NESSUNO TOCCHI CAINO - LE CARCERI SONO AL COLLASSO E L’IRAQ VARA L’AMNISTIA: LIBERI OLTRE 19.000 PRIGIONIERI, INCLUSI EX MEMBRI DELL’ISIS

 

NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM

Associazione Radicale Nonviolenta
Transnazionale Transpartitica

Anno 25 - n. 21 - 24-05-2025

LA STORIA DELLA SETTIMANA

LE CARCERI SONO AL COLLASSO E L’IRAQ VARA L’AMNISTIA: LIBERI OLTRE 19.000 PRIGIONIERI, INCLUSI EX MEMBRI DELL’ISIS

NEWS FLASH

1. I NOSTRI CORPI IN SCIOPERO CONTRO IL SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO, PER UN ANNO DI RIDUZIONE DI PENA PER TUTTI I DETENUTI
2. PERCHÉ SERVE UN INDULTO SUBITO PER LE NOSTRE PRIGIONI, DISCARICHE DI CORPI AMMASSATI
3. USA: MATTHEW JOHNSON E BENJAMIN RITCHIE GIUSTIZIATI IN TEXAS E NELL’INDIANA
4. INDIA: CORTE SUPREMA LIBERA UN UOMO CONDANNATO A MORTE PER STUPRO E OMICIDIO DEL 2013




LE CARCERI SONO AL COLLASSO E L’IRAQ VARA L’AMNISTIA: LIBERI OLTRE 19.000 PRIGIONIERI, INCLUSI EX MEMBRI DELL’ISIS
Sergio D’Elia

