cure mediche di Simone Niort.
La terza condanna, la più recente, chiama in causa il 41 bis, un regime strutturalmente di tortura, inumano e degradante. Un regime che, nel caso di Giuseppe Morabito, è degradato al livello più basso della condizione umana, di punizione “crudele e inusuale” che anche nei regimi della pena di morte, una volta raggiunto, ne certifica l’incostituzionalità giuridica oltre che l’insostenibilità, puramente e semplicemente, umana.
Giuseppe Morabito ha oltre 90 anni e da oltre 20 è chiuso al 41 bis nel carcere di Opera a Milano. La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per aver continuato a tenere in regime di isolamento un uomo novantenne divenuto nel corso della pena non più capace di intendere e di volere.
Incapace di intendere il senso della sua pena, lo spazio in cui si trova, da quanto tempo lì si trova, perché lì si trova. Incapace di volere nulla, forse, neanche di continuare a vivere.
L’Italia continua a dire che il carcere duro e l’isolamento servono per impedire i collegamenti tra i mafiosi carcerati e i mafiosi in libertà. Adita con successo dall’avvocato Giovanna Beatrice Araniti, che ha rappresentato Morabito, la Corte europea ha condannato l’Italia non solo per la sua carenza di senso di umanità nei confronti di un detenuto ma anche per la mancanza del più elementare buon senso. Nella sentenza si specifica che «la Corte non vede come una persona affetta da un indiscusso declino cognitivo – e addirittura diagnosticata con il morbo di Alzheimer – e incapace di comprendere la propria condotta o di seguire un’udienza giudiziaria, possa allo stesso tempo conservare una capacità sufficiente per mantenere o riprendere – in un’età così avanzata, dopo quasi vent’anni trascorsi in un regime particolarmente restrittivo – contatti significativi con un’organizzazione criminale».
Il regime del 41 bis è innanzitutto un sistema simbolico, un cimitero monumentale, circondato da muri invalicabili, con tombe di morti viventi e lapidi con nomi che richiamano vicende d’altri tempi, ormai finite ma che non finiscono mai. Il regime italiano dell’antimafia non prevede la fine della mafia né la redenzione del mafioso. La mafia non muore mai, pena la fine dell’antimafia stessa. Il mafioso resta tale per sempre, finisce di essere mafioso solo da morto. In attesa della morte, viene sepolto vivo nelle sezioni del “carcere duro” dove la perdita dei sensi e dei sentimenti umani fondamentali si aggiunge a quella della libertà e diventa vera e propria pena corporale.
Le sezioni del “carcere duro” sono diventate istituti per ciechi, sordomuti, sdentati, stazioni terminali per malati terminali: di cuore, di cancro, di mente, di tutto.
Mentre scrivo giunge la notizia della morte di Graziano Mesina, l’ex bandito sardo dei sequestri di persona e delle evasioni spettacolari. Era già malato di tumore e non proprio pienamente in sé quando l’ho incontrato l’ultima volta due anni fa nella sezione di alta sicurezza del carcere di Opera. È dovuto giungere allo stato terminale della sua malattia e della sua vita per riuscire nella sua ultima, innocente evasione dal carcere. È stato portato in ospedale, ormai incapace anche di parlare, il giorno prima della sua morte, a 83 anni. Con lui è morta la pietà, la giustizia ha perso la grazia. Quel che resta è la crudeltà del potere, la corporale, medievale certezza della pena invocata a ogni piè sospinto dagli analfabeti costituzionali del nostro tempo.



CON I TALEBANI A KABUL SONO TORNATE LAPIDAZIONE E TORTURA
Sergio D’Elia su l’Unità del 19 aprile 2025

