NESSUNO TOCCHI CAINO - VI RACCONTO CHI ERA MIO PADRE
NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM |
Associazione Radicale Nonviolenta |
Anno 25 - n. 18 - 03-05-2025 |
LA STORIA DELLA SETTIMANA VI RACCONTO CHI ERA MIO PADRE NEWS FLASH
1. ANCHE SE NON LE PIACE AMMETTERLO, LA CORTE DI STRASBURGO SA BENE COSA SIA LA PRESUNZIONE DI INNOCENZA 2. KUWAIT: CINQUE GIUSTIZIATI PER OMICIDIO 3. IRAN: 5 UOMINI E 1 DONNA GIUSTIZIATI A ISFAHAN PER DROGA 4. ALABAMA (USA): JAMES OSGOOD GIUSTIZIATO VI RACCONTO CHI ERA MIO PADRE Giuseppina Dipalma Raffaele Dipalma era un uomo nato negli anni 50, figlio degli anni 70, meridionale emigrato al nord assieme ai fratelli per cercare fortuna in un periodo storico proverbialmente razzista proprio contro i “terroni”. A 24 anni sconta una pena detentiva di 13 anni ad Alessandria, per poi tornare nel 1987 nella sua terra d’origine in un paese in provincia di Bari, Gravina in Puglia. Qui tutte le sue generazioni sono nate e cresciute: il padre, un contadino lavoratore in Italia e Germania; la madre con otto figli, ultima di quattro fratelli tutti lavoratori nel campo dell’edilizia, del cui aiuto si è avvalso Raffaele per costruire la sua casa. Già, perché lo scandalo di oggi è la normalità di ieri: edificare una casa da soli, sacrificando vizi e sfizi e convogliando tempo e risparmi nel cantiere che è il futuro della propria famiglia. Piano e costantemente, Raffaele mette in pratica ciò per cui si era diplomato durante il carcere: geometra e edilizia. Viene assunto come capo-cantiere e si rivela un brillante dipendente che ha a cuore sia il prodotto dell’impresa che l’umore della squadra e questo si riflette nei risultati. Raffaele Dipalma si sposa nel 1991 con una ragazza laureata in Pedagogia e insieme accudiscono gli anziani della famiglia. Sacrificano l’intimità del nido per il risparmio, rinunciano al viaggio di nozze, vivono nella casa dei suoceri e centellinano gli aiuti dei genitori nel cantiere della casa di famiglia, con due bambine in arrivo. Ben presto, però, la seconda vita di Raffaele viene investigata. Gli chiedono cosa fa e cosa non fa, il suo datore di lavoro viene avvisato del fatto che lui è un pregiudicato e lavorare con lui non conviene. Come a voler suggerire che sarebbe stato più naturale se lui si fosse rimischiato con altri ex-detenuti, come a volerlo indurre allo sbaglio, alla ricaduta. Il Geometra Dipalma acconsente a controlli, deposizioni e interrogatori, ma ciò non basta a sottrarlo alla gogna del sequestro delle misure di prevenzione che lo esigono estorsore, usuraio, spacciatore, evasore, riciclatore di denaro, nonostante i suoi precedenti da giovane non abbiano nulla a che fare con tali capi d’accusa. Nonostante gli avvisi orali, Raffaele continua a compiere il delitto del lavoro. Si prodiga per la bonifica dello stadio del paese, fonda l’Atletico Gravina e insieme ad altri imprenditori, concittadini e padri di famiglia crea uno spazio dove i calciatori possano prepararsi alle gare regionali, fare le trasferte, avere spogliatoi e divise. Nel 2000 la nuova casa è finalmente pronta, ma arriva anche la nefasta diagnosi di una malattia virale mortale, un calvario della carne che dura 12 anni, nei quali mio padre trova la forza di difendersi dalle accuse del “pacchetto sicurezza” 2011. L’indagine che porterà alla confisca definitiva della nostra casa si chiama “secondo piano”. Ovvero insinua che il tetto che mio padre ci ha messo sulla testa sia stato costruito con i proventi di spaccio di sostanze stupefacenti. Il tribunale non assume nessuna perizia tecnica e prova di innocenza; al contrario, si basa su supposizioni dichiarate “inconfutabili” per quanto riguarda i proventi giudicati “illeciti”. Il punto di forza dell’indagine è proprio descrivere un soggetto diverso dalle azioni di Dipalma-padre, sì da creare una figura più coerente alla condotta di Dipalma-giovane. Raffaele era un uomo che non beveva neanche una birra, non fumava, non aveva tatuaggi, non giocava, non scommetteva né aveva a che vedere con attività di spaccio, e disprezzava profondamente tutto