Non si sono fatti paralizzare dalla ossessione del mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica. Non si sono fatti ingannare dall’illusione autoritaria di uno stato di emergenza perenne. Non hanno agitato e propagandato la certezza e la deterrenza delle pene. Non sono neanche uno stato democratico, illuminato da un elevato stato di coscienza orientato al diritto e ai valori umani universali. Eppure, l’Iraq ha fatto l’amnistia.
“Bisogna aver visto” e “Conoscere per deliberare”. Pietro Calamandrei e Giulio Einaudi. Gli iracheni non ne hanno mai sentito parlare, ma hanno seguito i loro motti. Hanno visto che nelle 31 prigioni del Paese erano ammassati circa 65.000 detenuti, il doppio di quelli previsti dalla capienza regolamentare delle celle. Hanno preso coscienza che i loro diritti umani fondamentali, non solo la libertà, anche la salute e la stessa vita, erano minacciati dal sovraffollamento.
“Quando abbiamo assunto l’incarico, il sovraffollamento era al 300%”, ha dichiarato il Ministro della Giustizia Khaled Shwani. “Dopo due anni di riforma, l’abbiamo ridotto al 200%. Il nostro obiettivo è di portarlo al 100% entro il prossimo anno, in linea con gli standard internazionali”. Quattro nuove prigioni sono in costruzione, mentre tre sono state chiuse negli ultimi anni. Altre due sono state aperte e sei prigioni esistenti sono state ampliate. Le carceri irachene ospitano centinaia di cittadini stranieri. Alcuni di loro sono stati rimpatriati.
Fatto questo, gli iracheni hanno fatto anche l’amnistia. Non hanno fantasticato su futuri immaginari piani-carcere, riaperture di caserme dismesse e deportazioni di massa dei detenuti nei luoghi di origine. Hanno visto, riconosciuto, deliberato. Non hanno emanato decreti sicurezza per il mantenimento della legge e dell’ordine nelle carceri e punire i torturati per la loro “resistenza anche passiva” alle condizioni di tortura. A gennaio hanno promulgato la legge sull’amnistia e alla fine di aprile erano già stati liberati 19.381 prigionieri, inclusi detenuti condannati per accuse di terrorismo. La stragrande maggioranza è uscita dalle prigioni del Ministero della Giustizia, altri sono stati rilasciati dalla custodia delle agenzie di sicurezza dove erano rinchiusi per la mancanza di posti nelle carceri.
La legge sull’amnistia ha anche bloccato tutte le esecuzioni, comprese quelle nei confronti dei terribili militanti sunniti che, dopo aver invaso l’Iraq nel 2014, hanno controllato un terzo del suo territorio, conquistato importanti città come Mosul, Tikrit e Falluja, ucciso migliaia di persone, sfollato centinaia di migliaia, decimato la popolazione yazida e lasciato vaste aree in rovina. Sconfitti nel 2017, migliaia di loro sono stati arrestati e rinchiusi nella prigione di Nassiriya, l’unica in Iraq dove c’è il braccio della morte. Gli abitanti del luogo chiamano la prigione “al hout”, la balena, perché inghiotte le persone, ma non le sputa fuori.
Con l’amnistia di gennaio, invece, un po’ alla volta, sono usciti da Nassiriya anche i “terroristi”, sputati fuori dalla pancia della balena come Pinocchio. La nuova legge consente anche ad alcuni condannati di chiedere il rilascio, un nuovo processo o l’archiviazione del caso. La legge ha ricevuto un forte sostegno da parte dei deputati sunniti, i quali sostengono che la loro comunità sia stata presa di mira in modo sproporzionato dalle accuse di terrorismo, con confessioni talvolta estorte sotto tortura.
Tutto il mondo è paese. Neanche in Iraq sono mancati gli oppositori dell’amnistia perché avrebbe significato il “colpo di spugna” per reati commessi contro la pubblica amministrazione, di corruzione pubblica e appropriazione indebita. Non mancano neanche quelli contrari all’amnistia nei confronti di militanti che hanno commesso crimini di guerra. Tra i contrari vi sono persino quelli che per vocazione dovrebbero avere a cuore, con la sicurezza pubblica, la tutela dei diritti umani fondamentali anche di chi è stato o è sospettato di essere un pericolo pubblico. “L’attuale versione della legge di amnistia generale solleva profonde preoccupazioni sulle sue potenziali conseguenze legali e di sicurezza”, ha dichiarato in una nota l’Osservatorio Iracheno per i Diritti Umani.
L’amnistia non è una “resa dello Stato” nei confronti di chi può costituire una minaccia all’ordine e alla sicurezza. È innanzitutto un atto di buon governo ma anche di grazia che lo Stato concede a sé stesso, una piccola tregua alla sua, a volte tremenda, potestà punitiva.
L’Iraq rimane sempre un paese tra i primi al mondo per l’uso della pena di morte e per le esecuzioni di massa effettuate spesso senza preavvisare avvocati e familiari dei prigionieri. Ma oggi dobbiamo riconoscere l’avvenimento in Iraq di un fatto di segno diverso, più umano e civile di quelli che si manifestano nei paesi cosiddetti civili.



NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

I NOSTRI CORPI IN SCIOPERO CONTRO IL SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO, PER UN ANNO DI RIDUZIONE DI PENA PER TUTTI I DETENUTI
Chiara Squarcione*
Laura Di Napoli**

