NESSUNO TOCCHI CAINO - ‘NUOVO GIUNTO’, QUANDO IL CARCERE PUÒ PRENDERTI LA VITA
NESSUNO TOCCHI CAINO – SPES CONTRA SPEM |
Associazione Radicale Nonviolenta |
Anno 25 - n. 22 - 31-05-2025 |
LA STORIA DELLA SETTIMANA ‘NUOVO GIUNTO’, QUANDO IL CARCERE PUÒ PRENDERTI LA VITA NEWS FLASH 1. PAROLE LIBERATE: OLTRE IL MURO DEL CARCERE 2. MISURE DI PREVENZIONE: SODDISFAZIONE DI NESSUNO TOCCHI CAINO PER ESITO AUDIZIONE ALL’ARS 3. IRAN: 70ª SETTIMANA DELLA CAMPAGNA ‘MARTEDÌ DI NO ALLE ESECUZIONI’ 4. INDIA: CONDANNA A MORTE COMMUTATA IN ERGASTOLO ‘NUOVO GIUNTO’, QUANDO IL CARCERE PUÒ PRENDERTI LA VITA Questo racconto dice come e perché la maggior parte dei suicidi accada nei primi giorni di carcerazione. È il modo poetico per far sapere di una grande tragedia: prevedibile, annunciata, consumata e subito dimenticata. Quella delle 33 persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno. Dopo i 90 suicidi nel 2024, il numero più alto da trent’anni a questa parte, superiore addirittura al record che sembrava ineguagliabile di 84 suicidi nel 2022. Cesare Battisti Per alcuni giorni si è rintanato in cella. Uscire per l’ora d’aria voleva dire mischiarsi al carcere, sfiorare i muri e la sporcizia che li tiene in piedi, sentire il bisogno e la vergogna di accodarsi al macchinale andirivieni. Cominciare a morire a ogni parola pronunciata solo per ispessire il tempo. Non ce la faceva e si rannicchiava, come la preda quando chiude gli occhi per negare l’attacco. È una forma di suicidio passivo, il primo tentativo al quale si abbandona ogni nuovo giunto. È il momento in cui il carcere ci accomuna tutti, forti e deboli, grandi e piccoli, innocenti o colpevoli. Nell’impotenza più assoluta c’è qualcosa che si rompe, la diga cede e, come il martire che si offre a Dio, il nuovo giunto aspetta solo di essere inondato. Ma la morte liberatrice non arriva, lui ricomincia a respirare, staccando il corpo dalla coperta immonda, cerca il punto dove appendere la corda, se proprio non ce la dovesse più fare. C’è chi non vuole dare un minuto in pi ù alla prigione e allora si alza a occhi chiusi, strappa il lenzuolo, comincia a intrecciare. È noto come la maggior parte dei suicidi in carcere succedano nei primissimi giorni di prigionia. La corda è la speranza alla quale il detenuto appende i giorni e le ore di agonia, è anche la via di uscita che si tiene in serbo e grazie alla quale trova il coraggio di uscire allo scoperto. Di ingurgitare la pasta scotta al sugo e specchiarsi sulla faccia attonita dei compagni, assuefarsi alle espressioni burbere di guardie avvizzite dal lavoro, andare all’aria senza aspettarsi niente e dirsi che sarà solo per poco, tanto la corda non gliela può togliere nessuno. Ed è così che essa diventa tanto lunga che i piedi toccano per terra, le gambe si muovono da sole, i passi si fanno fermi e sempre più veloci. I carcerati diventano persone e le chiacchiere non sono più il rumore, pare vogliano digli qualcosa e così il nuovo giunto si mette ad ascoltare. Poi la smette anche di guardare a terra e gli capita di incrociare anche un sorriso, un’espressione seria, un gesto che dice a ltre cose: è il carcere che gli entra nelle vene. Ma imparare a convivere con la caterva di codici di comportamento in carcere, non è cosa facile, sarà l’esame più difficile della sua carriera. Alcuni non lo passano per difetto, altri ci rinunciano in partenza; gli uni e gli altri non avranno pace. Ma il nuovo giunto è prudente, prende il carcere a piccole dosi, vuole resistere all’omologazione, evita di farsi notare. La reclusione in sé non è forse il peggior dei mali. Star chiuso troppo a lungo può portare a crisi di follia, ma anche questo sarebbe uno sfogo umano, una sana reazione preferibile all’inevitabile appiattimento cerebrale. In uno spazio ridotto e affollato c’è da strisciare i muri per non provocare la suscettibilità