ciò, così come anche noi figli cresciuti con lo stesso costume. Era una persona sorridente e propositiva. Secondo la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Bari, non sono le resistenze alle tentazioni e la rinuncia allo sfarzo ad aver permesso ai coniugi Dipalma di avere un tetto sulla testa. Il calvario della malattia e la morte prematura di Raffaele non è stato l’animus che lo ha spinto a intestare la casa alle proprie figlie e a sua moglie. No, moglie e figlie sono vittime, “teste di legno” del boss mafioso, senza discussioni e senza presunzione di innocenza! La storia romanzata del clan e della mafia parte e finisce con le fantasie di chi non ha idea di come edificare i sogni delle persone, di come incentivarle e creare un ambiente di lavoro allegro e accogliente che abbia la finalità di sviluppare un territorio. Queste invenzioni fantastiche, al contrario, risolvono la propria ignoranza con una falsa accusa: adesso nessuno potrà più dire che Raffaele è più bravo, è libero di lavorare meglio di altri, e ha guidato un’azienda nella costruzione di 80 villette bifamiliari che hanno migliorato la condizione di vita dei cittadini in Puglia. Il lavoro è sopravvalutato, non ci si può ricostruire una vita e uno status basato sul sudore della fronte e la sofferenza. Certi visionari vanno fermati prima che possano renderci un paese civile che rispetti il lavoro e il capitale! NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH ANCHE SE NON LE PIACE AMMETTERLO, LA CORTE DI STRASBURGO SA BENE COSA SIA LA PRESUNZIONE DI INNOCENZA Francesco Morelli* Leggendo la decisione della Corte Edu Garofalo contro Italia, in materia di confische preventive, emergono poche ma granitiche certezze. La prima è che la Corte è restia ad applicare limpidamente il diritto della Convenzione e i suoi corollari naturali. Lo dichiara spiegandocene le ragioni: le misure di questo tipo incontrano un «crescente consenso internazionale». Una posizione politica e, sebbene una Corte stia proprio lì per assicurare la prevalenza del diritto, saremmo ingenui a pensare che sia del tutto estranea alla “ragion di Stato”. La seconda è che lo Stato è legittimato a perseguire reati senza instaurare il processo penale, e quindi senza presumere innocente la persona colpita. Questa è una novità, non certo rispetto all’attualità, ma rispetto alle Carte dei diritti. Perché dalla Convenzione, o dalle Costituzioni, questo dato non emerge. Ma qualcuno di voi aveva per caso inteso che la presunzione d’innocenza proteggesse l’imputato in un processo penale, ma se si fosse avuta l’idea di colpire i beni e la vita di una persona senza renderlo imputato, egli sarebbe stato ritenuto responsabile senza accertamento? Mi si dirà che ho frainteso: la confisca preventiva non punisce nessuno, non è una pena; non si fonda su un reato, ma sulla pericolosità; e poi colpisce cose, non persone, infatti è una actio in rem, dice la Corte. Ma non credo di aver frainteso. Certo che non è formalmente una pena, non c’è neppure un processo penale infatti. E tuttavia, negli effetti materiali, è proprio identica a una pena, ma non secondo una osservazione del fenomeno (prendo delle cose tue e te le porto via, for dummies), ma secondo proprio i criteri che la stessa Corte Edu ha individuato per definire una pena in senso materiale e non formale. La confisca non si fonda su un reato, ma sulla pericolosità dei beni. Da cosa desumiamo la pericolosità? Dai fatti illeciti, le azioni criminose, i delitti (reati, for dummies) attribuiti in sede preventiva alle persone che quei beni posseggono o hanno posseduto. I beni non potranno mai essere pericolosi se non sono collegati a ciò che le persone hanno fatto per averli, generarli, usarli. Quindi, la confisca preventiva si fonda sull’esistenza di reati. Attendo smentite. Argomentate, però. È così chiaro questo pensiero, che la Cassazione italiana s’è dovuta inventare una “appartenenza” mafiosa diversa dalla “partecipazione” mafiosa. La prima presupposto della confisca ma non reato, la seconda reato. Quindi il Governo italiano, tutto tronfio, per