Dal 10 maggio abbiamo intrapreso uno sciopero della fame a oltranza per sostenere, rafforzare, dare corpo all’azione radicale nonviolenta di Rita Bernardini a favore della proposta di Nessuno tocchi Caino di un anno di riduzione di pena per tutti i detenuti. Rita ha sospeso il suo sciopero al 22° giorno in seguito all’apertura manifestata dal Presidente del Senato, Ignazio La Russa, che ha riconosciuto il sovraffollamento carcerario come problema prioritario e ha indicato come possibile soluzione la proposta di legge di Nessuno tocchi Caino sulla liberazione anticipata presentata alla Camera da Roberto Giachetti di Italia Viva. Anche il Vice Presidente del CSM, Fabio Pinelli, ha espresso sostegno alla proposta, sottolineando la necessità di affrontare con urgenza il problema del sovraffollamento. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha più volte richiamato l’attenzione sulle condizioni inumane e degradanti nelle carceri italiane.
La Presidente di Nessuno tocchi Caino ha chiesto di continuare la mobilitazione nonviolenta come noi stiamo facendo insieme ad altre persone che portano avanti il digiuno a staffetta, per mantenere alta l’attenzione sull’emergenza carceraria e sostenere l’adozione della proposta Giachetti.
Rita non è sola, e non lo è nemmeno la battaglia di Nessuno tocchi Caino. I nostri corpi, insieme a quelli di altri militanti radicali, sono un tutt’uno per chiedere un atto concreto di giustizia, legalità, umanità: una riduzione di un anno della pena per tutti i detenuti e il ritiro delle parti incostituzionali del Decreto Sicurezza. Il ritorno a uno Stato di Diritto pieno. Non si tratta di un atto di clemenza. È un atto di giustizia. Una risposta necessaria a un sistema carcerario che ha smesso da tempo di rispettare la Costituzione, ed è al collasso.
Sovraffollamento, trattamenti inumani, suicidi: questa è la quotidianità delle carceri italiane. Non un’emergenza, ma una condizione cronica di illegalità. Una crisi democratica. E ad aggravarla, arriva un decreto che invece di riparare, punisce; invece di ascoltare, reprime. Colpisce chi protesta senza violenza, chi dà voce alla sofferenza. La nuova fattispecie di “resistenza passiva” introduce pene da uno a cinque anni per chi, in carcere o nei CPR, si oppone in modo nonviolento alle condizioni di detenzione. È incostituzionale. E rappresenta il segno di una mentalità repressiva, securitaria, punitiva che attraversa tutto l’approccio del Governo su carcere, sicurezza e diritti.
Ecco perché siamo in sciopero della fame. Anche nel nome di chi ci ha insegnato che i corpi sono strumenti di lotta e di verità. Marco Pannella ci ha lasciato l’eredità della nonviolenza ed è da lui che abbiamo imparato che il silenzio delle istituzioni si può rompere solo con la radicalità della azione nonviolenta. E oggi, con Rita Bernardini, raccogliamo quella eredità e chiediamo, appoggiando l’appello di Nessuno tocchi Caino, ciò che è giusto, non ciò che è comodo: in memoria anche di Papa Francesco, che fino all’ultimo ha avuto parole e gesti di compassione verso chi è recluso, un anno di riduzione della pena per tutti i detenuti, in occasione dell’anno giubilare. Un gesto di civiltà e di maturità democratica.
L’appello ha già ricevuto il sostegno di parlamentari di diversi schieramenti, dal PD a Forza Italia, da Azione ad AVS, da Fratelli d’Italia a +Europa e alla Lega. È la dimostrazione che certi valori possono – e devono – essere trasversali. L’umanità non ha colore politico. E la giustizia non può ridursi a una vendetta codificata. Noi non chiediamo indulgenza. Chiediamo rispetto per la dignità delle persone. Chiediamo che si guardi alla realtà: chi sconta tutta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 70%, mentre per chi accede a misure alternative il rapporto si inverte. È lì che vive la vera sicurezza: nella rieducazione, non nell’annientamento. Le misure alternative, oggi adottate da circa 100.000 persone, tengono in piedi un sistema penitenziario altrimenti al collasso.
Il loro tasso di revoca è basso: 12,6% nel 2024, e appena 8,2% per chi lavora all’esterno. Eppure, invece di valorizzarle, si promuove una visione repressiva che fa dell’eccezione la regola. Per questo digiuniamo. Non solo perché non si può tacere sul carcere, ma perché i corpi sono lo strumento che abbiamo per dare voce a una comunità reclusa che non trova ascolto. Il Parlamento ha oggi l’occasione di compiere un atto di responsabilità. Di dire che in Italia la pena non è tortura, e la giustizia non è vendetta. Che il carcere non è uno spazio di legalizzata disumanità. Che chi chiede giustizia, chiede legge, sicurezza, dignità, civiltà.
* Europa Radicale, Associazione Radicale Adelaide Aglietta
** Sardegna Radicale - Associazione Tonino Pascali