di guardie e ladri esasperati. Così il nuovo giunto impara a rendersi invisibile, a cogliere da volti spenti e tutti uguali il segnale differente che può essergli vitale. Imbrigliare la mente, ridurre i battiti del cuore sono accorgimenti necessari. Ormai lui è un detenuto, sa di essere una macchina in stand-by. L’attesa sarà lunga, le energie vanno conservate: diventare il fantasma di sé stesso per non consegnare una molecola di vita alla prigione. Potrebbe essere una soluzione, ci vuole credere, ma non è così che funziona. Non si attraversa il fuoco senza bruciature, così come non si respira impunemente l’aria di prigione. Con astuzia e un pizzico di fortuna si può al massimo limitare il danno, ritardare almeno l’ora in cui la mente si rifiuterà tout court di reagire. Ma alla fine, quando sarà giunto il momento tanto atteso e gli si aprirà la porta ambita, all’esperto detenuto non è rimasta più nemmeno la facoltà di capire che tutto ciò che il nuovo giunto era lo ha poco a poco usato per imbrattare un muro di prigione. NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH PAROLE LIBERATE: OLTRE IL MURO DEL CARCERE Questo articolo è anche l’annuncio di due eventi che si svolgeranno, il primo, il 5 giugno nel carcere femminile di Taranto, il secondo, il 6 giugno nel carcere minorile di Bari, dove verrà presentato il progetto “Parole liberate: oltre il muro del carcere” promosso dal giornalista Michele De Lucia, dall’attore Riccardo Monopoli e dall’autore Duccio Parodi. Si tratta di un Premio riservato alle persone detenute alle quali viene proposto di essere co-autori di una canzone: la lirica vincitrice è poi affidata a un artista già affermato, affinché la metta in musica e la interpreti. Duccio Parodi Il 31 dicembre 2024 Elena Scaini ha liberato oltre il muro del carcere le sue parole, e il 3 marzo 2025 si è tolta la vita. Le persone detenute scrivono per molti motivi e un unico bisogno: trovare ascolto. Elena non aveva più motivi, non aveva più bisogno, nemmeno di sapere se avesse “vinto”. Restano le sue tre poesie, le parole che ci ha affidato. A qualcuno verrà in mente Carlo Levi e il suo “le parole sono pietre” e penserà che quelle di Elena questo siano, pietre, e come sempre nessuno ricorderà che, prima delle parole, prima delle pietre, sono le lacrime. E mentre il nuovo pontefice invita a “disarmare le parole” e benvenute siano queste, appunto, parole, sarebbe utile che seguissero le istruzioni su come farlo, questo disarmo, visto che le esortazioni alla tolleranza e le marce per la pace nel mondo non sono servite a granché. E se nei dieci anni trascorsi seminando bandi riservati ai detenuti abbiamo raccolto migliaia di parole, e contato i nomi di chi, come Elena, ha lanciato il proprio corpo disperato un po’ più in là dell’ultimo portone blindato lasciando a noi le istanze e i protocolli e le prassi pallide ma feroci che tanto ci assomigliano, abbiamo anche imparato che le parole da disarmare non sono quelle che vengono da dentro le mura, ma quelle di fuori, quelle della società civile che esulta in tribunale quando il giudice legge la sentenza più gradita, o che si sente defraudata quando la pena è inferiore al massimo e non soddisfa la sua esigenza di vendetta. Certo sarebbe ingiusto stigmatizzare chi prova il desiderio di infliggere un castigo a chi gli ha causato un dolore o una perdita, e sarebbe ridicolo oltre che ingiusto pensare di stravolgere un codice – quello penale, appunto – che di questo si occupa. E quanto “fare giustizia” fosse necessario lo aveva già compreso Hammurabi quasi quattromila anni fa; le sue leggi erano piuttosto semplici: occhio per occhio, dente per dente. Questo simpatico motto rimase in vita fino a quando Mosè con le stesse parole introdusse un diverso concetto, quello della riparazione. Il senso del suo “occhio per occhio” infatti non era “te