salvare l’insalvabile, ossia le confische preventive, è andato sostenendo a Strasburgo che l’appartenenza all’associazione mafiosa, al contrario della partecipazione, in Italia non è reato e se io appartengo alla mafia (ma non vi partecipo) e sono nullatenente, agisco nel lecito e non posso essere colpito. L’Italia è il paese dell’avanguardia nella lotta alla criminalità organizzata. Tutto torna. La confisca colpisce solo cose, beni, non persone. Quindi le persone possono stare tranquille, a loro non accade nulla. Actio in rem. Sì, ma le cose appartengono a delle persone, perché se avessero una vita separata da queste, nessuno si lamenterebbe. Le “cose” sono soprattutto aziende che impiegano operai. Tanto più che la proprietà e l’iniziativa economica, sono diritti stabiliti dalle Costituzioni e dalla stessa Convenzione Edu. L’actio sarà pure in rem, ma l’exitus è ad personam. La terza certezza logica che possiamo trarre dalla Corte Edu, però, spalanca un mondo. La presunzione di innocenza non è solo quella che nasce da una accusa in un processo penale, dice la Corte (§143). È anche un principio che assicura a chi sia stato assolto dalle accuse di non essere trattato da alcuna autorità statale come fosse colpevole e quindi di non patire conseguenze negative di sorta in ragione di fatti che non gli possono essere attribuiti. La presunzione impedisce all’autorità statale di colpire le persone di cui un giudice non ha dimostrato la colpevolezza, di trattarli come fossero colpevoli, dato che non lo sono (for dummies). I Cavallotti, davanti alla Corte Edu, di questo si sono lamentati, al contrario dei ricorrenti in Garofalo. Ci diranno i Cavallotti, assolti in via definitiva da ogni accusa in sede penale, se sono stati trattati, dall’autorità statale, da innocenti o da colpevoli. Ci dirà la Corte Edu se confiscare tutti i beni di una famiglia, per gli stessi fatti che hanno comportato una assoluzione, significa trattare quelle persone da innocenti o da colpevoli, in ragione del “second aspect” della presunzione di innocenza, come ricorda la sentenza Garofalo. Ce lo dirà e noi ascolteremo. Ma scriveremo, anche. * Professore Associato di Diritto Processuale Penale, Università di Messina KUWAIT: CINQUE GIUSTIZIATI PER OMICIDIO Cinque persone sono state giustiziate in Kuwait il 28 aprile 2025 dopo essere state riconosciute colpevoli di omicidio premeditato. Le esecuzioni sono state praticate in carcere dalla Sezione Correzionale del Ministero degli Interni. Secondo fonti della sicurezza, l’esecuzione di un altro prigioniero è stata rinviata, mentre altri due condannati a morte sono stati graziati. Le fonti hanno affermato che tutte queste otto persone hanno ricevuto sentenze definitive. (Fonte: Arab Times, 28/04/2025) IRAN: 5 UOMINI E 1 DONNA GIUSTIZIATI A ISFAHAN PER DROGA Almeno sei detenuti sono stati giustiziati all’alba del 28 aprile 2025 nella prigione centrale di Isfahan, secondo informazioni ricevute dall’organizzazione Hengaw. I detenuti giustiziati sono stati identificati come Marjan Sabzi, una donna di etnia Lor di Khorramabad; Reza Khaledi, 28 anni, un uomo di etnia araba di Dezful; Naser Feyzi, 28 anni, un uomo di etnia Gilak di Rasht; Rouhollah Palangi, 36 anni, un uomo di etnia baluca e padre di due figli di Rigan, provincia di Kerman; Mohammad Tootazehie, 26 anni, un uomo di etnia baluca residente a Zahedan; e Abdolrashid Barahouei, 41 anni, un uomo di etnia baluca, padre di un figlio, di Zahedan. Tutti e sei i detenuti erano stati condannati con accuse relative a reati di droga. Fonti vicine al caso hanno affermato che Marjan Sabzi, originaria di Khorramabad, era stata arrestata circa cinque anni fa. Allo stesso modo, Naser Feyzi di Rasht e Reza Khaledi, un arabo di Dezful, erano stati arrestati quattro anni fa. Rouhollah Palangi era stato arrestato cinque anni fa a Isfahan. Mohammad Tootazehie e Abdolrashid Barahouei erano stati arrestati sei anni fa in un caso congiunto nella contea di Ardestan, nella provincia di Isfahan. Al momento della stesura di questo rapporto, le esecuzioni non sono state ancora annunciate