Nella mezzaluna islamica che stringe in una morsa il Golfo Persico, il rito funebre della pena di morte non s’interrompe mai nel corso dell’anno. A volte, il ritmo mortale supera quello della preghiera collettiva del venerdì. In Iraq, la resa dei conti dell’occhio per occhio avviene una volta alla settimana, in Arabia Saudita almeno una volta al giorno, in Iran anche due volte al giorno. Insieme, ogni anno, si piazzano ai primi posti tra i Paesi-boia al mondo con quasi 1.500 esecuzioni.
Fuori gara, al primissimo posto, oltre ogni primato e calcolo attendibile, c’è la Cina. Nonostante il segreto ferreo sulla pena di morte, non foss’altro per il numero di abitanti, l’ampio spettro di reati capitali e la durezza del regime comunista, è fin troppo facile stabilire che la Cina sia il campione del mondo di esecuzioni.
Ma i più affezionati e irriducibili partigiani della legge della Sharia sono senza dubbio l’Iran, l’Iraq e l’Arabia Saudita. I primi due giustizieri islamici amano la forca. Quella irachena è sempre la stessa, nella prigione di Nassiriya, dove l’Iraq liberato da Saddam Hussein ha mantenuto le abitudini del vecchio dittatore: la pratica della tortura e la pena di morte.
La forca iraniana, invece, funziona in serie, come una catena di montaggio, ne impicca cinque, sei alla volta, nel segreto del cortile di una prigione o sulla pubblica piazza, dove i malcapitati attendono con gli occhi bendati che un calcio improvviso allo sgabello gli faccia mancare la terra sotto i piedi o che il gancio di una gru li tiri d’un colpo all’insù con la corda azzurra stretta attorno al collo.
Il terzo giustiziere, quello saudita, predilige la spada che nel Regno di Bin Salman si abbatte senza tregua sulla testa del condannato poggiata su un ceppo di legno all’ombra della moschea principale vicina al luogo del delitto.
Nel mondo islamico dove detta legge la Sharia, s’affaccia ora un altro fanatico sunnita. In Afghanistan, sono tornati i Talebani con le loro barbe lunghe e le mitragliatrici piantate sui pick-up. Sono ancora fermi all’età della pietra che usano non per costruire case ma per lapidare adultere e traditori del sacro vincolo del matrimonio. Non praticano spesso le esecuzioni, ma quando le fanno, le espongono al mondo in maniera spettacolare. In un giorno, ai primi di aprile, quattro uomini sono stati giustiziati in tre diverse città. Il giorno prima, i Talebani avevano fustigato in pubblico 13 persone, tra cui 5 donne, nelle province di Khost e Jawzjan con accuse che vanno da “relazioni illecite” e “fuga dalla propria casa” a blasfemia, corruzione e falsa testimonianza.
Da quando sono tornati al potere nell’agosto 2021, i Talebani hanno emesso 176 sentenze capitali e giustiziato almeno 10 persone. Altre 37 persone sono state condannate alla lapidazione e 4 al crollo di un muro su di loro, una punizione che risale agli albori della storia islamica. Tra marzo 2024 e marzo 2025, almeno 456 persone, tra cui 60 donne, sono state fustigate.
I Talebani non amano la corda, preferiscono il fucile che, oltre alla pietra, è l’arma più usata nel Paese. Due uomini, identificati come Soleiman and Haidar, sono stati uccisi a Qala-i-Naw. Sono stati portati allo stadio di calcio, li hanno costretti a sedersi per terra al centro del campo, i parenti delle vittime si sono piazzati dietro le spalle e gli hanno sparato sei o sette colpi di pistola. I condannati avevano offerto il prezzo del sangue, ma i familiari della vittima l’hanno rifiutato. Gli abitanti del luogo erano stati invitati vivamente a “partecipare all’evento” con avvisi ufficiali ampiamente diffusi il giorno prima. Non tutti hanno gradito lo spettacolo. Secondo testimoni oculari, le scene erano orribili, alcuni sono scoppiati in lacrime. Lo stesso giorno, un altro uomo, di nome Mohammad Sadi, è stato giustiziato nella città di Farah. Il quarto, giustiziato a Zaranj, si chiamava Abdul Qadir ed era molto giovane. “Speravo che la famiglia cambiasse idea, m a non l’ha fatto. È stato insopportabile. Non andrò mai più a un’esecuzione”, ha detto uno spettatore.
Il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sull’Afghanistan ha descritto gli episodi come gli ultimi di una lunga serie di violazioni dei diritti umani da parte dei Talebani. Da Kandahar, il cuore pulsante del mondo talebano, dove vive, diffonde sermoni e firma ordinanze coraniche, Hibatullah Akhundzada, il capo del gruppo, ha respinto ogni critica e inquadrato il sostegno alla sua leadership come una questione di lealtà religiosa.
“Così come Dio ha ordinato la preghiera, ha ordinato la retribuzione in natura”, ha affermato. “Coloro che stanno con me stanno con Dio, stanno sostenendo la Sua legge”.
Iran e Iraq, Arabia Saudita e Afghanistan. I primi due paesi sono sciiti, gli altri due sunniti, tutti e quattro sono ispirati dal Corano. A bene vedere, la visione religiosa non c’entra, essi resistono strenuamente al rispetto dei diritti umani e a ogni istanza di cambiamento che pure spira nel mondo islamico e che quasi ovunque ha superato usi e costumi fuori dal mondo, fuori dal tempo.



L’UNICA PENA OGGI È IL CARCERE, MA CON LA GIUSTIZIA NON C’ENTRA NULLA
Rosario Patanè su l’Unità del 19 aprile 2025