ne cavo uno a te se tu me ne cavi uno a me” bensì “ti porto in tribunale e me lo paghi, l’occhio”, e seguiva un articolato tariffario. Questa legge appare severa perché infarcita di condanne a morte, ma si tratta di una severità pedagogica ché arrivare a sentenza era molto complicato, dato che se il voto degli anziani era unanime (segno che l�€ ™imputato non aveva nemmeno un amico), non si poteva condannare e in ogni caso era necessario almeno un testimone oculare, requisito difficile da soddisfare. Dopo Mosè si tornò alle esecuzioni facili e alle torture e si inventarono le prigioni, e ci vollero due millenni per arrivare a Beccaria; e a quel punto preferimmo Hammurabi. È proprio qui, nell’ambito della giustizia e della pena che una distorsione del significato ha trasformato le parole in armi: penitenziario per esempio significa confessore, non prigione, e questa torsione del significato diviene tortura del corpo, perché penitenziario non è più la persona che redime, ma il luogo dove la pena si infligge, parola che suggerisce percuoti, scaglia contro. Come “carcere”, dal latino “carcer”, recinto per le greggi, a sua volta derivato dall’aramaico “carcar”, seppellire, tumulare, perché i prigionieri in attesa di giudizio venivano calati nelle cisterne scavate nel terreno (vedi Giovanni Battista). Le parole che derivano da pena, quindi penitenziario, espiazione, pietà, penale, punire e punizione trovano la loro radice nel sanscrito “pu” ovvero purezza, p ulizia. Castigare e castigo vengono dal latino “castus” anche qui puro, pulito. Dis-armate le parole, resta il senso di una redenzione (ri-comprare, ri-ammettere) attraverso gli strumenti della educazione del reo (vedi edificazione, costruzione della persona, non certo la rieducazione modello cinese) e non della distruzione afflittiva come richiede la vendetta. Il sentimento di vendetta, che comprensibilmente abita nelle vittime dei delitti e che ha originato le accezioni oppressive dei termini che indicano le prigioni (dal latino per “prendere con forza”, e anche “edera”) non può essere trasferito nella legge. Vorrei poter dire a Elena Scaini che ci ha insegnato qualcosa, che qualcosa di lei è rimasto. Non lo so cosa sia rimasto. Forse una canzone. MISURE DI PREVENZIONE: SODDISFAZIONE DI NESSUNO TOCCHI CAINO PER ESITO AUDIZIONE ALL’ARS Palermo, 28 maggio 2025 Si è svolta questa mattina presso la III Commissione (Attività Produttive) dell’Assemblea Regionale Siciliana, presieduta dall'On. Gaspare Vitrano, l’audizione dell’Associazione Nessuno tocchi Caino “in merito ai disagi vissuti dai titolari di imprese sottoposte a misure di prevenzione dall’autorità giudiziaria ordinaria, affidate all’amministrazione giudiziaria e successivamente restituite”. Alla presenza dell'assessore alle attività produttive Edmondo Tamajo e a parlamentari di tutti i gruppi politici sono intervenuti il Segretario Sergio D’Elia e gli imprenditori dirigenti di Nessuno tocchi Caino Pietro Cavallotti e Massimo Niceta. Tutti hanno riconosciuto la gravità del problema e l'assessore Tamajo ha chiesto al Presidente della Commissione di convocare un tavolo con banca Irfis, assessorati e commissioni competenti dell'Ars per preparare una norma che permetta agli imprenditori ingiustamente colpiti dalle misure di prevenzione di poter ripartire con l'attività imprenditoriale. Sarà avviata anche una indagine sul numero delle imprese ingiustamente sequestrate in Sicilia per comprendere la dimensione di quella che - ha rilevato Sergio D'Elia - "è a tutti gli effetti una grande questione sociale". L'assessore Tamajo ha anche proposto che per quanto riguarda i prossimi bandi regionali vi siano delle premialità per questi imprenditori in difficoltà. Nessuno tocchi Caino esprime la sua piena soddisfazione per l'andamento dell'audizione ringraziando il Presidente Vitrano, i numerosi componenti