ufficialmente dai media statali. (Fonte: Hengaw) ALABAMA (USA): JAMES OSGOOD GIUSTIZIATO James Osgood, 55 anni, bianco, è stato giustiziato il 24 aprile 2025 in Alabama. Osgood era stato condannato a morte nel 2014 per aver violentato e ucciso Tracy Brown, una donna bianca di 44 anni, il 13 ottobre 2010. Aveva confessato il crimine in un'intervista registrata con gli investigatori. Anche la allora fidanzata di Osgood, Tonya Van Dyke, bianca, che all'epoca aveva 43 anni ed era cugina della vittima, è stata accusata di complicità nello stesso crimine. Anche lei si è dichiarata colpevole al processo del 2015 ed è stata condannata all'ergastolo senza condizionale. Osgood è stato giustiziato nel penitenziario William C. Holman di Atmore con il metodo dell'iniezione letale con tre farmaci, dopo aver rifiutato la morte per azoto, quando l'Alabama ha consentito tale alternativa nel 2018. Nelle sue ultime parole, Osgood ha chiesto perdono per il crimine commesso. “Non ho più pronunciato il suo nome da quel giorno”, ha detto Osgood alle 18:11, legato alla barella dopo la lettura della sentenza di morte. Osgood ha detto che non aveva pronunciato il nome della sua vittima perché non ne aveva il diritto, ma ora sentiva che non nominarla era irrispettoso. Oggi sarebbe stata la prima volta che lo avrebbe detto. “Tracy, ti chiedo perdono”, ha detto. Il sipario delle sale di osservazione dell'esecuzione si è aperto alle 18:09. Dopo aver chiesto perdono alla sua vittima, Osgood ha rivolto alcune parole alla sua famiglia e agli amici che assistevano all'esecuzione. Alle 18:12, Osgood era seduto sulla barella e faceva dei gesti con le mani e le dita che significavano “1, 4, 3”. Due minuti dopo, sembrava chiedere qualcosa alle guardie all'interno della camera di esecuzione, ma non si sentiva nulla nelle sale di osservazione. Alle 18:15, Osgood ha appoggiato la testa sulla barella. Ha respirato profondamente per diversi minuti, finché un agente penitenziario ha eseguito un controllo standard dello stato di coscienza che consisteva nel gridare il nome di Osgood, pizzicargli il braccio e dargli dei colpetti sulle palpebre. Osgood non ha reagito ai movimenti. Sembrava aver smesso di respirare alle 18:18. Le tende della sala di osservazione si sono chiuse alle 18:25 e l'ora ufficiale della morte è stata fissata alle 18:35 (le 01:35 del 25 aprile in Italia). In una conferenza stampa dopo l'esecuzione, il commissario del Dipartimento di Correzione dell'Alabama John Hamm ha detto che il team esecutivo ha dovuto pungere quattro volte uno dei bracci di Osgood per stabilire la linea endovenosa per i farmaci letali. Ha detto che le vene di Osgood erano compromesse in quel braccio, ma il team ha fatto solo un tentativo per l'altra linea endovenosa nell'altro braccio. La famiglia della vittima ha assistito all'esecuzione, ma ha chiesto di rimanere anonima. Anche cinque dei cari di Osgood hanno assistito. Secondo una dichiarazione del Dipartimento di Correzione dell'Alabama, l'ultimo pasto di Osgood è stato una pizza. Ha fatto colazione e uno spuntino, ma ha rifiutato il vassoio del pranzo. Giovedì 24 Osgood ha incontrato 11 persone, tra cui sua figlia e sua sorella, altri membri della famiglia, amici e un avvocato. Ha anche parlato al telefono con un'altra persona. Mercoledì Osgood aveva incontrato una dozzina di persone e aveva fatto colazione, ma aveva rifiutato gli altri pasti. Quel giorno aveva anche parlato al telefono con sette persone. Osgood è la seconda persona ad essere giustiziata quest'anno in Alabama, l'ottantesima da quando lo Stato ha ripreso le esecuzioni nel 1983, il quattordicesimo detenuto giustiziato quest'anno negli Stati Uniti e il 1.621° in totale da quando la nazione ha ripreso le esecuzioni nel 1977. (Fonte: Al.com, 24/04/2025) I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS è un servizio di informazione gratuito distribuito dalla associazione senza fini di lucro Nessuno Tocchi Caino - Spes contra spem. Per maggiori informazioni scrivi a info@nessunotocchicaino.it |
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