PERCHÉ SERVE UN INDULTO SUBITO PER LE NOSTRE PRIGIONI, DISCARICHE DI CORPI AMMASSATI
Tullio Padovani* su l’Unità del 21 maggio 2025

Qualcosa sembra finalmente muoversi sul tetro fronte del sovraffollamento carcerario, sin qui animato solo dall’iniziativa di Rita Bernardini che, qualche settimana fa, aveva iniziato, per sollecitare un intervento risolutore, uno sciopero della fame, che ora ha sospeso in presenza di qualche segnale positivo. C’è da augurarsi che sia così, perché, fra tutti i nodi che affliggono l’istituzione carceraria, quello del sovraffollamento è il più intollerabile. L’affermazione può stupire: tali e tanti sono gli orrori dell’esecuzione penitenziaria, che attribuire un primato negativo al sovraffollamento esige una spiegazione. Com’è noto, il carcere è un’istituzione totale, e cioè un universo disciplinare capace di includere, assorbire e definire ogni aspetto della vita dei detenuti, e si caratterizza ulteriormente per essere marginale ed emarginante: marginale, perché costituisce, in un contesto sociale dato, la peggiore condizione possibile, ed emarginante, perché determina e perpetua una condizione di esclusione.
Naturalmente, questa dimensione, sostanzialmente immutabile, si prospetta in forme e contenuti relativamente variabili: il carcere può essere severo senza diventare feroce; può punire senza offendere la dignità umana: può far soffrire senza uccidere la speranza, e spesso anche la vita. Il sovraffollamento si inquadra però tra le situazioni contingenti estranee alla struttura del carcere, ed è anzi disfunzionale rispetto al suo carattere di istituzione totale, in quanto destinato ad influire negativamente sulla disciplina e sull’ordine, assi portanti su cui essa si regge. Dunque, affinché il carcere cessi di essere un’istituzione totale intrinsecamente non rieducativa, bisognerebbe abolirlo; per non ridurlo ad uno strumento di vacuo degrado della persona internata servono iniziative efficaci ed interventi congruenti, che richiedono tuttavia, denaro, tempo, e ferma volontà politica; ma per impedire che la galera si trasformi in un’orrenda discarica di corpi ammassati, si può fare subito tutto, e perciò deve essere fatto tutto, e subito.
Si deve, perché il sovraffollamento rende di per sé illecita l’esecuzione stessa della pena. Come ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale (279/2013), il sovraffollamento carcerario può risolversi «in trattamenti contrari al senso di umanità». Una pena inumana non è evidentemente, e non può essere, una pena legale. Anzi, essa finisce con l’integrare, in termini obiettivi, una fattispecie delittuosa, di maltrattamenti se non peggio. Che l’esecuzione chiamata a ripristinare la legalità si traduca di fatto in un delitto, costituisce un ossimoro osceno che nessun ordinamento che si pretenda civile dovrebbe poter tollerare. Gli strumenti per impedire una tale aberrazione esistono. Si tratta di applicare un principio fondamentale: la funzionalità di ogni organizzazione è intimamente connessa al numero degli utenti. Su questa base venne a suo tempo riconosciuta la legittimità costituzionale del numero chiuso in determinate facoltà universitarie (Corte cost. 383/1988 ), su questa base funzionano ospedali, scuole, servizi pubblici.
Perché mai non dovrebbe essere applicato anche agli istituti penitenziari? Anzi, a maggior ragione ad essi, perché la “risorsa” punitiva può essere “distribuita” se, e solo se, non sia negata o conculcata la finalità rieducativa che ne costituisce il fondamento. Vincolare al numero chiuso gli istituti penitenziari sarebbe inoltre il miglior modo di dare effettività e concretezza al principio dell’extrema ratio, cui dovrebbe ispirarsi il ricorso alla pena carceraria. Può mai esservi una ragione «estrema» di eseguire una pena consistente in un trattamento inumano? Se mai sarà «estrema» la ragione di non ricorrervi affatto, applicando una diversa sanzione.