la commissione, in particolare Salvo Tomarchio per aver proposto l'audizione e l'assessore Tamajo per le sue importanti conclusioni e proposte operative. Link alla conferenza stampa a Palermo per dar conto dell'audizione di Nessuno tocchi Caino all'Ars: https://www.youtube.com/live/ IRAN: 70ª SETTIMANA DELLA CAMPAGNA ‘MARTEDÌ DI NO ALLE ESECUZIONI’ Martedì 27 maggio 2025, la campagna ‘Martedì di No alle esecuzioni’ è entrata nella sua 70ª settimana. I detenuti della prigione di Fardis a Karaj hanno aderito alla campagna, che ora coinvolge 45 prigioni. Nella dichiarazione di questa settimana, i detenuti hanno fatto riferimento all'esecuzione di 170 persone durante il mese iraniano di Ordibehesht (dal 21/04 al 21/05) e hanno sottolineato che il 19% delle persone giustiziate erano detenuti di etnia baluca. Hanno avvertito: “Questo comportamento disumano del regime dittatoriale nei confronti delle minoranze e del popolo iraniano è un chiaro esempio di crimini contro l'umanità e una grave violazione dei diritti umani”. Il testo completo della dichiarazione della 70a settimana della campagna “martedì di No alle esecuzioni” è il seguente: Con l'adesione della prigione di Fardis a Karaj alla campagna “Martedì di No alle esecuzioni”, il movimento si è ora esteso fino a comprendere 45 prigioni durante la sua 70a settimana Con profondo rammarico e dolore, l'uccisione dei detenuti sotto il regime tirannico non è cessata; anzi, le cifre relative a questa “follia sancita dallo Stato di giustiziare cittadini incarcerati” continuano ad aumentare. Nel mese di Ordibehesht, l'apparato repressivo del Leader Supremo ha giustiziato più di 170 nostri concittadini, un numero senza precedenti e terrificante che indica che in Iran sono stati giustiziati due detenuti ogni nove ore. Purtroppo, circa il 19% di queste esecuzioni ha riguardato i nostri compatrioti oppressi di etnia baluca, che subiscono ingiustizie e discriminazioni aggravate. La Campagna invita sinceramente tutti i difensori dei diritti umani e coloro che desiderano un Iran libero e uguale a schierarsi con le vittime dell'oppressione in questi giorni e anni difficili. La dittatura al potere, violando il diritto a un processo equo e compiendo esecuzioni di massa, calpesta il “diritto alla vita” delle minoranze etniche e religiose, mandando spudoratamente al patibolo detenuti baluchi, curdi, arabi e ideologici. È necessario e lodevole che i simpatizzanti iraniani, specialmente quelli che hanno accesso alle piattaforme internazionali, facciano sentire la voce del popolo iraniano che grida “No alle esecuzioni” e denuncino al mondo la serie di omicidi perpetrati dal regime. Questo comportamento disumano del regime dittatoriale nei confronti delle minoranze e del popolo iraniano è un chiaro esempio di “crimini contro l'umanità” e una flagrante violazione dei diritti umani. Ogni esecuzione in Iran ha un peso politico, non rappresenta semplicemente la punizione di un imputato, perché ogni persona accusata è vittima di un sistema di governo corrotto e disfunzionale. Inoltre, non esiste un processo giudiziario equo all'interno dell'apparato giudiziario e di sicurezza del regime. L'obiettivo principale di queste esecuzioni è instillare la paura e prevenire rivolte popolari. Con l'aggravarsi della crisi nel Paese, aumentano anche la repressione e le esecuzioni. Pertanto, “il silenzio non è la risposta”. Dobbiamo alzare la voce e ribellarci contro questa oppressione e questa ingiustizia. Da settimane, le famiglie dei detenuti politici condannati a morte, insieme ai giovani e ai cittadini che aspirano alla libertà, stanno alzando la voce davanti alle prigioni di tutto il Paese e nelle città di tutto il mondo, cantando “No all'esecuzione” e sostenendo la campagna. Con lo stesso spirito, in un atto di resistenza creativa, le detenute che partecipano a questa campagna