È diffusa e pervasiva in ogni dove la cognizione apodittica e “dogmatica” che la “pena” per antonomasia consiste nel carcere (etimologia arcaica da “carcar” sotterrare, nascondere). Questa identificazione è connaturata alla società moderna, ma è del tutto fuorviante. Intanto occorre precisare che questa “istituzione” chiamata carcere non è affatto esistita da sempre come generalmente si crede ma nasce solo dopo la Rivoluzione francese, durando fino ai primi decenni del 1800.
Contrariamente all’era medievale e feudale quando il reato si intendeva violazione del Corpo del monarca assoluto che era non solo “a legibus solutus” ma anche incarnazione della legge comune e del diritto, la pena consisteva nell’esecuzione corporale nel vasto proscenio urbano al fine della dimostrazione diretta al popolo della restituita e reintegrata unitarietà della potestà regale. Ecco che le impiccagioni, le decapitazioni, le irreparabili amputazioni fisiche e altri strumenti di tortura mortale erano date in pubblico perché tutto ritornasse nella Norma.
Lo “splendore dei supplizi” con il quale si ripristina lo splendore del potere violato. Infatti, in quei tempi (ma anche oggi) il Potere deve sempre esibire il suo corpo, perché è il suo corpo che lo incarna, inviolabile, inviolato. Ecco perché re, regine, dittatori si affacciano sorridenti e fieri da ogni balcone. Il corpo del “re” rassicura il popolo che è ancora viva la “nazione” o “l’Idea” o “l’Ideale” o la “rivoluzione” che il popolo – non loro – conduce.
Il vero carisma è dietro il popolo, solo apparentemente davanti.
L’avvento della prigione come nuova tecnica di punizione moderna è legato allo sviluppo dell’economia capitalistica (sono gli anni che inizia a manifestarsi quel che Marx chiamerà lo “spirito animale del capitalismo” nel senso beninteso di fervore inarrestabile alla produzione e alla ricchezza) e ai metodi di correzione degli individui attraverso il lavoro forzato, ad essa utilissima. Il carcere oggi come non mai è per antonomasia LA pena non una forma della pena. Esso in quanto racconto è il “risarcimento”. Tanto è vero che per i familiari della vittima la pena erogata vale se consona alle aspettative degli anni di prigione sebbene tutti dicano che non dia loro la restituzione della vittima o della sua integrità vitale ma che “almeno” è stata fatta “giustizia”, forma moderna di “vendetta” affidata al potere legale (Weber) ma del tutto impossibilitata alla reintegrazione dell’equilibrio sociale e alla stessa deterrenza dai reati, come appare dovunque anche nel caso estremo della pena di morte.
È quindi del tutto evidente che, col più alto rispetto di tutte le vittime, in essa pena carceraria, in particolare l’ergastolo, consiste esclusivamente la soddisfazione della natura risarcitoria che si attende ma il “reo”, non scompare, nel carcere continuerà a esistere un essere umano per il quale l’Illuminismo giuridico di Bentham e Beccaria rivede la pena carceraria rispetto alla sua “utilità” sociale e non solo individuale connettendola ai principi generali dei diritti della persona, rivedendo anche ab himis la progettazione materiale delle carceri (“Panopticon”).
La Costituzione Repubblicana ampliando molto queste idee riformatrici vi scorge il soggetto e l’oggetto di una rieducazione, conduzione non persecutoria e violenta della detenzione e riammissione sociale. Qualunque sia stato il reato. Gradualità del giusto processo, dovere di uno Stato democratico e liberale di tentare ogni possibile azione di recupero della Persona, conformemente alla dimensione laicamente sacra del primato della Persona umana sul quale essa si fonda.
Ne “Lo splendore dei supplizi” afferma Foucault: «La prigione non è l’alternativa alla morte. Essa porta la morte con sé. Uno stesso filo rosso corre lungo questa istituzione penale che si presume applichi la legge ma che in realtà ne sospende la validità: oltrepassate le porte della prigione, regnano l’arbitrio, la minaccia, il ricatto, le percosse… Nelle prigioni è di vita e di morte e non di “correzione” che si tratta». Punizione, che per
secoli, forse millenni, è parsa più o meno ovvia alla civiltà occidentale, la nozione stessa di punizione, vi sembra altrettanto scontata oggi?



A PASQUA NESSUNO TOCCHI CAINO IN VISITA A REBIBBIA FEMMINILE
Il giorno di Pasqua (domenica 20 aprile) una delegazione di Nessuno tocchi Caino visiterà la Casa Circondariale di Rebibbia femminile. L’ingresso è previsto alle ore 10 “per verificare le condizioni di detenzione”, come previsto dall’art. 117 del Dpr n. 230/2000.
Gli ultimi dati, risalenti al 31 marzo 2025, ci dicono che a Rebibbia femminile erano ristrette 375 donne in 264 posti, con un sovraffollamento del 142%. Le donne straniere erano 115.
Quello di Rebibbia è il più grande carcere femminile europeo ed è uno dei tre istituti italiani (insieme alle Case di Reclusione di Trani e di Venezia) esclusivamente dedicati alle donne. Tutte le altre detenute sono carcerate in sezioni femminili di 45 carceri concepite per ospitare uomini.
Al 31 marzo scorso le donne detenute in Italia erano in tutto 2.703 pari al 4,3% dell’intera popolazione carceraria.
La delegazione di Nessuno tocchi Caino sarà così composta: Rita Bernardini, Maria Brucale, Massimo Arlechino, Giorgio Colangeli, Flavia Romana Graziani, Giuseppe Sant’Angeli, Federico Canziani, Stefano Magnapane e Alice Arlechino.

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