Sulle tecniche di attuazione del numero chiuso non è il caso di soffermarsi. Sono di diverso tipo e natura, pur se ispirate dalla stessa esigenza. Ma oggi l’urgenza impone vie più rapide e dirette; anche se all’orizzonte si dovrà subito collocare l’elaborazione di strumenti sistematici idonei ad impedire permanentemente il prodursi di fenomeno di sovraffollamento.
Che fare, dunque? Sarà il caso di riaprire l’album di famiglia. Il sovraffollamento non è sempre esistito: è un fenomeno relativamente recente, più o meno dell’ultimo cinquantennio. Prima, la Repubblica seguiva – in questa materia come in mille altre – le orme del regime fascista, durante il quale di sovraffollamento non pare esservi traccia. Se si scorre «Il Ponte» del marzo 1949, in cui Piero Calamandrei raccolse le testimonianze di intellettuali, politici, artisti che avevano avuto la ventura di sperimentare sulla propria pelle il carcere durante il ventennio fascista (Altiero Spinelli, Vittorio Foa, Augusto Monti, Riccardo Bauer, Giancarlo Pajetta, Lucio Lombardo Radice, per citare solo i nomi più noti), si ritrovano critiche e denunce che accompagnano il carcere fin dal suo ingresso dominante nel sistema penale, più o meno 250 anni fa, e al contempo la prospettazione quasi profetica di quelle che ancor oggi ripetiamo indefessamente. Manca tuttavia, in questo pond eroso cahier de doléances, ogni riferimento al sovraffollamento.
La ricetta per una tale stabilità era semplice quanto efficace: amnistie ed indulti; indulti ed amnistie. La durezza proverbiale che il regime proclamava stentoreamente veniva poi gestita con l’occhio attentamente rivolto all’ordine, e quindi alla tenuta dei numeri. Così, nei vent’anni del regime si contano ben nove provvedimenti generali di amnistia e di indulto, oltre ad una sequela di altri interventi clemenziali relativi alle colonie o ad ambiti particolari. Più o meno ad anni alterni interveniva un ‘regolatore clemenziale di flusso’, ‘pudicamente’ mascherato con motivazioni più o meno risibili o pretestuose: la ‘pacificazione’ fascista; il venticinquennale dell’ascesa al trono; la nascita di principi e principesse; le nozze dell’erede e altre consimili amenità, sino al decreto che il destino impose come ultimo: il ventennale del regime, nel 1942.
La Repubblica non ebbe peraltro esitazioni ad accodarsi su questo stesso binario, che non venne mai interrotto. Solo la frequenza si modificò, rallentando un poco: da biennale divenne all’incirca quinquennale, ciò che contribuì a produrre fenomeni sussultori di sovraffollamento, destinati ad un incremento dopo la riforma, nel 1992, dell’art. 79 Cost., che consegnò alle soffitte dell’ordinamento gli istituti clemenziali, la cui adozione presuppone ora maggioranze tanto elevate da renderli impossibili senza un vasto consenso politico. Sarebbe allora il caso che, per carità di Patria (una maiuscola vera), le parti politiche deponessero per un attimo le armi, si riconoscessero a vario titolo responsabili della situazione vituperosa in cui versa il nostro sistema penitenziario e solidamente si assumessero la responsabilità di un indulto accortamente modulato per dar corso ad un’effettiva riduzione della popolazione carceraria.
La dottrina più autorevole in materia ha da tempo rilevato che un indulto può trovare piena giustificazione anche in esigenze di sfollamento, quando si prospetti una persistente condizione di inumanità nell’esecuzione penitenziaria, purché l’oggetto del provvedimento sia costituito da reati accertati con sentenza definitiva: non invece da reati commessi entro una certa data, ciò che finirebbe col rendere beneficiari del provvedimento soggetti «a futura memoria», con effetti irragionevoli e distorsivi. Sarà solo «Il sogno di un uomo ridicolo»? Speriamo di no; ma quand’anche, varrebbe pur sempre la pena di averlo sognato, con Rita Bernardini.
*Accademico dei Lincei