nella prigione di Evin si riuniscono ogni martedì durante le proteste delle famiglie per gridare “No alle esecuzioni”. Questa solidarietà dentro e fuori le prigioni è ammirevole. Lo slogan “No alle esecuzioni” merita di risuonare nelle strade e nelle manifestazioni di protesta di ogni gruppo sociale. Siamo lieti di annunciare che questa settimana un gruppo di detenuti della prigione di Fardis a Karaj ha aderito alla campagna “martedì di No alle esecuzioni” per protestare contro l'ondata di esecuzioni e ha deciso di intraprendere uno sciopero della fame. Così, martedì 27/05/2025, la Campagna continuerà nella sua 70ª settimana in 45 prigioni, sotto forma di sciopero della fame: Prigione di Evin (reparto femminile, reparti 4 e 8), Prigione di Qezel-Hesar (unità 3 e 4), Prigione centrale di Karaj, Prigione della Grande Teheran, Prigione di Khorein Varamin, Prigione di Choobindar Qazvin, Prigione di Arak, Prigione di Khorramabad, Prigione di Yasuj, Prigione di Asadabad Isfahan, prigione di Dastgerd Isfahan, prigione di Sheiban Ahvaz, prigione di Sepidar Ahvaz (reparti maschili e femminili), prigione di Shiraz Nezam, prigione di Adel Abad Shiraz (reparti maschili e femminili), prigione di Zahedan (reparto femminile), prigione di Borazjan, prigione di Ramhormoz, prigione di Behbahan, prigione di Bam, prigione di Kahnuj, prigione di Tabas, prigione di Mashhad, prigione di Gonbad-e Kavus, prigione di Qaemshahr, prigione di Rasht (reparti maschili e femminili), prigione di Rudsar, prigione di Haviq Talesh, prigione di Azbarm Lahijan, pri gione di Dizel Abad Kermanshah, prigione di Ardabil, prigione di Tabriz, prigione di Urmia, prigione di Salmas, prigione di Khoy, prigione di Naqadeh, prigione di Miandoab, prigione di Mahabad, prigione di Bukan, prigione di Saqqez, prigione di Baneh, prigione di Marivan, prigione di Sanandaj, prigione di Kamyaran, prigione di Fardis a Karaj. (Fonte: IRAN-HRM) INDIA: CONDANNA A MORTE COMMUTATA IN ERGASTOLO L'Alta Corte del Madhya Pradesh ha commutato la condanna a morte di un uomo riconosciuto colpevole di aver rapito e ucciso il nipote di sei anni, condannandolo invece all'ergastolo senza possibilità di liberazione, ha riportato l’agenzia TNN il 25 maggio 2025. Nello stesso caso, la sezione dell’Alta Corte composta dai giudici Vivek Agrawal e Dev Narayan Mishra ha anche annullato la condanna all'ergastolo di una coimputata. Il 12 marzo 2019, Shivkant Prajapati, di sei anni, del villaggio di Rahikvara, nell'area della stazione di polizia di Nagod a Satna, fu rapito dallo zio Anutav. La coimputata Vibha, alias Vidya Prajapati, chiamò la famiglia del bambino, chiedendo un riscatto di 200.000 rupie. Lo zio è stato riconosciuto colpevole di aver ucciso il bambino mediante strangolamento. La polizia depositò un atto di accusa contro l'imputato presso il tribunale di Nagod. Il tribunale giudicò il caso come rientrante nella categoria dei casi più rari tra i rari, condannando a morte lo zio imputato. La coimputata venne condannata all'ergastolo. Il caso è stato poi deferito all'Alta Corte per la conferma della sentenza. È stato inoltre presentato un appello presso l’Alta Corte per contestare la sentenza. L’Alta Corte ha rilevato che l'imputato aveva solo 21 anni al momento del crimine. Inoltre, il crimine è stato commesso per denaro. L’Alta Corte non ha ritenuto che il caso rientri nella categoria dei più rari tra i rari e ha commutato la condanna a morte. Per mancanza di prove, l’Alta Corte ha anche annullato la condanna all’ergastolo della coimputata. (Fonte: TNN, 25/05/2025) I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS è un servizio di informazione gratuito distribuito dalla associazione senza fini di lucro Nessuno Tocchi Caino - Spes contra spem. Per maggiori informazioni scrivi a info@nessunotocchicaino.it |
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