USA: MATTHEW JOHNSON E BENJAMIN RITCHIE GIUSTIZIATI IN TEXAS E NELL’INDIANA
Matthew Johnson, 49 anni, nero, e Benjamin Ritchie, 45 anni, bianco, sono stati giustiziati il 20 maggio 2025 rispettivamente in Texas e nell’Indiana.
Matthew Johnson era stato condannato l'8 novembre 2023 nella contea di Dallas per aver ucciso Nancy Harris, un'anziana commessa, durante una rapina in un minimarket.
Johnson è stato arrestato poco più di un'ora dopo essere entrato in un minimarket di Garland il 20 maggio 2012 con una bottiglia contenente quello che è stato poi identificato come liquido per accendere il carbone dei barbecue e un accendino.
Secondo i documenti del tribunale, Johnson ha versato il liquido su Harris e l'ha costretta ad aprire la cassa del negozio prima di darle fuoco. Harris, 76 anni, bianca, è morta cinque giorni dopo a causa delle ustioni riportate. Le telecamere di sicurezza hanno ripreso parte dell'incidente e Johnson ha ammesso le sue responsabilità sia alla polizia, sia nel corso del processo del 2013, dove aveva dichiarato di essere stato sotto l'effetto di droghe e alcol durante la rapina e di aver usato il liquido infiammabile per spaventare Harris, ma di non aver avuto intenzione di ucciderla.
Johnson è stato giustiziato esattamente 13 anni dopo il crimine.
E’ stato dichiarato morto alle 18:53 (le 01:53 del 21 maggio 2025 in Italia), secondo il Dipartimento di Giustizia Penale del Texas. Nella sua ultima dichiarazione, Johnson ha chiesto scusa alla famiglia della donna che ha ucciso, Nancy Harris, e ha ringraziato sua moglie e i suoi tre figli per averlo sostenuto durante la detenzione.
Al momento non sono previste altre esecuzioni in Texas. Il braccio della morte dello Stato è al minimo storico dal 1984, con 171 persone. Se non saranno eseguite altre esecuzioni in Texas, il 2025 sarà il settimo anno consecutivo in cui lo Stato avrà compiuto meno di 10 esecuzioni, in linea con la tendenza nazionale alla diminuzione delle condanne a morte.
Johnson è la quarta persona giustiziata quest'anno in Texas e la 594ª da quando il Texas ha ripreso le esecuzioni nel 1982.
Il secondo dei giustiziati, Benjamin Ritchie, era stato condannato a morte nel 2002 nella contea di Marion per l'omicidio, avvenuto il 29 settembre 2000, del poliziotto William Toney, 31 anni, che lo aveva inseguito a piedi dopo che Ritchie aveva abbandonato un furgone che aveva rubato.
Ritchie aveva 20 anni all'epoca, ma era in libertà vigilata per un precedente furto, circostanza che costituisce un’aggravante che porta praticamente automaticamente a una condanna a morte.
Ritchie è stato giustiziato con iniezione letale nella prigione statale dell'Indiana a Michigan City. La procedura è iniziata poco dopo la mezzanotte e Ritchie è stato dichiarato morto alle 00:46 ora locale, le 06:46 del 20 maggio mattina in Italia.
Secondo i testimoni, Ritchie ha espresso amore, sostegno e pace per i suoi amici e la sua famiglia.
In base alla legge dello Stato, gli sono stati concessi cinque testimoni alla sua esecuzione, tra cui il suo avvocato Steve Schutte, che ha detto ai giornalisti di aver avuto una visione limitata del processo.
“Non riuscivo a vedere il suo volto. A quel punto era disteso”, ha detto Schutte. ‘Si è seduto, ha avuto uno spasmo, poi si è sdraiato di nuovo’.
Decine di persone, sia oppositori della pena di morte che sostenitori di Toney, sono rimaste fuori dalla prigione fino alle prime ore del 20.
Tra i 27 stati che hanno leggi sulla pena di morte, l'Indiana è uno dei due che vieta la presenza dei media. L'altro, il Wyoming, ha eseguito una sola esecuzione nell'ultimo mezzo secolo.
L'Associated Press e altre testate giornalistiche hanno presentato una causa federale in Indiana per ottenere l'accesso dei media, ma la settimana scorsa un giudice federale ha respinto un'ingiunzione preliminare che avrebbe consentito ai giornalisti di assistere all'esecuzione di Ritchie e a quelle future.
Il giudice ha ritenuto che vietare l'accesso ai media non viola il Primo Emendamento né discrimina i media con un trattamento iniquo.
Gli avvocati di Ritchie hanno contestato la condanna a morte, sostenendo che la sua difesa in primo grado è stata inefficace perché i suoi avvocati non hanno indagato a fondo e presentato prove relative ai suoi disturbi dello spettro fetale alcolico e all'esposizione al piombo durante l'infanzia.
Nel 2005 gli è stata anche diagnosticata una sindrome bipolare.
I difensori dei diritti dei disabili hanno sostenuto che il danno cerebrale di Ritchie avrebbe dovuto escluderlo dalla pena di morte.
Ritchie è il primo detenuto giustiziato quest'anno in Indiana, il ventiduesimo da quando lo Stato ha ripreso le esecuzioni nel 1981.
Con queste due ultime esecuzioni giungono a 18 i detenuti giustiziati finora quest'anno negli Stati Uniti e 1.625 in totale da quando il Paese ha ripreso le esecuzioni nel 1977.
(Fonti: CNN, 20/05/2025; texastribune.org, 20/05/2025)



INDIA: CORTE SUPREMA LIBERA UN UOMO CONDANNATO A MORTE PER STUPRO E OMICIDIO DEL 2013
La Corte Suprema indiana ha assolto un uomo accusato di aver violentato e ucciso una bambina di quattro anni nel 2013 a Thane, nel Maharashtra, citando le "indagini scadenti" dell'agenzia investigativa e l'approccio "troppo zelante" del tribunale che lo ha condannato, ha riportato il First Post il 20 maggio 2025.
Secondo la Corte Suprema, non c'era "nulla che potesse far sorgere anche il minimo sospetto" nei confronti dell'uomo, prima che l'Alta Corte di Bombay lo condannasse.
Un collegio della Corte Suprema composto dai giudici Vikram Nath, Sanjay Karol e Sandeep Mehta ha dichiarato che l'accusa relativa allo stupro e omicidio della bambina è crollata a causa di un'indagine viziata e compromessa. Nonostante la mancanza di prove credibili, l'imputato è stato riconosciuto colpevole e condannato a morte dai tribunali.
La Corte ha anche concluso che le testimonianze siano state fabbricate per "gonfiare" il caso.
"Nonostante le indagini poco accurate e l'approccio eccessivamente zelante dei tribunali di grado inferiore nel rendere giustizia, nel senso che qualcuno doveva essere ritenuto responsabile del crimine, si è giunti alla condanna dell'imputato, un giovane di circa 25 anni all’epoca dei crimini, rimasto in carcere per oltre 12 anni con la spada di Damocle dell’esecuzione capitale imminente sospesa sulla sua testa per oltre sei anni", ha dichiarato la Corte.
Il caso risale al settembre 2013, quando una bambina scomparve e il suo corpo fu ritrovato tre giorni dopo.
Il sospettato fu arrestato il giorno successivo.
In assenza di testimoni oculari del crimine, l'accusa ha costruito la propria tesi interamente su prove circostanziali.
Nel 2019, l'imputato è stato dichiarato colpevole e condannato a morte.
"Alla luce delle prove fornite dagli inquirenti e dai testimoni dell'ultimo avvistamento, nonché della confessione extragiudiziale di un unico testimone, siamo convinti che l'intera sequenza di eventi narrata da questi testimoni sia inaffidabile e non credibile. Si tratta chiaramente di deposizioni artificiose, ottenute dalla procura a scopo di inganno, al fine di attribuire la responsabilità di questo crimine efferato all'imputato e quindi rivendicare la risoluzione del caso", ha concluso la Corte Suprema.
(Fonte: First Post, 20/05/2025)



I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA




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